Beppe RasoQuando si dice il buongiorno si vede dal mattino, è ovvio, si utilizza una metafora per sottolineare quando l'inizio di qualche cosa è andato bene e ciò sarà di buon auspicio per la riuscita finale. Allo stesso modo ci si sente incontrando Beppe Raso, non solo fotografo bravissimo ma anche persona intelligente e simpatica, di quelle a cui presteresti l'auto anche solo dopo il primo incontro; immediatamente ci si rende conto di avere a che fare con qualcuno di straordinario, non solo dal punto di vista delle capacità professionali. Con Beppe parliamo di architettura, di interni, di design; ma soprattutto di quasi un trentennio trascorso a sperimentare, perfezionare e ricercare ovunque quel connubio di forme e luci divenuto tratto essenziale del suo modo di fotografare.

od: Come hai scoperto il mondo della fotografia?

BR: Come spesso accade, la "folgorazione" è avvenuta per puro caso, nei primissimi anni '80. L'incontro con la fotografia si è verificato quando avevo 22 anni, in particolare con una reflex Nikon usata che mio fratello maggiore mi aveva dato da provare prima di deciderne l'acquisto. Procuratomi un rullino in bianco e nero, cominciai a scattare foto qua e là per il paese vicino a Lecco dove abitavo: case, prospettive e così via. Per essere quasi completamente digiuno di fotografia, i risultati furono eccezionali e lì nacque la mia passione: lasciai la mia professione di elettrotecnico di allora per fare il portalettere, un lavoro che mi avrebbe lasciato sufficiente tempo libero per imparare a fotografare. Avevo compreso immediatamente che la fotografia sarebbe stato il mio mestiere, ma che comunque non sarebbe stata una strada facile da percorrere.

Così acquistai la mia prima macchina, le ottiche, la camera oscura e contemporaneamente iniziai a studiare la tecnica fotografica e l’inglese, nella convinzione di poter impegnare un paio d'anni per essere pronto per fare il fotografo di professione. In realtà i tempi furono ben più lunghi. Arriviamo infatti al 1987, all'alba dei miei 29 anni, quando si presentò l'occasione di insegnare in un corso di fotografia a Bergamo. Allora avevo già un piccolissimo studio fotografico attrezzato con il quale svolgevo piccoli lavori, quindi decisi che era giunto il momento di compiere il grande salto nel vuoto e mi licenziai dalle poste.

od: Qual è stato il primo vero grande lavoro?

BR: Sempre nel 1987, quando un amico che lavorava nel settore mi segnalò il nome di un'agenzia di Bergamo specializzata in riprese video che ricercava un fotografo da abbinare all'attività principale. In quell'occasione presentai un portfolio di foto che avevo scattato recentemente durante un viaggio in India, e rammento che il titolare dell'agenzia rimase favorevolmente colpito. Proprio per quell'agenzia fui incaricato di seguire un convegno della Firestone in programma quell'anno a Roma immortalandone lo svolgimento, dalle prove in pista a Vallelunga fino alle conferenze in centro città. Il successo fu più che lusinghiero e ricordo che l'agenzia guadagnò una cifra per l'epoca enorme soltanto per le ristampe.

Interno della torre di Bellagio. Foto di Beppe Rasood: Ma come avvenne il primo contatto con la fotografia architettonica, il tuo lavoro di oggi?

BR: Risale al 1989. All'epoca il lavoro con l'agenzia era aumentato enormemente; avevo acquistato la mia prima Hasselblad e il titolare dell'agenzia si era offerto di anticiparmi le spese per acquistare grandangolo, 120 macro e banco ottico, il cui costo scalavo poco alla volta dal mio lavoro per loro. Un amico che si occupava di architettura e lavorava per un'azienda di arredamento mi chiese se potevo essere interessato a fotografare la torre di Bellagio che era stata arredata con i loro prodotti e io accettai. Il cliente fu enormemente soddisfatto e il responsabile della comunicazione dell'epoca, uno statunitense, mi incaricò di seguire tutti i lavori dell'azienda in Italia documentando i loro successi commerciali. All'epoca, infatti, le cosiddette "case history" che documentano le attività commerciali di un'azienda erano in Italia una novità assoluta, ma per gli Stati Uniti erano già un "must" per poter vendere i propri prodotti. Così iniziai a svolgere una serie di lavori per questa azienda in tutta Italia, fino a quando nel 1993 mi sentii sufficientemente pronto da preparare un bellissimo portfolio stampato in cibachrome contenente una decina di foto che inviai a dieci aziende del settore arredamento. Due di esse, B&B Italia e Matteograssi, diventarono subito mie clienti.

