John Moore intervistato da Osservatorio DigitaleÈ stato premiato più volte con un World Press Photo Award per il suo lavoro di fotoreporter, l'ultima volta nel 2012 con un toccante lavoro sugli effetti della crisi economica negli Stati Uniti. Nel 2007 ha ripreso le ultime foto di Benazir Bhutto durante l'attentato che le è costato la vita durante la campagna elettorale a Rawalpindi. Dai grandi avvenimenti internazionali ai drammi personali che difficilmente conquistano le pagine dei giornali, John Moore ha dimostrato di possedere soprattutto il fiuto del giornalista di razza. Per i lettori di od ha accettato di parlare dei numerosi aspetti che contraddistinguono questo particolare campo professionale, forte anche di una esperienza come photo editor che gli ha permesso di sperimentare di prima persona tutto quel che accade “dall'altra parte della scrivania” di una grande agenzia.

Cresciuto a Irving, nel Texas, e laureatosi presso l'Università del Texas ad Austin, John ha iniziato a lavorare per la Associated Press nel 1991 recandosi prima in Nicaragua e poi in India, Sudafrica, Messico ed Egitto. Dopo quasi 14 anni di militanza in AP, John è passato a Getty Images viaggiando per l'Asia meridionale, l'Africa e il Medio Oriente prima di tornare alla base nel 2008: qui ha potuto concentrarsi sulle testimonianze fotografiche degli effetti della recessione sulla popolazione statunitense.

od: Abbiamo vissuto un decennio davvero rivoluzionario compiendo la transizione verso il digitale. I fotogiornalisti vivono il digitale con un rapporto contrastato: permette di avere un intero fotolaboratorio nello zaino, ma c'è chi rimpiange l'affidabilità dell'analogico quando si lavora sul campo senza facilità di accesso alle infrastrutture elettriche e di comunicazione. Qual è la tua esperienza al proposito?

John Moore: Il passaggio dalla pellicola al digitale è stato senz'altro uno dei momenti di maggior trasformazione nella storia della fotografia, forse addirittura più importante persino dell'avvento del formato 35mm. La tecnologia è stata spinta sull'onda del mercato rivolto agli appassionati, dal momento che è quello più redditizio – ma questo sarebbe un altro discorso!

Il periodo iniziale dell'evoluzione della fotocamera digitale è stato in qualche modo alquanto complicato per quei fotogiornalisti che hanno adottato fin da subito la nuova tecnologia e i primi apparecchi. Lo dico perché negli anni Novanta le fotocamere digitali erano contraddistinte da una sfortunata combinazione: erano estremamente costose e producevano immagini di qualità terribile. Ricordiamoci che i fotoreporter di agenzia come il sottoscritto non potevano prendersi il lusso di scegliere se scattare in digitale o su pellicola: dovevamo essere veloci e competere con le altre agenzie, per cui una volta che avevamo in mano apparecchi digitali ci si aspettava che li utilizzassimo.

E così, anche se eravamo assai più rapidi nel consegnare il nostro prodotto finito, le immagini ne soffrivano enormemente a causa delle piccole dimensioni dei file e della scarsa qualità complessiva, fatto che risultava soprattutto evidente negli ingrandimenti. Tutto questo succedeva proprio nel momento in cui la fotografia d'agenzia si stava facendo man mano più creativa, più in stile magazine... e così avevamo da una parte immagini sempre più provocanti e stimolanti, ma dall'altra un livello tecnico davvero grezzo.

Saltando al giorno d'oggi, la mia preferenza va ai nuovi modello Canon, macchine bellissime che scattano praticamente al buio, hanno una messa a fuoco perfetta e restituiscono una qualità d'immagine eccezionale. Sono stati compiuti passi da gigante in questo settore, ma l'intero processo ha richiesto vent'anni.

od: Qual è l'attrezzatura il tuo arsenale tecnico e il workflow che segui quando lavori sul campo?

