La fotografia come occasione di scoperte. È di questo che vogliamo parlare in queste righe, perché in questi giorni e nei prossimi mesi le occasioni di scoperte saranno molte. In grado di colmare lacune, di far conoscere situazioni che caratterizzano Paesi lontani o di far ricordare momenti remoti nel tempo e nello spazio. Ma anche occasione di verificare che spesso una foto diventa mitica perché capace di sintetizzare fatti ed emozioni, ma molte altre compongono il lavoro di quello stesso fotografo e sono ugualmente significative.

Una immagine vale più di mille parole: l’espressione non è certo nuova e si presta a lunghe discussioni. A cominciare dal fatto che sono proprio le parole a esprimere questo concetto. Un testo attira sicuramente l’attenzione in modo maggiore se pubblicato con una foto accanto, anche se non esplicativa dello scritto. E qui nasce una prima discussione, perché una foto in quanto tale è considerata un documento: lo vedo, dunque è reale. Ma è proprio così? Che cosa c’era accanto ed è stato tagliato dall’inquadratura? La foto è stata costruita per raccontare quel che si vuole? Il soggetto non cambierebbe totalmente se ripreso da un altro punto di osservazione? Tutti dubbi che vale la pena di prendere in considerazione. Ma non in questa occasione: qui vogliamo, tra l’altro, puntare l’accento proprio su quell’espressione «una immagine». Letterale: una foto sola. Perché spesso una sola foto è diventata mitica, una sola foto è ricordata da tutti, anche se il suo autore ne ha scattate molte di più.

Un caso emblematico è il ritratto di Che Guevara scattato da Korda: la foto, famosissima, è forse una delle più riprodotte, finita anche su t-shirt. Non tutti ne conoscono la storia e ricordano che fu Feltrinelli a prenderla – non pagarla, perché l’autore non chiese nulla – e, quando quattro mesi dopo il Che fu ucciso, utilizzarla per un poster vendendone un milione di copie. E sicuramente ancor meno conosciuto è il lavoro di Korda, che fotografò il Che in varie altre occasioni e documentò la rivoluzione cubana, ma lavorò anche come fotografo subacqueo e di moda. E chi si ricorda il suo vero nome? Per chi se lo sta chiedendo, era Alberto Díaz Gutiérrez.

Benvenuto alle truppe americane a Monreale, 23 luglio 1943 Photograph by Robert Capa © International Center of Photography/Magnum - Collection of the Hungarian National Museum

Tutto questo per dire che spesso di un fotografo molti ricordano una sola immagine (o una sola serie) senza pensare al lavoro che sta dietro. Vederlo può diventare per il pubblico una scoperta. Quanti, ad esempio, di Robert Capa ricordano in particolare il miliziano ferito insieme a una foto in particolare dello sbarco in Normandia, una delle undici salvate da uno sviluppo sbagliato? Vivranno dunque come una scoperta una mostra che arriva ora a Milano, che permette di ampliare la conoscenza di un fotografo che documentò i cinque maggiori conflitti mondiali fotografando la guerra civile spagnola, la guerra sino-giapponese, la seconda guerra mondiale, la guerra arabo-israeliana del 1948 e la prima guerra d’Indocina. È “Robert Capa in Italia”, che presenta 78 immagini in bianco e nero scattate nel biennio 1943 – 44, per documentare lo sbarco degli alleati in Italia. La mostra è esposta fino al 26 aprile 2015 a Milano allo Spazio Oberdan, e su una parete riporta uno scritto particolarmente significativo del fotografo. «È dalla Spagna che scattavo foto di guerra di sangue ma neppure dopo sette anni lo stomaco si è abituato alla vista della carne viva e del sangue fresco».

