Il profilo di questo mese è dedicato a Carla Pozzi, professionista a capo di una delle più importanti agenzie del nostro paese: Studio Immagine. Da oltre un quarto di secolo questa agenzia rappresenta il lavoro di fotografi e illustratori di moda in Italia e nel mondo con grande successo, grazie alla passione e alla profonda conoscenza di un universo in cui Milano ha rappresentato il centro vitale. Nel lavoro di Carla traspare la sua grande professionalità e un fervore che suona quasi d'altri tempi, un coinvolgimento emotivo verso ciò che svolge quotidianamente che si mescola con un impegno morale che ha radici lontane, a difesa dei valori, umani e sociali, appresi in famiglia. Ma qualcosa sembra essere cambiato...

osservatorio digitale: Raccontaci come è cominciata l'avventura di Studio Immagine.

Carla Pozzi: Abbiamo aperto l'Agenzia venticinque anni fa, nel 1983, sulla scorta del mio precedente lavoro di redattrice di moda che ho svolto per otto anni. Allora lavoravo per la redazione di Harper's Bazaar Italia e, in seguito, per Vogue Germania – non c'erano tutti i giornali di oggi – di cui sono diventata la corrispondente italiana. Il mio lavoro principale, oltre a seguire sfilate, presentazioni e stabilire i temi moda da sviluppare era la scelta dei fotografi con cui realizzare i servizi redazionali seguendoli durante tutte le fasi. Accadeva spesso che le aziende di moda mi chiedessero consulenze per realizzare i loro nuovi cataloghi o le loro campagne pubblicitarie, richiedendomi un contributo per creare la loro immagine. Quindi accessori e pezzi complementari alle loro produzioni specializzate andavano scelti e abbinati con cura. Ad esempio, un mio cliente di allora, Ginocchietti, che produceva maglieria di alto livello, richiedeva una ricerca molto selettiva per tutto quanto concerneva l’abbinamento ai capi di sua produzione. In seguito, alcuni clienti iniziarono a chiedermi suggerimenti a proposito dei fotografi e, in molti casi, ho collaborato a selezionare il professionista più adatto al loro profilo aziendale. In quel periodo, a Milano, c’erano, che mi ricordi, solo due agenzie di fotografi perché a quel tempo era tutto un po' sul nascere. Il lavoro della moda, la pubblicità, tutto era più semplice, diretto, addirittura oserei dire naif. Con gli stilisti c'era molto più scambio, ci si dava del tu, non erano certo i personaggi e le star di adesso. Ripeto, tutto era più facile, immediato, c'era molto divertimento anche perché si era tutti più giovani, più freschi e più spontanei. Forse eravamo davvero più autentici e si lavorava molto con grande collaborazione reciproca. A me, realizzando i servizi di moda per il giornale, capitava di conoscere i principali fotografi italiani e stranieri. Di conseguenza, quando mi veniva richiesto un consiglio, indicavo di volta in volta quello che mi sembrava più adatto: mi sono trovata bene con questo fotografo che è molto bravo e veloce, valorizza molto bene le modelle, ha fatto delle foto molto interessanti, trova dei tagli particolari e dà uno stile molto personale alle foto e così via. Queste erano le mie indicazioni ma lo facevo così, liberamente, per essere utile, mi veniva naturale e non c'era nessuna finalità nascosta. I fotografi erano riconoscenti e a volte mi mandavano dei fiori per ringraziarmi di averli segnalati per questo o quel lavoro. Poi qualcuno ha cominciato a chiedermi perché non lo facessi professionalmente. In quel periodo avevo conosciuto quello che sarebbe poi divenuto mio marito, Davide Manfredi, che stava per aprire un'agenzia di fotografi ed era venuto al mio giornale per propormeli. Nel giro di un anno ho lasciato il mio lavoro di redattrice per dedicarmi con lui esclusivamente all'agenzia.

Griffith

od: Detto così sembra tutto molto semplice, effettivamente.

