Graziano Arici non è solo un fotografo molto conosciuto, è un personaggio a tuttotondo, un eclettico che dopo gli studi di Sociologia si è dedicato alla fotografia professionale a partire dagli anni '80 come fotografo ufficiale del teatro La Fenice di Venezia, documentandone in modo completo la parte architettonica e decorativa; nel 1989 era a Berlino nei giorni della caduta del Muro, nel 1994 ha documentato la situazione di cambiamento nelle grandi città artistiche dell'ex Germania-Est, nel 1998 ha fondato Rosebud, la prima agenzia fotografica in Italia di vendita on-line, nel 2007 ha aperto la Graziano Arici Photogallery in Second Life, e infine nel 2009 ha fondato Blackarchives (archivio nato dopo la chiusura dell'agenzia di Grazia Neri della cui "scuderia" lui stesso era uno fra i migliori).
Nell'intervista che segue mi ha descritto il suo luogo di lavoro, ossia il suo appartamento veneziano, un luogo che è una sorta di casa-archivio, in cui ha un enorme tavolo in legno con su scritto " bouillabaisse a emporter", "un tavolaccio che potrebbe aver tranquillamente dipinto Ben Vautier e che è una sorta di paradigma, perché è un po' quello che è il mio lavoro, una gustosa bouillabaisse di immagini".
Mentre lo intervistavo pensavo a questa descrizione e immaginavo questa sua casa "work in progress" fatta di foto, immagini, cassettoni di archivio, in cui si mescolano colori e profumi di cucina (perché la bouillabaisse Graziano la sa anche cucinare).
od: Tenuto conto che hai compiuto studi di sociologia, dunque un percorso non strettamente legato alla fotografia, come sei arrivato ad essere il fotografo professionista che sei ora? Sei tu che hai scelto la fotografia o è la fotografia che ha scelto te?
Graziano Arici: Ho cominciato con la fotografia, da bambino, mio padre aveva una vecchia Zeiss a soffietto con cui aveva fatto delle foto straordinarie. Ho vinto qualche premietto, poi a diciott'anni ho smesso perché era un hobby troppo caro per me. Ho ripreso a 29 anni, dopo cento lavori tra cui il funzionario di partito, il bidello e l'accompagnatore di turisti nel Sahara. È andata abbastanza bene, anche se mi sono venduto una serigrafia di Lichtenstein che avevo comprato da ragazzo per acquistare le prime macchine.
od: Qual è stato il tuo più grande maestro, se ne hai uno?
GA: Non ho avuto maestri, se non la grande pittura. Apprezzo molto Walker Evans. E alcuni altri.
od: Che macchina fotografica usi?
GA: Ho usato Leica, Nikon e Hasselblad, delle quali ho decine e decine di obiettivi. Ora uso Nikon digitale.
od: Sei stato il fotografo ufficiale del teatro "La Fenice" di Venezia: mi racconti qualche retroscena e, soprattutto, i sentimenti provati davanti al teatro bruciato, di cui fosti uno dei primi a rendere documentazione fotografica?
GA: Sono stato fotografo alla Fenice per ventun'anni. Sono stato il primo a documentarne l'incendio. Il teatro è stato in gran parte ricostruito attraverso le mie immagini, perché era la sola documentazione. Che dire se non cose scontate? È stato un lutto. Potrei parlarne per ore e ricordare cento episodi. Ricordo in particolar modo l'odore del palco avvolto dal buio durante le prove. Ora per me la Fenice è un'altra cosa.
od: Alla caduta del muro di Berlino tu c'eri, che aria hai respirato attraverso i tuoi scatti?
GA: È l'aria che precede le rivoluzioni. L'aria del "tutto possibile". Ricordo i migliaia di ticchettii che si sentivano da distante delle persone che scalpellavano il muro. Quando abbiamo forzato l'entrata dall'altra parte e sfondato i cordoni di vopos, è stata una delle volte in vita mia in cui ho visto la morte in faccia per il pericolo di essere calpestato da decine di migliaia di persone Qualche mese dopo ho visto le file di berlinesi dell'Est che sfilavano davanti ai negozi di elettrodomestici...
od: Nel 1988 hai fondato Rosebud, la prima agenzia fotografica in Italia di vendita on–line. Parlami di questa avventura.