«Le settantotto fotografie esposte a Spazio Oberdan – si legge sulla presentazione - mostrano una guerra fatta di gente comune, di piccoli paesi uguali in tutto il mondo ridotti in macerie, di soldati e civili, vittime di una stessa strage. L’obiettivo di Robert Capa tratta tutti con la stessa solidarietà, fermando la paura, l’attesa, l’attimo prima dello sparo, il riposo, la speranza». Per il pubblico comunque si tratta di una scoperta: di un lavoro meno noto del fotografo, ma anche di fatti ugualmente non molto conosciuti, che hanno riguardato la nostra storia e poco noti per motivi anagrafici al pubblico che oggi può visitare la mostra. Per chi, oltre alle foto visibili in mostra, vuole conoscere di più di Capa e della fotografia di guerra è disponibile il catalogo Fratelli Alinari dal titolo “Robert Capa in Italia”.

Katlehong, Johannesburg. Un train surfer in azione. Foto di Marco Casino

Ugualmente una scoperta possono rappresentare le immagini di Marco Casino che ha immortalato la prima generazione sudafricana nata e cresciuta con la democrazia, a 20 anni dalla fine dell’apartheid. La mostra “Born free” è esposta fino al 28 febbraio presso la Leica Galerie di Milano ed è una occasione per scoprire come vive attualmente la popolazione del Sud Africa grazie ad immagini che documentano il fenomeno del train surfing, sport estremo che consiste nell’eseguire acrobazie all’esterno dei treni in corsa; le elezioni presidenziali in Sud Africa nel maggio 2014; la criminalità, la violenza e l’abuso di potere da parte delle forze dell’ordine; l’utilizzo di droghe e le feste tradizionali.

La fotografia diventa dunque una occasione per scoprire e conoscere meglio dei fotografi e, insieme, delle realtà lontane nel tempo o nello spazio. Così saranno anche molte delle mostre che formeranno il panorama del Photofestival. Che quest’anno, per questa nona edizione che coincide con l’Expo, raddoppia richiamando l’attenzione sulla fotografia in due periodi, dal 20 aprile al 20 giugno e dal 15 settembre al 31 ottobre. Tra le prime mostre già annunciate per la prima tranche due sembrano maggiormente offrire possibilità di scoperte al pubblico. La galleria Barbara Frigerio Contemporary Art di via Ciovasso 3 ospiterà una mostra di Maurizio Galimberti: dal 7 maggio al 14 giugno sarà possibile scoprire un’Italia poetica di anni passati attraverso delle immagini Polaroid, un’altra scoperta per il pubblico più giovane, che se conosce Polaroid forse non sa quanto era possibile realizzare con questa pellicola a sviluppo immediato. Un’altra occasione di scoperte può essere “Milano 1955-2015, Sessant’anni di Fotografie” che, presso La Cavallerizza di via C. Foldi 2, permetterà di scoprire, dal 15 aprile al 22 maggio, anche quella Milano di cui si sono persi i ricordi e del tutto sconosciuta ai più giovani. In più, grazie a un incontro il 13 maggio con Cesare Colombo, che presenterà un excursus sulle grandi mostre fotografiche che si sono succedute negli ultimi anni a Milano, sarà anche possibile conoscere (o ricordare) come il capoluogo lombardo ha parlato di fotografia, offrendo occasioni di incontri ravvicinati con fotografi e i loro lavori.

Sala d’aspetto medico. Milano 1963. Foto di Ernesto Fantozzi. Dal Photofestival 2015

«Ci sono cose che nessuno riesce a vedere prima che vengano fotografate»: con queste parole di Diane Arbus si annuncia una rassegna che consentirà scoperte o inaspettate riflessioni grazie alla fotografia. È “Ottovolanti” che dal 6 febbraio al 2 aprile all’Area35 Art Factory Galleria Contemporanea in via Vigevano 35 a Milano permetterà di scoprire otto ricerche di otto ex studenti dell’Istituto Italiano di Fotografia (IIF) per altrettante settimane. Si comincia con “Transhumance” di Francesca Todde, che si annuncia come «Un viaggio nella campagna francese per oltrepassare le frontiere, mentali e fisiche, che separano uomini ed animali». Emerge uno stretto rapporto con gli animali che può caratterizzare tutta la vita di un uomo. Transumanza, dice il titolo: quanti ne hanno una esperienza personale per averla vista o considerata come fatto ancora attuale?

(data di pubblicazione: febbraio 2015)

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