CP: Si, diciamo che si è sviluppata una situazione in maniera quasi fisiologica: io avevo molte conoscenze e facevo molte consulenze; ecco allora che occuparmi del lavoro dei fotografi, quindi dello sviluppo dell'agenzia, è stato tutt'uno. Noi siamo stati i primi in Italia a rappresentare e a portare fotografi stranieri perché, fino ad allora si lavorava perloppiù con i professionisti italiani. Il mercato e le agenzie erano impreparati, era tutto ancora per certi versi un po' da scoprire... Magari questo discorso non vale per la moda, perché in quell'ambiente si era già abituati a lavorare con professionisti stranieri, ma negli altri casi andavano tutti presi un po' per mano. C'era anche una sorta di cautela verso il lavoro fatto all'estero, quindi erano molte le domande sulle capacità del fotografo che non conoscevano, sui modi, sui tempi e sui costi: se, ad esempio, c'era da fare un lavoro a New York eravamo noi ad accompagnare il cliente sul set, noi a trovare tutto il necessario, noi a organizzare tutto il processo di produzione, dai preventivi fino alla consegna dei lavori. Questo, per il cliente, era molto allettante, perché aveva sempre una specie di tutor che lo seguiva passo dopo passo nell'impresa.

od: Ma questo non ha portato a un impoverimento dei valori professionali nazionali?

CP: No, in maniera assoluta. In quel periodo noi lavoravamo tantissimo in Italia con fotografi italiani: diciamo che oltre il 70 per cento dei servizi fotografici si svolgeva con professionisti italiani e il resto con gli stranieri, quasi il contrario di quello che avviene oggi, dove a fare la parte del leone sono proprio i fotografi stranieri. Oggi il lavoro della moda si svolge al 70 per cento all'estero perché molto sponsorizzato dalla stampa specializzata, in particolare le testate Condé Nast (che da anni lavorano raramente con fotografi italiani). Ecco, questo è il vero problema del mondo della fotografia: l'Italia non tutela i suoi professionisti, mandando buona parte delle produzioni all'estero e, quindi, del fatturato. Ora, io sono un agente di fotografi sia italiani che stranieri e mi piacerebbe che i nostri professionisti lavorassero molto di più per i nostri stilisti, i nostri giornali e le nostre aziende senza per questo chiudere la porta ai talenti stranieri, non sto facendo una crociata, desidererei solo vedere valorizzato il lavoro italiano.

od: Come è accaduto?

CP: C'è una logica. Hanno iniziato i giornali; la moda vende in Italia, in America, nel mondo, quindi è ovvio che anche l'immagine che propone debba essere internazionale, utilizzando volti diversi, tecniche e stili differenti, ambienti e feeling nuovi. Questo concetto vale per ogni parte del mondo: il ragionamento non fa una piega, ma come ti spieghi allora che a Londra o a Parigi il 70 per cento lo facciano professionisti inglesi o francesi? Da noi succede esattamente il contrario: per questo si può dire che il mondo della fotografia, soprattutto quella di moda - e aggiungerei anche molti servizi che le gravitano intorno - sta entrando in un circuito recessivo, per citare Veltroni. È ovvio, perché se non fai lavorare i fotografi in Italia non lavorano nemmeno gli studi, non lavorano le modelle, i truccatori e i parrucchieri, fino ad arrivare ai laboratori e ai pony che consegnano i lavori. Per questo si sta facendo un'azione di sensibilizzazione nei confronti dell'opinione pubblica e degli operatori del settore.

Ferdinando Scianna

od: Quindi anche il lavoro dell'agente è cambiato.