Di Matteograssi, che lavora ancora con me dopo oltre quindici anni, ricordo che era stata incaricata di allestire le sedute per l'aeroporto di Francoforte. In precedenza aveva fatto realizzare un servizio a Fiumicino da un fotografo che aveva noleggiato un camion di luci sostenendo un costo astronomico per illuminare un ambiente che invece poi viene sempre visto con una sua luce particolare. Rammento che il titolare, nell'affidarmi il lavoro, non riusciva a comprendere perché invece io non avessi bisogno di luci. E qui occorre fare un passo indietro nella mia storia.

Interno aeroporto di Francoforte. Foto di Beppe RasoNel 1991, infatti, era avvenuto l'incontro con Edward Rozzo (intervistato da od nel numero di aprile 2009, ndr), uno dei pilastri della mia attività fotografica, in occasione di un corso di aggiornamento per professionisti da lui tenuto. Della ventina di partecipanti, fui l'unico che decise di investire in un termocolorimetro e in una ricca serie di filtri perché ero rimasto folgorato dalle possibilità offerte per il mio tipo di lavoro da queste attrezzature per controllare completamente il colore della luce che entra nell'obiettivo. Edward utilizzava quella tecnica in maniera creativa, io invece avevo bisogno di poter arrivare sulla location, ad esempio in un aeroporto, e poter filtrare il neon delle luci, il colore dei tendaggi ecc. Così mi specializzai in questa tecnica fotografica, arrivando a livelli tali da poter decidere quale temperature della luce desideravo, facendo addirittura doppie e parziali esposizioni sulle finestre con maschere collocate in maniera opportuna e sostituendo i filtri. Con l'impiego contemporaneo di molteplici filtri, Rozzo aveva anche risolto il problema delle lunghe esposizioni: infatti, utilizzando pellicole Ektachrome 64, si riuscivano a ottenere pose anche di 1,5-2 minuti con apertura f/16, f/22 o a volte anche f/32 senza alcun problema di reciprocità. Certo, padroneggiare quella tecnica non accadde da un giorno all'altro, ma i risultati ottenuti sono ancora oggi eccezionali.

Così mi recai a Francoforte per il servizio in occasione dell'inaugurazione del nuovo aeroporto solo con la mia attrezzatura e soprattutto  il mio bagaglio di conoscenza e nient'altro, tornando con una cinquantina di immagini straordinarie. Da allora attraverso il passaparola tra aziende e addetti mi sono specializzato nella fotografia di location, settore dove opero tutt'ora e che è diventato il mio punto di forza.

od: Ma come hai vissuto il passaggio al digitale, cosa ha comportato per il tuo modo di lavorare?

BR: Il passaggio definitivo al digitale l'ho compiuto due-tre anni fa, ma non è stata una decisione facile perché ero abituato alla qualità di formati come il 13x18, 6x9, 6x12 o 10x12 che utilizzavo ultimamente. La prima reflex digitale fu una Kodak DCS - macchina che all'epoca, siamo nel 1999, costava un patrimonio - da me utilizzata per anni per riprendere piccoli dettagli; confrontando i risultati continuavo tuttavia a preferire la solita Mamiya 4,5x6. La passione per l'informatica e il fatto di essere utente Macintosh da sempre hanno poi facilitato in qualche modo il passaggio al digitale, oltre ad aiutarmi nella mia altra grande passione: la multivisione.

od: La multivisione: ecco un termine che evoca tempi ormai lontani...

BR: In occasione dei mondiali di Italia '90 ci fu una grande presentazione all'EUR per l'iniziativa Roma Capitale. Qui, all'interno di una torre ellittica, c'erano 48 proiettori che proiettavano immagini su schermi semi-riflettenti e il sottoscritto a seguire il tutto nel ruolo un po' del "deus ex machina". Questa passione mi è rimasta e oggi, grazie alle capacità di ripresa video della Canon 5D Mark II, ho scoperto quello che io chiamo "cinema digitale", un settore che mi propongo di affiancare e abbinare alla fotografia di architettura. In quest'ambito infatti il fotografo diventa un vero e proprio direttore della fotografia, dovendo scegliere e gestire il colore, la luce e il momento. Non essendoci la possibilità di zoomare - ma anche se ci fosse non si tratterebbe certo dello zoom di una fotocamera - è necessario innanzitutto saper fare della buona composizione. Qui mi torna utile anche il mio bagaglio di esperienza con i filtri, perché "blinkando" il bianco sulle fotocamere e intervenendo successivamente in maniera opportuna si ottengono ottimi risultati.