JM: Uso esclusivamente Canon come faccio da quando avevo 16 anni. Come corpi macchina la mia attrezzatura attuale comprende una EOS-1 DX e una 5D Mark III. Per quanto riguarda gli obiettivi uso una combinazione di zoom e ottiche fisse, a seconda dell'avvenimento che devo coprire. Il mio kit comprende 24mm f/1.4, 28mm f/1.8, 17-35mm f/2.8, 24-70mm f/2.8, 50mm f/1.4, 70-200mm f/4.0, 70-200 f/2.8, 300mm f/2.8 e occasionalmente anche un converter 1,4X. Dato che i miei nuovi apparecchi sono tutti full-frame tendo a usare i supergrandangolari meno frequentemente: la mia ottica principale è ora la 24-70mm. Mi piace anche la 70-200 f/4.0 perché è molto leggera. Ormai sfrutto raramente i flash sia per una ragione stilistica, sia perché le sensibilità agli alti ISO delle mie nuove fotocamere sono davvero eccezionali in condizioni di scarsa illuminazione.

Quando sono in missione porto generalmente con me il mio laptop in uno zainetto per poter trasmettere rapidamente le foto dopo (o durante) il lavoro. Utilizzo un hotspot wireless 4G MyFi per avere accesso Internet in banda larga ovunque mi trovi negli Stati Uniti, mentre se viaggio all'estero sono solito acquistare una chiavetta WiFi broadband e un telefono cellulare di qualche operatore locale per inviare dati e parlare. Trasmetto le mie foto via FTP alle sedi Getty di New York o Londra, dove i desk editor controllano, e spesso migliorano, le mie didascalie prima di inviare le immagini agli abbonati al servizio - quotidiani, riviste e pubblicazioni online di tutto il mondo. È un sistema progettato per essere rapido e veloce.

Se mi trovo in zona di guerra porto con me protezioni adeguate (giubbotto antiproiettile, elmetto, occhiali protettivi), un assortimento di materiale da campeggio e dotazioni mediche, a seconda del luogo. Quando copro un conflitto o un disastro naturale utilizzo un trasmettitore dati BGAN in modo da potermi collegare al satellite per trasmettere le fotografie via Internet quando non sono disponibili reti telefoniche o broadband locali.

John Moore: Families Lose Homes - Getty Images

od: Cosa significa lavorare per una grande agenzia come Getty? Come avviene la selezione dei collaboratori, e quanto è vincolante il mandato editoriale?

JM: Getty Images è un'azienda molto grande, e quindi posso parlare solo di quanto vedo nella struttura per cui lavoro, la Wire Service Division. Lo staff di base dei fotografi è relativamente piccolo, per la maggior parte dislocato negli Stati Uniti ma con una presenza anche in Europa e in Asia. Getty Images assume nuovi collaboratori raramente, dato che il turnover è molto basso. I fotografi che entrano a far parte di Getty Images sono tendenzialmente dotati delle caratteristiche che è facile aspettarsi (creatività, capacità di lavorare duramente, esperienza, consapevolezza della notizia), con in più un occhio per fornire agli abbonati qualcosa di visivamente differente e raccontare storie che i nostri concorrenti magari non vedono. In parte perché il mercato è saturo di persone di talento, Getty Images tende ad assumere solo grandi fotografi, professionisti dalle forti capacità di relazione interpersonale che trattano con rispetto i loro colleghi.

In termini di compiti, i fotografi appartenenti allo staff ricevono indicazioni dagli assignment editor, ma ci si aspetta che propongano e sviluppino le proprie proposte. Se queste idee funzionano (e non sono eccessivamente costose), in genere vengono approvate. Getty Images lascia molta libertà ai propri fotografi e li motiva a trovare i loro progetti.

od: Avendo lavorato anche come photo editor, hai notato un approccio differente alla narrazione visiva da parte di colleghi provenienti da background o culture differenti, oppure la globalizzazione dei media richiede una sorta di linguaggio visivo comune?

