miniatura Roberto ProsdocimoRoberto Prosdocimo è un giovane professionista, un ragazzo dalla faccia pulita di quelli che oggi sembra difficile incontrare per strada. È arrivato a Milano con il suo sogno, quello di fare il fotografo ma di farlo davvero. Un sogno che inseguiva e coltivava da quando aveva la metà dei suoi anni attuali, un quindicenne friulano che aveva messo piede in una camera oscura... L'amore in realtà era scaturito subito, sin da quando gli avevano regalato una piccola macchina fotografica: la possibilità descrittiva dell'oggetto e dei suoi prodotti lo rendeva un mezzo superiore a qualunque altro potesse essere utilizato allora. Roberto voleva capire però che cosa succedesse tra l'occhio e la stampa; così, cercando qua e là, insistendo con amici e insegnanti, finì col riuscire a entrare in una camera oscura, quel mondo ancora oggi sconosciuto ai più e attraverso il quale le idee, come per magia, si trasformavano in realtà, i sogni in stampe policrome.
Tutto molto bello, ma Roberto è un ragazzo con i piedi per terra, pragmatico, cresciuto in una famiglia normale ma dai valori grandi che lo incoraggia a inseguire i suoi sogni proprio perché lo conosce e lo stima così. In un'area geografica pregna di ragionieri e geometri, di individui che presto si trasformano in portatori sani di diplomi professionali ecco che lui sceglie di iscriversi all'Istituto Superiore d'Arte di Pordenone, una scuola che lo aiuterà – fino a un certo punto – a capire com'è fatta la strada che ha scelto di percorrere. Ha fondato e coordina Errepimage, una realtà che raggruppa fotografi, grafici e videomaker, volta a studiare il miglior modo di comunicare attraverso le immagini in un mondo in continua evoluzione.

osservatoriodigitale: Che cosa hai imparato alla scuola d'arte a proposito della fotografia?

Roberto Prosdocimo: Sicuramente molto e non solo sui libri. Prima di toccare una macchina fotografica sono passati quasi due anni ma, nel frattempo, i professori erano stati capaci di entusiasmarci con tanto altro sapere senza il quale, oggi, non sarei certo capace di fare quello che faccio. Spesso si pensa che la fotografia si impari solo studiando e lavorando nel mondo a essa collegato, ma credo fermamente che le vere basi vengano dall'arte, dalla conoscenza dello spazio e di come sia stato studiato e percepito nel tempo, proprio da chi lo ha catturato nella pittura, nella scultura e con l'architettura.

©Prosdocimo

od: Parlaci dei tuoi inizi.

RP: A scuola era tutto molto interessante ma sentivo di voler fare di più perché questo è il mio modo d’essere, così chiesi a un mio professore di consigliarmi, o aiutarmi a trovare, un lavoro. Fu così che cominciai a frequentare degli studi fotografici un po’ particolari. In quegli anni il Friuli era noto per le sue aziende di produzione di mobili, di design e non, e quando si trattava di realizzare i cataloghi o le stampe per le fiere di tutto il mondo era necessario realizzare delle immagini accattivanti del prodotto, i mobili. Lo spazio necessario per fotografare una scena era ed è ancora oggi qualcosa di immenso: provate a pensare che ogni set corrispondeva a una stanza vera entro la quale erano montati tutti gli arredi e i complementi necessari a dare un senso di realtà alla scena stessa. Venivano utilizzati spesso dei capannoni dove, all’interno, si poteva trovare di tutto, dalle luci ai fondali, dalle macchine fotografiche ai laboratori di sviluppo: insomma tutta la catena fotografica in un solo posto. Io entrai in punta di piedi in quel mondo, affascinato ma non intimorito: ero pronto a svolgere qualsiasi ruolo pur di rimanere lì. Così cominciai con lo scaricare gli acidi ma finii per scattare le foto dei cataloghi. All’inizio avevo un approccio quasi maniacale perché segnavo davvero tutto quello che veniva fatto, ciò che avveniva nello studio, forse per qualcuno in modo un po’ troppo pedissequo ma non per me. Quello che non capivo era ciò che il giorno dopo mi affrettavo a chiedere ai miei professori. Riportavo sui miei quaderni davvero tutto, dai disegni dei set fino ai settaggi utilizzati sulle macchine e sulle luci.