Interno aeroporto Dubai. Foto di Beppe Raso

Nel frattempo il mio lavoro si è trasformato, i clienti hanno iniziato a chiedermi anche di fare cataloghi, ho iniziato a lavorare in sala di posa, a lavorare in team con stylist, allestitori e grafici perché oggi è sempre più necessario andare incontro alle esigenze del cliente, soprattutto ora più che mai a quelle di tipo economico. Per fare un esempio pratico, attualmente sto lavorando per un'azienda di mobili alla preparazione di un catalogo che è strato stravolto in corso d'opera. In pratica, per tutta una serie di motivi, i mobili da fotografare dovevano essere necessariamente quelli esposti in showroom e al cliente spiaceva per questioni pratiche smontarli, ricreare l'allestimento in una location diversa e quindi rimontarli nello showroom originale. Ho dovuto dunque trovare una soluzione pratica che rispondesse a questa esigenza ma fosse altrettanto valida dal punto di vista stilistico e creativo. Quindi ho proposto loro di fare un reportage anziché un catalogo, lasciando i mobili dove stanno, creando un allestimento e facendo delle foto diverse da quelle inizialmente previste. In pratica, nelle foto che andrò a fare, all'infuori del soggetto tutto sarà sottoesposto anche di due o tre diaframmi, con un effetto simile a quello di utilizzare un vecchissimo obiettivo con la caratteristica di una caduta di definizione ai bordi. In questo modo è possibile ricavare anche da un'ambientazione normale delle immagini in grado di suscitare un'emozione. Ho preso quindi alcune foto digitali che avevo scattato in fase di sopralluogo e le ho modificate in post-produzione per ottenere un effetto di questo tipo e le ho inviate al cliente, che è rimasto entusiasta.

od: Ma adesso lavori solo in digitale?

BR: Sì, da un paio d'anni a questa parte. Il problema con il digitale è stato come fare a sostituire il formato 13x18, che era lo standard per i cataloghi. Con questo formato si aveva un livello altissimo di dettaglio su tutta l'immagine, cosa che ti permetteva di visualizzare particolari come la pelle di un divano stampandola però in formato A3, non certo mantenendo il 13x18. Oggi, con il digitale, per tirare fuori un livello simile di dettaglio da un'immagine è necessaria una regia a monte da parte del fotografo, perché è impensabile ingrandire e ricavare un particolare dalla foto generale di un allestimento. Ecco dunque che si devono pianificare gli scatti in funzione di ciò che serviranno, in modo tale che la foto del particolare sia ottenuta da uno scatto fatto apposta per quello scopo.

Bilbao. Foto di Beppe Raso

Con il digitale ovviamente si ha il vantaggio di avere il pieno controllo sul lavoro da fare, il costo della materia prima - la pellicola - si è trasferito completamente ai tempi elevati della post-produzione. Il problema però è che non è sufficiente andare in allestimento e scattare un milione di foto, che tanto in digitale non costano niente, nella speranza di ottenere comunque quello che serve. Occorre appunto la "forma mentis" per sapere cosa e come riprendere in base al modo in cui le immagini verranno poi utilizzate dal grafico: l'immagine, generale oppure il dettaglio, il particolare.

od: La bravura e la preparazione contano dunque ancora?