CP: Certo. Un tempo potevi rappresentare dei grandissimi fotografi stranieri perché qui a Milano, o in Italia in generale, c'erano le più importanti produzioni fotografiche, i creativi più di tendenza mentre adesso, che molto lavoro si svolge altrove, soprattutto per la moda, è diventato più difficile, per un agente italiano, assicurarsi la rappresentanza di un fotografo straniero importante, che nella maggior parte dei casi, preferisce farsi rappresentare da un agente di New York, o di Parigi o di Londra, dove sanno che si realizzerà anche la maggior parte delle produzioni italiane, per scelta degli stilisti o dei giornali. Posso capire che, talvolta, le prime linee abbiano particolari esigenze ma è un po’ difficile spiegarsi perché questa tendenza venga anche assecondata da seconde o terze linee senza una vera necessità. Abbiamo molti professionisti di grande qualità che potrebbero fare in Italia altrettanto bene ciò che viene fatto fare all'estero. Sulla scia dei giornali più importanti poi si muovono anche altri, perché l'atteggiamento fa tendenza, e , a questo punto, perché non avvalersi anche di un art director americano che, a sua volta, farà lavorare tutta gente che conosce e che ha a portata di mano. Dove vanno i nostri soldi? Non vorrei sembrare polemica e basta, cerco solo di far affiorare un discorso di buon senso: capisco che si vada a New York se vuoi fare delle riprese in cui si veda Manhattan, ma per lavorare chiusi in uno studio si potrebbe benissimo rimanere a Milano, visto che abbiamo delle strutture che non sono seconde a nessuno. Io ricordo che spesso anche grandi fotografi si dicevano perplessi su tutto questo fermento verso gli studi all'estero quando da noi tutto era (e lo è tuttora) organizzatissimo. Avendo lavorato a lungo all'estero posso dire senza tema di smentita che abbiamo lo stesso livello, tecnico e artistico, che si può trovare altrove: bisognerebbe solo ricordarsene e crederci di più. Si dice che anche i parrucchieri e i truccatori all'estero siano più bravi rispetto ai nostri però, è curioso notare che, quando i nostri si sono trasferiti a Los Angeles, a Londra o a Parigi, hanno cominciato a lavorare come pazzi e sono diventati subito delle star richiestissime.

od: Quindi un problema generalizzato, come si diceva prima

CP: Ma sì, un problema che non coinvolge tutta la fotografia ma buona parte del suo indotto. Prima la moda e, da qualche anno, anche la pubblicità valorizzano meno il lavoro italiano a favore di quello straniero ma, ti assicuro, non sempre esistono motivi validi per queste scelte. A volte l'art che decide la campagna ha solo voglia di sconfinare a Londra o in America, e questo ritengo non sia un motivo sufficiente, oltre che un esborso inutile per il cliente. Credo anche che uno strumento come il vostro giornale dovrebbe dedicare attenzione a questo problema che, ormai, preoccupa tutti gli agenti italiani da diversi anni. Voglio raccontarti un breve episodio che mi sembra significativo. Tempo fa un mio cliente chiese un’opzione per un fotografo, per una campagna da realizzarsi in Brasile, nella foresta amazzonica, una campagna di moda che aveva anche dei risvolti sociali e di carattere ambientalista, sostenuta in parte dal governo brasiliano. Dopo un paio di settimane il cliente richiamò per dirmi che, purtroppo, doveva fare altre scelte perché l’ente governativo, che dava loro supporto e autorizzazioni, aveva imposto l’utilizzo di fotografi e tutti gli addetti ai servizi brasiliani. La morale è che anche il Brasile, quando si tratta di business, è più avanti di noi. Potrei raccontarti anche del Sudafrica, dove praticamente accadono le stesse cose, ma hai già capito che cosa voglio dire; in Italia invece si pensa molto al glamour e poco alla valorizzazione dei nostri professionisti e dei nostri servizi.

lsd

od: Verrebbe da dire che, come spesso è accaduto, pecchiamo di esterofilia.

CP: In parte è come se volessimo mangiare solo formaggi o bere vini francesi, ignorando il patrimonio e la storia di quelli di casa nostra. Il cinema, ad esempio, si sta muovendo in direzione opposta: se ci fai caso stanno sorgendo un po' ovunque film commissions e, di conseguenza, l'industria cinematografica sta lavorando molto di più in Italia, dove si avvale di parecchie agevolazioni, anziché all'estero. Nella fotografia questo accade meno, c'è troppa voglia di scappare altrove, sembra che qui ci si annoi per qualunque cosa. Ho visto art director che partivano per Londra per uno still life e poi andavano a Parigi per fare la post-produzione. Se non è proprio esterofilia bisogna che comunque si cominci a riflettere su questi fatti, magari è una questione più radicata, una forma di provincialismo, un complesso che ci portiamo dietro da sempre. Io capisco anche questi dipendenti che desiderano viaggiare, almeno per lavoro: il risultato è che i budget vengono spesi quasi tutti altrove e in Italia rimangono pochi spiccioli, siamo gli specialisti dell’autogol.

od: Potrebbe esserci una soluzione?

