Polaroid, questa parola racchiude un mondo. Tutti o quasi abbiamo avuto un apparecchio fotografico Polaroid e ognuno di noi nell'arco della propria esistenza ha avuto l'occasione di vedere delle foto in formato Polaroid: anzi, molti ne hanno sicuramente qualcuna nel cassetto o nell'album di famiglia, ricordo di tempi passati, di un momento felice racchiuso in uno scatto. Per sapere come è nata e si è sviluppata quella che ormai non è soltanto una marca fotografica ma un vero e proprio mito, basta cliccare su Google o su YouTube: i siti e i video dedicati all'argomento sono infiniti, non c'è che l'imbarazzo della scelta. Nel mondo gli appassionati di questo genere di fotografia sono moltissimi, sia fra i fotografi professionisti sia fra chi scatta a livello amatoriale, ma le foto Polaroid sono state amate anche da chi fotografo non lo è affatto: penso ad esempio ai critici d'arte, che magari non prendono mai in mano un apparecchio fotografico e non scattano foto, però sanno molto sull'argomento e questo perché alcune Polaroid sono entrate nella storia dell'arte come vere e proprie opere artistiche.

Fulvio AbbateFulvio Abbate, scrittore ma anche critico d'arte (lui vorrebbe metterci davanti la parolina "ex", ma io non ce la metto perché secondo me se sei stato critico d'arte per un periodo della tua vita lo rimarrai finché avrai respiro, non ci si dimette da ciò di cui si ha competenza e sensibilità, mai, nemmeno se si smette di esercitare, almeno secondo me), durante un pomeriggio trascorso a casa mia mi ha raccontato la sua visione del mondo delle Polaroid ed è una visione del tutto personale, originale ed interessante.

Fulvio Abbate: La Polaroid è l'espressione massima dell'istantaneità della fotografia. Tutti hanno sognato di avere una foto all'istante, un po' come qualcosa che paradossalmente abbia la stessa velocità dello schizzo, del pittore che ti tratteggia il viso. E forse è questa la ragione che ha portato alcuni artisti, diciamo coevi della Polaroid - che è una marca ma anche una categoria dell'essere fotografico - ad avvicinarsi a questo tipo di rappresentazione artistica.

od: In che senso?

FA: Le Polaroid sono un pianeta fotografico preciso e ben definito anche da un punto di vista formale, nel senso che il formato standard più riconoscibile della Polaroid alla sua età adulta è il quadrato con un rettangolo bianco in basso e con una scansione precisa. Dev'essere stata questa la ragione per cui artisti come Andy Warhol l'hanno usata notevolmente. Mi viene in mente Andy Warhol con una Polaroid che "spara" su papa Wojtyla. Durante un viaggio di Giovanni Paolo II, mi sembra a Napoli, Warhol si trovava lì per una mostra dedicata al terremoto, sarà stato il 1983-84; si vede Wojtyla che passa e questo turista americano dalla parrucca d'argento che "spara" producendo immediatamente un'istantanea dell'evento del papa, e quindi c'è un atto assolutamente turistico ma anche assolutamente straordinario dato dalla Polaroid. Questa è forse la più prosaica delle macchine fotografiche, e ciò prima di tutto perché non ti sazia mai: tu non rimarrai mai sazio di un rullino di un caricatore di Polaroid. La succursale italiana di Andy Warhol fotografo di Polaroid è stato Mario Schifano che, come Warhol, voleva il qui e subito e quindi ha usato la Polaroid per comporre un catalogo infinito del visibile: ma accentuerei l'elemento dell'infinito perché il catalogo tutto sommato ha una sua finitezza e invece la Polaroid, così come la utilizzava Schifano, no.

od: Come la utilizzava?

FA: La utilizzava in due modi: da una parte per fotografare la televisione e dall'altra per fotografare i corpi. Schifano non ha lavorato solo con la Polaroid, da un certo momento in poi ha operato anche con una normale macchina fotografica coi formati tradizionali e va aggiunto che Schifano poi interveniva come Andy Warhol sulle foto con i pennarelli in termini "cosmetici", appunto come Warhol: se tu pensi alla serie di "ladies and gentlemen", dei travestiti per intenderci, tutti hanno un intervento cosmetico, e comunque anche le opere su commissione che Warhol realizzava hanno un intervento cosmetico e lo stesso vale per Mario Schifano.