BR: Certamente, anche se la crisi economica ha inciso eccome. Per esempio, nel 2009 ho dovuto ridurre le mie tariffe del 20-30% rispetto all'anno prima, però comunque il cliente sa che da me ottiene un lavoro di un certo livello. Oggi le "case history" cui accennavo prima sono ancora fondamentali, però spesso il lavoro anche molto prestigioso contiene delle immagini di scarsa qualità che danno l'impressione, almeno a chi se ne intende, di una scarsa professionalità dell'azienda che lo produce. È vero anche che con l'avvento del digitale la qualità in valore assoluto è decaduta. Rispetto a una decina di anni fa, pensando alla qualità del processo di stampa nel suo complesso, direi che la qualità è diminuita del 10-20%, al tempo stesso però è mutato il modo di interpretare la qualità da parte di tutti i soggetti coinvolti. Lo sfuocato che caratterizza il digitale oggi non è più considerato un difetto, ma anzi è apprezzato. Prima si è affermato il concetto di immagine "morbida" prodotto dal digitale, poi ha preso piede lo sfuocato. Il "degrado" di qualità, chiamiamolo così, del digitale, diventa dunque uno strumento per creare lo sfuocato creativo. Ma oltre che del cambiamento del gusto questo è anche il frutto delle caratteristiche intrinseche del digitale. Mi spiego: in digitale è impossibile andare in iperfocale mantenendo a fuoco l'intero campo visivo, perché il pixel sul sensore è composto da tre punti distinti affiancati; dunque non c'è modo di ottenere il risultato prodotto dalla pellicola, in cui gli strati erano sovrapposti. Solo con una tecnologia a elementi sensibili sovrapposti è possibile ottenere questo tipo di risultato. Un passo in tale direzione è stato compiuto dai sensori Foveon, con i tre sensel sovrapposti, e da Hasselblad, con lo sfasamento del sensore per scattare un'immagine nei tre colori separati per poi ricrearla con una somma: ma la strada da percorrere è ancora lunga. Per questo nel frattempo ho adottato ottiche decentrabili.

Foto di Beppe Rasood: Quindi ora che tipo di attrezzatura utilizzi?

BR: Un paio di anni fa ho acquistato un dorso digitale Leaf da 33 megapixel che supporta questo tipo di ottiche unitamente a un piccolo banco ottico. Ho investito una cifra enorme, perché nel momento in cui acquisti un dorso digitale scopri che le ottiche che utilizzavi con la pellicola non offrono il massimo in termini di linee, quindi è necessario dotarsi anche di un parco obiettivi tutto nuovo. In sostanza le ottiche decentrabili permettono di risolvere il problema dell'iperfocale cui accennavo prima, mantenendo a fuoco l'intero campo visivo dell'obiettivo. Nel frattempo Canon è uscita con una serie completa di obiettivi basculanti per reflex - 17, 24, 45 e 90mm - che consentono di risolvere il problema in maniera simile al banco ottico, con il vantaggio della portabilità decisamente superiore. Per gli ultimi lavori, a parte ad esempio il servizio all'aeroporto di Dubai lo scorso anno in cui ho utilizzato il dorso digitale, mi avvalgo di una Canon 1Ds Mark III e una Canon 5D Mark II, anche per la facilità di spostamento e i viaggi in aereo. C'è da dire che ormai in tante situazioni una reflex come la Canon 1Ds Mark III non ha niente da invidiare per qualità delle immagini alle foto di un dorso digitale da una decina di megapixel in più, perché la latitudine di posa della EOS è nettamente maggiore e, se le immagini verranno poi stampate al massimo in formato A3 o A4 o su una rivista, tutti quei megapixel in più non serviranno a niente. Per la luce io utilizzo solo quella naturale, odio i flash. La mia attrezzatura ideale comprende appena tre punti luce, tra cui un daylight, che appena possibile cerco di non utilizzare.

Con l'avvento del digitale si è posto anche il problema di come mostrare il lavoro ai clienti. Una volta ,con la diapositiva, non si poteva sbagliare: la qualità era quella, e se lo stampatore era bravo era impossibile non ottenere la stampa perfetta. Come fare dunque a provare al cliente la qualità del tuo lavoro? Il modo non poteva che essere consegnare una copia cartacea che facesse fede. Il caso volle che qualche anno fa diventassi partner di Epson, alla quale avevo ceduto i diritti per l'utilizzo di alcune foto in bianco e nero che avevo scattato al museo Guggenheim di Bilbao e che l'azienda desiderava utilizzare per una comparazione della qualità di stampa delle loro macchine. Diedi loro una scansione con uno scanner Imacon di una pellicola 10x12, che Epson stampò a colori con l'opzione automatica "stampa calda": il dettaglio, la definizione, la purezza di quella stampa risultarono eccezionali, molto superiori alla stampa in bianco e nero della stessa immagine prodotta da uno dei migliori stampatori di Milano. Perché? Perché in questo caso il negativo viene proiettato su una superficie, e le alte luci inevitabilmente vanno a sporcare anche se leggermente le aree adiacenti, per cui si introduce una certa morbidezza. Al contrario, nell'altro caso il negativo viene scansionato, la luce attraversa il negativo, i sensori rilevano solo le zone di chiaroscuro e in questo modo viene riprodotto sulla carta esattamente quanto catturato dal sensore.