 ©Prosdocimo 2014

od: E dopo la scuola d'arte?

RP: Dovevo fare il servizio militare e venni chiamato, come spesso accadeva ai giovani delle mie parti, nella Brigata Alpina Julia. Fortuna volle che alla domanda su cosa sapessi fare risposi “il fotografo” perché il fotografo ufficiale si era appena congedato: così passai l’intero anno a fotografare. Al rientro nella vita civile mi trasferii a Milano e mi iscrissi allo IED. Era il 2000. Una volta lì riuscii, sempre lavorando, ad aprire il mio primo studio nel 2001.

Non ho mai avuto la sensazione che non sarei riuscito in questa professione: non, come si può pensare, per una forma di estrema presunzione, piuttosto per un sentimento di dovere che c’è in me da quando ho il dono della ragione. Come ho già detto devo molto ai miei che hanno creduto in un ragazzo che voleva fare il fotografo e, dalle nostre parti, questo corrispondeva o a colui che faceva le foto-tessera e gestuva un negozio, oppure al professionista che lavorava in uno studio nel campo dell’arredamento. La figura del professionista come la si intende oggi e come da sempre è stata vissuta nelle grandi città era pressoché sconosciuta. Credo che mio padre abbia ancora i biglietti di quando mi accompagnò a Milano perché frequentassi lo IED: io ho un debito morale con la mia famiglia e so che devo riuscire a ripagarla per tutti gli sforzi che ha fatto per farmi studiare e permettermi di diventare il fotografo che sono oggi.

 ©Prosdocimo 2014

od: Quindi ti senti molto legato alla tua terra di'origine. Com'è oggi la situazione?

RP: Certo ci sono situazioni che fa male guardare con gli occhi di ieri: la mia terra oggi è più che altro una landa di desolazione. Ci sono ancora eccellenze, nei mobili e nel vino soprattutto, ma la maggior parte delle attività produttive ha chiuso e con esse anche tutti gli studi che costituivano la realtà fotografica locale. Oggi il Friuli Venezia Giulia è la regione con il maggior numero di fallimenti industriali del Paese, si è trasformato in una grande zona depressa. Purtroppo questo, se vogliamo, è anche il risultato di quella che per decenni è stata una grande specializzazione industriale: nella zona di Pordenone, come altrove in quell’area, è cresciuto molto il terziario che, con la scomparsa delle grandi aziende, ha lasciato enormi vuoti occupazionali. La storia recente di Electrolux ne è l’ennesima prova. Proprio per questo ho deciso di non specializzarmi in un settore ma di affrontare con gioia ogni lavoro che mi veniva proposto, qualunque fosse il settore o l’ambito merceologico in cui dovessi trovarmi a lavorare. Qualcuno può pensare che questo sia un approccio molto dispersivo ma io ho una mia filosofia al riguardo e la porto avanti da sempre. Con Errepimage, la struttura che utilizzo per realizzare i miei lavori, mi avvalgo della collaborazione di singoli specialisti, soprattutto per il video e per il 3D, coordinando personalmente i progetti e lo svolgimento dei lavori; ma, alla base, c’è sempre la mia volontà e la mia personale visione a tracciare la linea guida.