Tornando però a Mario, lui l'ha utilizzata in questi due modi, ossia per fotografare i corpi e per fotografare la televisione. Mettiamo da parte per un momento la televisione e prendiamo l'esempio dei corpi: tempo addietro ho ritrovato un libro che Schifano mi aveva regalato e in mezzo, casualmente, c'era la Polaroid di un corpo nudo di donna, i pantaloni giù e la maglietta tirata su. Manca il volto, quindi non saprò mai a chi quei peli pubici, quel monte di Venere, a chi quel seno appartengono, ed è una sorta di "corpo ignoto". Dicevo di un catalogo infinito perché c'è stato un momento in cui Mario Schifano ha pensato di dare l'incarico a una ragazza di dividere e catalogare le sue foto per insiemi, e gli insiemi sono anche molto casuali, sono ritratti, volti, immagini che trasmigravano dentro la televisione; parlo di queste immagini come di trasmigrazione, come fossero delle anime, visive; da una parte sono riconoscibili, mezzi busti della televisione, per esempio, ma dall'altro possono essere cieli, i cieli del meteo e quindi in questo caso la Polaroid non è mai oggettiva, diciamo che trascende la sua oggettività perché è come se improvvisamente Schifano scegliesse un frammento, un passaggio, un momento del tempo dell'immagine in movimento che serviva a raccontare l'Immagine e la faceva diventare l'Immagine con la "I" maiuscola.

Mario Schifano e Fulvio AbbateNon è una Polaroid, però io possiedo una foto di Schifano fatta alla televisione per il centenario del cinema dove si vede Charlot di spalle e una scritta in sovraimpressione dei fratelli Lumiere: "Ora che possiamo fotografare i nostri cari non soltanto immobili ma anche in movimento, la morte cessa di essere assoluta". Comunque è impossibile circoscrivere il confine di un lavoro fatto con le Polaroid così come avveniva per Schifano. La prima volta che ho visto delle sue Polaroid è stato nel 1978, l'ho anche raccontato in un mio romanzo ("Quando è la rivoluzione" ndr). Sibille Sedat, un'amica di Schifano e di un regista, Franco Brogani, in quel periodo sul set de "La città delle donne" di Fellini, era stata a casa di Schifano una sera, quando abitava al museo napoleonico, pallazzo Primoli per intenderci, e lui le aveva poi fatto dono di una serie di scatti che avevano tutte le prerogative della Polaroid: c'era una sorta di buio e da questo buio era come se emergesse la sostanza corporea di Sibille e quindi il plusvalore artistico andava attribuito all'autore della foto – benché fosse chiara la estemporaneità – e alla peculiarità della resa fotografica che una Polaroid ti consegna. In questo senso, se è vero che Mario Schifano era un artista pop, anche se lui rifiutava questo marchio, l'uso della Polaroid, che è uno dei simboli del consumo di massa, del paesaggio fotografico industriale, era già un a priori estetico.

La Polaroid viene però anche usata nel cinema: la usano le segretarie di edizione, perché ogni volta che ci si lascia, che è il momento di andar via perché è terminata una giornata di lavorazione, la segretaria di edizione si mette davanti all'attore e, come un poliziotto della sezione segnaletica, lo fotografa in ogni particolare, affinché il giorno dopo sia possibile ricostruire di che colore era la camicia, di che colore era la giacca, qual era l'altezza dei baffi, eccetera; poi queste Polaroid vengono spillate nel giornale di lavorazione del film così che l'indomani ci si possa ricordare i dettagli precisi del trucco o dell'abbigliamento degli attori. Se ci fosse stata la Polaroid al tempo di Scipione l'Africano, non si sarebbero visti gli antichi romani con l'orologio al polso.

Ho memoria di una Polaroid che anni fa realizzava delle foto intorno ai 70-100 cm di formato o poco meno, una Polaroid di cui si diceva ci fossero sette esemplari in tutto il mondo e venivano portati in giro come la Madonna Pellegrina, così come la Madonna di Loreto fu portata in giro per l'anno santo del '50 dentro un elicottero, e infatti la "Dolce Vita" di Fellini comincia con quel ricordo: il Cristo quasi di Rio de Janeiro che, legato a un elicottero, sorvola gli attici dell'Eur salutato dalle ragazze fa riferimento proprio a quel pellegrinaggio.