GA: La fondai con Marcello Mencarini, con cui ora ho fondato Blackarchives. Era un'intuizione geniale. E prematura. Rimprovero ancora a L'Espresso le facce che mi facevano quando io parlavo di files e loro mi giuravano che mai, lì, sarebbe entrato qualcosa di diverso da una diapositiva o una stampa fotografica. Ovviamente abbiamo chiuso ogni rapporto.
od: A proposito di chiusure, dopo che Grazia Neri ha chiuso la sua agenzia tu sei diventato uno dei fondatori di Blackarchives: una nuova avventura anche in questo caso? Di che cosa si tratta, per i non addetti ai lavori?
GA: Diciamo che dal momento in cui, qualche mese prima, Michele Neri mi comunicò che Grazia Neri avrebbe chiuso, noi fotografi dell'agenzia eravamo rimasti in una sorta di stand-by. Stavamo cioè verificando lo stato delle scialuppe di salvataggio e delle funi, pronti per calarle. È bastato fare un appello e abbiamo riunito attorno a noi, un mese dopo la chiusura, 14 fotografi possessori dei più grossi archivi di Grazia Neri. Ora, due mesi dopo, siamo in 34 e stiamo andando avanti di buona lena. È la prima Agenzia fotografica in Italia che esiste solamente on line. Abbiamo scelto di non avere sede perché non serve e abbiamo tagliato qualunque spesa inutile e di "apparato". In realtà la situazione delle fotografia richiederebbe un volume a parte, parlarne nel botta e risposta, sia pure molto discorsivo, di un articolo, non basta, non è esplicativo. Diciamo però che intanto pensiamo che questa sia una risposta adeguata alla nostra epoca.
od: Osservando il tuo lavoro sono convinta che non ti limiti a fare degli scatti, per quanto tecnicamente perfetti e ben confezionati. Molte delle tue foto, anche se magari non tutte, sanno trasmettere un'emozione che va oltre la mera documentazione: per questo oltre che fotografo ti reputo anche un artista.
GA: Io faccio documentazione, solo mera documentazione. L'unica foto bella che ho fatto, e che non venderò mai, è quella che ho scattato a Harold Brodkey (scrittore e giornalista statunitense nato negli anni '30 e morto nel 1996, ndr). Gli ho scattato la foto e ho sentito il passaggio di cose, una sorta di moto interiore. Harold mi ha guardato e mi ha detto: "Tu non mi fotograferai più perché con questa foto tu mi hai portato via un pezzo di anima". Avevamo entrambi sentito un veicolarsi di emozioni attraverso quello scatto, avevamo percepito un oltre. Ecco, quella è stata l'unica volta che ho sentito di aver trasmesso qualcosa di più di una mera documentazione.
Mentre Graziano mi parlava facevo scorrere sul mio portatile alcune sue fotografie e non mi trovavo d'accordo: sicuramente la foto di Brodkey è più di una documentazione, ma non è la sola fotografia fatta da lui che veicola emozioni intense. Basti guardare alcune sue foto di Venezia e questo solo per citare gli esempi più immediati: osservandone il taglio, la scelta delle luci, lo stesso colpo d'occhio, non si può non accorgersi che si è davanti a un professionista che è più di un semplice fotoreporter perché, pur riproponendo soggetti visti e rivisti in migliaia di cartoline per turisti, le sue immagini offrono un punto di vista sempre nuovo e personale e, fattore fondamentale, veicola delle emozioni, dei moti dell'animo. E questa per me non è documentazione, siamo già nel territorio della creazione artistica.
Ovviamente, come spesso capita con gli artisti veri, era inutile cercare di persuaderlo del contrario e così l'ho lasciato parlare, libero di esprimere il suo punto di vista, sorridendo sorniona, fra me e me, di fronte alla sua bravura. Prima che ci salutassimo mi ha detto che forse cambierà alcune cose nella sua vita e probabilmente lascerà la fotografia per dedicarsi ad altro, seguendo quel processo di mutamento dinamico che appartiene a tutti noi e ai "creativi" in particolare; mi ha raccontato di alcuni progetti personali e ha accennato al fatto che aveva anche pensato di fare un catalogo sulle diverse scelte che si possono attuare per fotografare un soggetto ma poi ha cambiato idea: "Perché so che è una cosa becera. È da mestierante".
Ecco, appunto, da "mestierante", e un artista - vero - mestierante non lo è mai.
Agenzia Blackarchives: www.blackarchives.it