Quando il video entrò a far parte del mondo della pubblicità e della comunicazione ci si poteva permettere di “riciclare” l’esperienza di fotografo per realizzare qualcosa di valido. Oggi non è più possibile perché le competenze di quel mondo sono troppo importanti proprio perché anche le tecnologie si evolvono di continuo e a un ritmo davvero elevato: c’è bisogno di specialisti e quindi anche io mi avvalgo della loro professionalità- Stesso discorso vale per il 3D, anche se quest’ultimo settore vive un momento molto particolare. Si stanno diffondendo anche in Italia delle realtà straniere, polacche, cinesi e brasiliane per citarne alcune, che hanno staff e capacità di gran lunga superiori a quelle che può permettersi un piccolo studio con una equipe ridotta. L’offerta internazionale sul 3D è grandiosa, sia dal punto di vista della qualità sia da quello dell’offerta commerciale, due parametri ai quali si fa molta fatica ad adeguarsi.

Ecco perché sono sempre più convinto che alla fine la duttilità, la capacità di adeguamento alle necessità di mercato siano e si rivelino un grande atout professionale. Ho sempre desiderato e sostenuto che Roberto Prosdocimo, Erripimage o chiunque lavorasse per essa fossero in grado e disposti a offrire servizi per l’immagine e la comunicazione visiva a 360°: per questo motivo è sempre stato importante avere un parco clienti decisamente diversificato perché ritengo che sia meglio avere mille clienti da mille euro che uno solo da un milione. Proprio per questo è possibile trovare, tra i miei lavori, la campagna nazionale per una compagnia telefonica mondiale come Tre a fianco del lavoro per la piccolissima azienda artigianale. Non mi spaventa lavorare per nessuno di troppo piccolo perché non mi faccio certo incantare dal grande o grandissimo nome che mi chiama. Ricordo anche la campagna che feci per Nastro Azzurro dove il testimonial era Valentino Rossi, una star mondiale di primissima grandezza. Mi resi conto subito che fui scelto tra molti per la mia competenza e la mia creatività, certo il mio portfolio era piaciuto, ma sicuramente a farmi scegliere fu anche una questione di budget: Prosdocimo, pur senza svendersi, costava tuttavia una frazione dei grandi nomi e oggi, anche per le grandi campagne il budget ha un posto rilevante nel processo decisionale per la scelta del professionista.

Potremmo spendere molte parole anche a proposito del ruolo che un’agenzia pubblicitaria svolge realmente oggi come oggi nel mondo della realizzazione di una campagna ma il rischio sarebbe quello di rivelare al mondo esterno che tanti ruoli leggendari ormai non esistono più o quasi. Figure mitologiche come l’art director ormai ridotte a fare il photo editor, a preparare campagne non più avvalendosi della bravura dei copywriter e degli illustratori che realizzavano degli storyboard da sottoporre al cliente. Oggi, nella maggior parte dei casi, il cliente esprime ciò che desidera per la sua campagna e l’agenzia mette insieme uno o più concept utilizzando le fotografie di stock. Il cliente ne sceglie una poi, se va bene, viene chiamato un fotografo affinché realizzi qualcosa ad hoc su quell’idea mentre, se va male, si utilizza quella stessa immagine stock e il gioco è fatto, la campagna è realizzata. Praticamente il lavoro viene svolto tutto all’interno dell’agenzia stessa, con grande risparmio di risorse e, forse, qualche risparmio per il cliente finale. Per questo e altri cento motivi non mi spaventa la situazione attuale: ho sempre fatto molta fatica ad affermare il mio lavoro quindi so benissimo che devo affrontare grandi sforzi quotidianamente per assicurarmi il lavoro e non mi preoccupo né mi scoraggio più di tanto.

 ©Prosdocimo 2014

od: Che rapporti hai con la scuola?

RP: Una volta finito il ciclo di studi sono rimasto in contatto con i miei professori e con il mondo della scuola. Credo sia lì che nasce il professionismo di domani e mi piace stare al passo con i tempi, anche perché o forse proprio perché sono ancora giovane (Prosdocimo oggi ha 33 anni, n.d.r.). Questo continuo contatto mi ha portato anche a tenere una cattedra allo IED, dove insegno ritratto. A volte l’insegnamento può essere fonte di grande frustrazione perché non riesco a vedere tra gli studenti quella volontà, quel fuoco che dovrebbe animare chi si avvicina a un mondo meraviglioso e creativo come la fotografia. Dei circa duecento studenti che ho avuto, solo un paio di loro sono arrivati a lavorare con me perché sono stati gli unici a farmi capire di avere quella passione, quel fuoco appunto che la fotografia richiede a chi la ama.