Ma dicevo appunto che capitò che ad alcuni artisti fu concesso di realizzare delle foto con quell'apparecchio Polaroid e uno di questi fu Mario Sasso, che è un artista nonché uno storico autore di videografica e di video sigle per la Rai. In realtà quello che più attira della Polaroid in macroformato sono quegli sbaffi di colore che rimangono in basso e in alto come liquido di risulta del processo di sviluppo.

Un'altra cosa meravigliosa delle Polaroid, se vogliamo fare i poeti, è guardare in tempo reale l'immagine che si realizza e che appare come il miracolo dell'ostia. La prima Polaroid di cui ho memoria in realtà era poco più di una lamella di carta, se la guardi adesso sembra di imbattersi in dagherrotipi e insieme al caricatore ti veniva dato un rullo da passare sopra per fissare l'immagine. Credo di avere ancora con me la prima Polaroid che mi sia stata scattata: al balcone, nel '66, si vede un maglione steso e vicino ci sto io a 10 anni.

od: Torniamo ancora alle Polaroid di Schifano. Secondo te quale era, o meglio, qual è la loro peculiarità?

FA: Quello che era meraviglioso delle Polaroid di Schifano era che erano delle vere e proprie emulsioni di colore, non era nemmeno importante quale fosse l'immagine ma proprio questa manifestazione del colore, dell'arancio soprattutto, ed era come se improvvisamente la fotografia avesse conquistato una sua primavera, questo grazie appunto alla Polaroid. Altre volte le sue Polaroid servivano per corredare un diario di viaggio. Personalmente sono stato molto amico di Mario Schifano e ora che ci penso per tanti anni ho sognato di possedere un Yves Klein, un artista che non ho mai avuto i mezzi per acquistare, e una notte Mario riuscì a carpire in televisione, a tardissima ora, il passaggio di un film di Gualtiero Jacopetti, "Mondo cane": Jacopetti riprese una seduta di antropometrie, ovvero Klein che impone a delle modelle di cospargersi del colore blu, del suo blu, il blu Klein per intenderci, per poi lasciare l'impronta dei propri corpi sulle tele. In quell'occasione Schifano mi fece quattro scatti di questo filmato e quindi io, sia pure per interposta persona, ho un Klein con il plusvalore di essere un Klein visto con gli occhi e le Polaroid di Mario Schifano.

od: Si dice tra l'altro che proprio questo film fu causa della morte di Klein.

FA: Sì, perché Klein andò poi al festival di Venezia o di Cannes per assistere a "Mondo cane" convinto che si trattasse della sua apoteosi e scoprì invece che era un film dove il suo lavoro veniva deriso. Da qui all'infarto che lo fece morire fu questione di poco tempo, ed è per questo che tra le probabili cause della sua scomparsa in giovane età - Klein era del '28 ed è morto nel '62 - pare ci sia la visione di se stesso e del proprio lavoro mortificato da Gualtiero Jacopetti in "Mondo cane".

La conversazione con Fulvio Abbate si è svolta in modo piuttosto random, ma Fulvio è così: immediato nel suo sviluppo di pensiero, inizia e non sai mai dove poi va a finire. Il suo discorso si arricchisce cammin facendo, tanto più se si tratta di un argomento come quello sulla Polaroid, vasto, immenso, pieno di riferimenti a settori che spaziano dalla fotografia vera e propria, al dilettantismo fotografico, al design, all'arte. Personalmente sono un vera appassionata di Polaroid e la SX-70 è indiscutibilmente la mia preferita perché le sue pellicole hanno colori meno fedeli della successiva ISO 600 ma più artistici e di conseguenza più interessanti (creano foto con quel rosso Polaroid che le rende ancora più uniche) e poi perché mi rimanda all'infanzia; quando uscì, nel 1972, io ero ancora una bimba e ricordo lo stupore che provavo nel vedere mio padre che mi scattava una fotografia che poi prendeva forma e colore sotto i miei occhi nel giro di pochi minuti; ero letteralmente rapita e incuriosita dalle immagini che a poco a poco si sviluppavano su quel quadrato di carta fotografica e penso proprio che da lì sia nata la mia passione per la fotografia, per qualcosa che si creava sotto i miei occhi senza che riuscissi a svelarne l'arcano.

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