Quella fu la dimostrazione che ormai il divario era stato colmato, per cui ora utilizzo una stampante Epson 4800 per le mie prove di stampa. Ovviamente non posso utilizzare questo sistema per stampare tutto un servizio di 50-60 scatti da presentare al cliente, quindi mi rivolgo a un fotolitista di fiducia che utilizza una stazione HP Indigo per stampare un book 30x30 dell'intero lavoro che diventa la mia prova di stampa da presentare al cliente. I file CMY stampati con l'Indigo risultano leggermente meno luminosi della stampa a inchiostro per le caratteristiche intrinseche di opacità degli inchiostri Indigo, quindi posso assicurare al cliente che la qualità del lavoro in off-set sarà sicuramente superiore a quella del book. Book che peraltro può essere ristampato quando si vuole, è di ottima qualità, e viene utilizzato dagli agenti del cliente con grande soddisfazione. Quindi, oltre alla qualità delle foto, a fare la differenza è anche il modo di presentarle, di servire il cliente che le commissiona.

Mondrian a Dubai. Foto di Beppe Raso

Il mio lavoro mi ha insegnato che l'architettura, il design, le forme non sono facili da catturare; rappresentare la spazialità in maniera armonica è difficile. È l'esperienza e la qualità che un fotografo ha, o non ha, che fanno la differenza in questo settore. Ti faccio l'esempio dello still life, con il soggetto fermo al centro della scena: una volta imparate le tecniche e i meccanismi per valorizzare le luci e ottenere il risultato che cerca il cliente, è possibile andare avanti per anni a dare grandi soddisfazioni ai clienti e a sé stessi. Nella foto di architettura è diverso, e in questo senso Mondrian è un esempio lampante. L'uso dello spazio, dei colori fatto da Mondrian si applica perfettamente alla fotografia architettonica in quanto al gioco sui volumi e sulle linee verticali e orizzontali.

od: Quali sono le prospettive di lavoro nel tuo settore alla luce della crisi economica?

BR: La maggior parte dei miei clienti è nel settore del mobile, che sta vivendo una grandissima crisi. Fortunatamente per il mio lavoro ci sono anche i settori dell'architettura e del real estate in cui si lavora abbastanza bene. Con questa crisi credo che sia venuto il momento di ricominciare da capo anche nella fotografia, di inventarsi  e proporre cose nuove.

od: E un giovane che oggi si avvicina al mondo della fotografia architettonica con interesse professionale, cosa deve fare, come deve muoversi?

BR: È soprattutto una questione di passione. Oggi con i social network come Facebook e Flickr è facile trovare belle immagini di settori come lo sport, perché ci sono tantissimi appassionati; ci sono fotografi specializzati ad esempio in foto di sci, o skateboard. Quando però si parla di architettura, è difficile trovare foto di qualcuno che lo faccia per passione. Per fare foto di architettura non si può semplicemente andare in giro con la macchina fotografica e scattare, ma è necessario avere sempre con sé un cavalletto. Se si desidera fotografare un monumento in granito e catturarne i dettagli contemporaneamente alle sfumature del cielo, è indispensabile utilizzare il cavalletto. In una serie di foto che ho scattato a Singapore, come quella che appare in copertina su questo numero di od, per catturare alla perfezione la luce dei palazzi sullo sfondo della baia senza perderne i dettagli ho iniziato a scattare prima delle sette di sera con il cavalletto per catturare i dettagli quando c'era ancora luce e ho continuato fin quasi alle nove, in modo da avere una serie di scatti su cui lavorare. Tutto questo si fa soltanto per passione.

Se dovessi dire quali sono i tre ingredienti base della fotografia di architettura sono umiltà, tanta pazienza e moltissima passione. E tempo. Perché soltanto il tempo permette di accumulare esperienze che vanno ad arricchire e a sommarsi alle conoscenze precedenti. Poi esiste anche la foto assolutamente istintiva, e qui interviene il talento, la capacità di cogliere l'attimo, ma qui si apre un’altra storia.

Le immagini a corredo dell'articolo sono ©Beppe Raso. Il ritratto di Beppe Raso in apertura è di Sara Fumagalli.

Il sito di Beppe Raso: www.bepperaso.com

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