Insegno ritratto perché, come dicevo prima, rappresenta la mia filosofia. Il ritratto non è solo delle persone ma è una sorta di pensiero che si applica a tutto. A me è successo anche in occasione di una campagna automobilistica. Ho provato a immaginare le auto come se avessero una vita propria, un loro modo di essere, e così le ho interpretate nelle fotografie. L’idea è piaciuta a tal punto che poi mi hanno chiamato da un’altra agenzia per fare una campagna diversa, di veicoli industriali, proprio perché il cliente desiderava dare ai suoi prodotti un’immagine differente da quella tipica delle campagne di quel settore. È ovvio che quando lavori per dei committenti paganti non puoi sempre far valere le tue idee e i tuoi stilemi al 100% ma devi adattarle ai loro desideri, però è sempre una soddisfazione vedere che la ricerca che hai fatto, le idee che hai portato avanti nel tempo riescono a procurarti anche grandi soddisfazioni, e non parlo solo in termini economici.

Come fotografo hai un portfolio che mostra molto del tuo essere creativo oltre che della tua tecnica. La tecnica permette a chiunque di scattare delle immagini virtualmente perfette, il problema è che possono risultare impersonali, prive di carattere, senza sentimento e, questi, sono ingredienti che non puoi imparare sui libri. Il portfolio però ti serve ad attirare l’attenzione degli Art Director delle agenzie affinché si incuriosiscano e ti chiamino. Poi da li il discorso cambia e cambia molto.

Come si diceva prima oggi si arriva spesso in studio per uno shooting e, a differenza di quanto accadeva un tempo, le cose non sono preparate al meglio, spesso si ricevono indicazioni generiche del tipo “scattiamo qualche foto con la maglietta rossa, poi qualcuna con quella blu poi vediamo”. Dopo può anche capitare che in post produzione ti chiedano di trasformare la maglietta in questione in un grigio o in un arancione, a seconda del mood del momento. Sembra che anche in seno alle agenzie creative ci sia un momento di confusione, di poca chiarezza sul da farsi ma, chissà, magari è solo una fase di questo periodo storico oppure ho incontrato io alcune persone un po’ così…

©Prosdocimo 2014

od: Con che cosa lavori?

RP: Ho cominciato a fotografare con la Olympus OM-1 di mio padre. Ricordo che quando le cose si fecero serie i miei mi comprarono un piccolo corredo Hasselblad 501 che ancora utilizzo, soprattutto le ottiche che monto sui miei corpi digitali Canon. Allora, per questioni di praticità mi ero comprato e composto un corredo 35mm Nikon che ho usato in ogni situazione. Tuttavia, quando è stato il momento di passare al digitale, c’era troppo divario tra Canon e Nikon e così passai alla prima. Non do però tutta questa grande importanza allo strumento, che ritengo essere solo un mezzo per realizzare il mio lavoro. Sono convinto, ripeto sempre anche a scuola, che la tecnologia sia importante ma non dev’essere il motivo per cui si fotografa. Quello che noto oggi nei ragazzi a scuola o già quando scattano i loro primi lavori è l’assoluta mancanza di paura. Tanto col digitale si aggiusta tutto!