JM: Getty Images sprona i fotografi a sviluppare il proprio stile personale. Se guardi al lavoro del nostro staff piuttosto che a quello dei freelance, noterai come ciascuno di noi veda il mondo e catturi le immagini in maniera diversa. E quando parlo di stile non intendo solo la scelta dell'obiettivo, bensì il modo particolare in cui ognuno di noi percepisce il mondo intorno a sé. Alcuni fotografi desiderano ottenere un determinato look: magari scattano tutte le foto con la medesima combinazione di apparecchio e ottica, magari anche con una luce simile, in modo che la loro mano sia sempre riconoscibile. Nessun problema in questo, ma non è il mio modo di lavorare. Io mi considero innanzitutto un fotogiornalista, pertanto raccontare la storia è tanto importante quanto lo stile visivo dell'immagine che ne esce.

Per me la sfida è quella di trovare storie alle quali sia difficile accedere. Nelle occasioni più leggere mi auguro che le mie foto trasmettano un certo senso di humor; nel riportare le tragedie, invece, spero di mostrare le persone con dignità, in particolar modo quando si trovano nelle situazioni più vulnerabili. Sono sempre grato quando le persone si aprono riconoscendomi la loro fiducia in momenti così difficili. È il grande privilegio professionale della mia vita.

od: Produrre con regolarità il genere di contenuto richiesto dai media non è facile, a maggior ragione nell'area visiva del reporting dal momento che tutto deve essere catturato in tempo reale anche quando accade in maniera imprevedibile. Cosa suggerisci a chi volesse approcciare il mondo del fotogiornalismo?

JM: Senz'altro mettere a punto un grande portfolio. E per questo occorre scattare molto. Si compiono errori, si fa un passo indietro e si migliora. Un ciclo che va quindi ripetuto e ripetuto. Si dice che i professionisti migliori di ogni disciplina abbiano dedicato almeno 10.000 ore alla pratica e al perfezionamento delle proprie capacità, cosa che conduce all'innovazione. Lo stesso accade per noi. Anche se per il portfolio non serve più il book fisico di un tempo, il nostro sito Web è una testimonianza del nostro lavoro che dimostra quel che siamo capaci di fare. Cosa ancora più importante per gli editor, mostra di cosa potremmo essere capaci nel momento in cui dovessimo lavorare per loro.

Ricordiamoci sempre che siamo in pochi a esercitare questa professione, e che la nostra reputazione ci segue ovunque andiamo. Se restiamo sufficientemente a lungo in questa attività, alcune tra le persone con cui abbiamo studiato o lavorato a inizio carriera diventeranno grandi fotografi o importanti editor. Potrebbero diventare il nostro boss. Il ricordo che abbiamo lasciato in loro contribuirà a formare il loro giudizio su di noi.

A chi desidera diventare fotogiornalista suggerisco di imparare a girare video, registrare audio e produrre contenuti multimediali rapidamente, in modo professionale e da soli. Dopo tutto, viviamo in un mondo digitale.

od: Un'ultima domanda. Dopo aver documentato per molti anni guerre e disordini in varie parti del mondo, di recente hai scelto di concentrarti sugli effetti della recessione economica negli Stati Uniti – producendo immagini nelle quali possiamo riconoscerci tutti più facilmente dal momento che raccontano una storia che ben conosciamo, ambientata nel nostro mondo, qualcosa che tutti stiamo sperimentando, un progetto che è stato premiato nel World Press Photo del 2012. Come ti sei trovato a lavorare “a casa” dopo tutto questo tempo all'estero? Come fotografo hai sperimentato un coinvolgimento differente?

JM: La sfida che mi muove è quella di riuscire a prendere parte a situazioni nelle quali è difficile entrare: può trattarsi di famiglie che perdono la loro casa piuttosto che eventi che accadono in una zona di conflitto. Nel progetto al quale ti riferisci la parte effettivamente più difficile è stata quella di poter essere presente nell'esatto istante in cui le famiglie venivano allontanate dalle loro case. Per far questo arrivavo insieme con gli agenti di polizia nel momento in cui notificavano alle persone l'ordine di lasciare le abitazioni. Mi presentavo quindi al proprietario, gli spiegavo chi ero e quanto fossi dispiaciuto di quanto gli stava accadendo. Vedere famiglie intere, con bambini e animali domestici, diventare improvvisamente dei senzatetto è stata una cosa molto sentita e triste per me, e lo è ancora oggi.

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