CP: Sì, esiste ad esempio la FIEG, la Federazione Italiana degli Editori nonché il Ministero delle Attività Produttive, che dovrebbero “imporre” l'impiego di professionisti italiani per realizzare le riviste di moda, almeno per una quota intorno al settanta per cento di quelli utilizzati. Ci vorrebbero delle leggi mirate, atte a tutelare la nostra creatività e la conseguente manodopera che ne deriva: all'estero queste leggi funzionano da tempo, siamo noi che, come al solito, stiamo alla finestra a guardare mentre le occasioni passano. Alcuni anni fa chiamai per proporre a una testata Condé Nast una nuova fotografa di moda, appena acquisita dalla mia agenzia e di ottimo livello che poteva ben figurare in quel genere di pubblicazioni. La prima domanda fu se fosse italiana. Nessuna informazione sul suo modo di lavorare e sulle sue esperienze. Aggiunsero che le loro linee guida privilegiavano il lavoro svolto da fotografi stranieri e perloppiù all’estero per assicurarsi “un’immagine internazionale”. Questo mi lasciò molto perplessa e nel tempo vidi questa tendenza diffondersi anche tra le altre case editrici di testate di moda, vedi Mondadori, Rusconi, Rizzoli eccetera.

Michele Gastl

od: Ma i fotografi come fanno a lavorare?

CP: Emigrano, si reinventano, si arrabbiano, passano da un agente all'altro credendo di trovare la soluzione ai loro problemi, senza capire che spesso il problema è questo: c'è meno lavoro qui e quel poco va diviso in molti. In questo modo diminuiscono le loro possibilità di aggiornarsi, di sviluppo e di crescita. Lavoro da molti anni e con un giovane fotografo che ha molto successo, Michele Gastl, che investe molto in tecnologia, in macchine nuove e in progetti e, devo dire, che lui pur essendo stato quattro anni, lavorando bene, a New York ha comunque preferito rientrare a Milano dove lavora a un livello molto alto.

od: Ho visto che rappresenti anche degli illustratori.

CP: Anche qui si dovrebbe fare un discorso lungo. Gli illustratori in Italia lavorano un po' con l'editoria, i giornali e i libri: nella moda e nella pubblicità, a differenza della Francia dove viene molto utilizzata, l'illustrazione viene presa poco in considerazione, interessa meno. È raro vedere una grande campagna di moda o di pubblicità fatta da un illustratore.

littelulu

od: Studio Immagine però, nonostante il momento difficile, continua anche a svolgere il suo ruolo di talent scout?

CP: Per forza, il mio lavoro e anche scoprire nuovi fotografi. Li cerco o, più spesso, mi cercano loro per essere rappresentati. Diventa più difficile anche trovare i giovani talenti perché, quando li trovi, quando ti piace davvero qualcuno, rischi che stiano già pensando di andarsene a costruire il loro futuro altrove. Del resto non è così quasi in tutti i campi, ultimamente?

 

È sera ma Carla ritorna nel suo studio perché il lavoro ferve come se fosse mattina. Sinceramente trovo preoccupante questa situazione raccontata in modo chiaro, senza mezze parole ma neppure senza acredine, di sicuro con un po' di amarezza da chi ha vissuto certe situazioni di gran spolvero in prima persona e ora vede un mondo che sembra perdere molto del suo smalto. Ho detto sembra perché tutti ci auguriamo che, come avviene di solito, da uno svantaggio evidente la nostra italianità possa trovare nuove opportunità. Forse la strada da percorrere è davvero quella di richiedere a gran voce una legge che tuteli meglio la categoria e la creatività italiana e che, magari, possano anche aprire nuove scuole di fotografia che formino i nuovi talenti. Per questo serve l’aiuto di tutti, soprattutto degli italiani.

Il sito di Studio Immagine si trova all'indirizzo: www.studio-immagine.it

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