Ricordo il terrore che avevo quando andavo a ritirare i lavori in laboratorio, la paura di aver sbagliato qualcosa e di non poter rimediare: quando si lavorava in pellicola dovevi fare attenzione a ogni particolare, proprio per non trovare delle brutte sorprese quando ormai il set era stato smontato e i prodotti erano ritornati all’azienda produttrice.
Con i ragazzi oggi è diverso perché pensano al digitale come alla panacea, a qualcosa che è in grado di guarire tutti i mali ed è per questo che non hanno mai paura di sbagliare, credono che la post-produzione garantisca loro almeno un buon risultato, in ogni situazione. A scuola faccio apposta a “starare” tutte le macchine per vedere il loro comportamento, che cosa fanno, se si preoccupano di controllare che il setup della fotocamera sia corretto: non accade mai. Spesso se ne accorgono dopo dieci scatti oppure, se lavoriamo con lo schermo LCD coperto, si accorgono di scattare la luce naturale con l’impostazione per quella al tungsteno dopo ore. Oppure di aver scattato sempre con valore ISO 1.000 credendo fosse ISO 100. C’è molta tranquillità nelle loro azioni che sfocia in una grande superficialità. È cambiato molto anche l’approccio che gli studenti di oggi hanno con la scuola: io ho ragazzi del terzo anno che nemmeno possiedono una fotocamera. “Tanto io scatto solo .GIF” mi dicono giustificandosi, il loro strumento è lo smartphone. Ricordo che 12 anni fa, mentre si studiava, lavoravamo tutti come assistente: oggi, forse, cominciano a lavorare dopo che si sono laureati. È cambiato tutto insomma.

©Prosdocimo 2014

od: Hai anche fatto delle mostre però...

RP: Sì, mi è sempre piaciuto lavorare con le immagini e con la loro rappresentazione fisica, la stampa. Sin dai tempi delle superiori avevo chiesto dei permessi speciali per andare a stampare al di fuori delle ore di lavoro normali perché volevo ottenere il mio diploma di Maestro d’Arte a pieni voti perché desideravo davvero sapere tutto di quel mondo e di quella tecnica ma sopratutto perché volevo stampare a quattro colori. Così, insieme a un professore e agli assistenti andavamo la notte a stampare, perché quello era l’unico momento in cui le macchine della scuola erano a disposizione. Avevo portato avanti una ricerca volta a sensibilizzare l’opinione pubblica sui motociclisti, così ottenni il permesso dalla scuola di uscire con un professore a fotografare durante il giorno. Avevo creato la sagoma di un motociclista e l’avevo fotografata sul manto stradale: l’immagine era poi stata impaginata e, dopo aver creato la campagna, stampata in grande formato. Ricordo che presi 10, un fatto eccezionale per una scuola superiore. L’idea della fotografia stampata in grande formato, da allora, non mi ha più abbandonato. Così, negli anni, sto portando avanti un progetto con un amico, già mio compagno di studi allo IED, Filippo Piantanida, sul rapporto tra l’uomo e lo spazio.

Lo scorso anno abbiamo concluso un ciclo di mostre che sono state ospitate a Barcellona, Napoli, Roma, Torino e Milano dove venivano mostrate opere fotografiche che riprendevano grandi spazi trasformati in installazioni d’arte. Questo terreno è sempre un po’ bollente perché in Italia è molto difficile che qualche gallerista sia disposto a valutare un fotografo come un artista vero. C’è sempre un po’ di ritrosia, di sospetto forse perché nel mondo dell’arte commerciale è entrata troppa paccottiglia sotto forma di fotografia. Oggi si dà ancora troppo poco credito al fotografo come produttore d’arte proprio perché sono pochissimi in effetti i grandi artisti che hanno utilizzato la fotografia come strumento.

La nostra mostra, chiamata Unconventional, è stata un grande successo e si è realizzata grazie al sostegno di una grande azienda, Pirelli, che attraverso la sua Casa Agency è stata lo sponsor principale della mostra. Questo tipo di lavori non porta grandi risultati dal punto di vista professionale ma permette di sfruttare l’esperienza come un laboratorio dove si continua ad apprendere qualcosa di nuovo. Inoltre è più facile che ti diano ascolto all’estero perché in Italia, quando si parla di mostre, la risposta è sempre la stessa: “non abbiamo budget”.

©Prosdocimo 2014

Le immagini sono tutte ©Roberto Prosdocimo 2014. Altri suoi lavori si trovano all’indirizzo www.errepimage.com

 (data di pubblicazione: febbraio 2014)

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