“Si può definire propaganda qualunque messaggio il cui scopo sia quello di influenzare il comportamento delle persone a cui è diretto, facendo leva soprattutto sulle loro emozioni”, così è descritto il significato di “propaganda” nel “Dizionario della fotografia” a cura di Robin Lenman per le edizioni Einaudi. Sulla base di questa definizione appare chiaro che la fotografia ben si presta alla propaganda poiché è da sempre in grado di creare immagini che possono essere di forte impatto emotivo, inoltre esiste ancora oggi la convinzione: “la macchina fotografica non mente mai”.

Mi domando però come sia possibile che questa idea della fotografia come documento della realtà tout court sia ancora diffusa ai giorni nostri. Perché me lo chiedo? Perché mi viene in mente l’uso che certi reporter fanno di alcune fotografie in cui tolgono o aggiungono elementi ricorrendo al fotoritocco per creare un impatto emotivo pilotato in chi poi le osserverà; penso ad esempio alle recentissime polemiche sorte attorno ad una foto di Narciso Conteras, fotografo messicano licenziato in tronco dalla Associated Press per aver usato lo strumento tampone in una sua foto scattata in Siria nel 2013, o ad altri fotografi che manipolano le immagini a loro piacimento distorcendo in questo modo la realtà per creare un più forte shock emozionale in coloro che poi guardano scatti di guerra stando seduti in pace in poltrona o davanti ai loro PC.

Ma torniamo al concetto di propaganda: i mezzi di comunicazione a cui fa ricorso sono la stampa, l’arte grafica, il cinema, la radio, la televisione e ovviamente la fotografia. Una delle prime volte in cui le foto vennero usate a fini di propaganda fu sicuramente il periodo del Secondo Impero, durante il quale Napoleone III se ne servì per pubblicizzare i successi del suo governo e ancor più se ne fece uso dopo il crollo dell’Impero, quando, durante la Comune di Parigi, Eugène Appert fece diffondere dei fotomontaggi per tentare di screditare i comunardi mettendo in mostra le loro presunte atrocità. La Francia è un’antesignana dell’uso della fotografia come mezzo di propaganda, tanto è vero che in seguito se ne avvalsero gli oppositori di destra della Terza Repubblica e ancora, tanto per citare un altro esempio che fece molto scalpore, se ne servirono i giornali alla fine dell’800 per l’affaire Dreyfus.

Anche durante la prima e la seconda guerra mondiale la propaganda fu ampiamente sfruttata da tutte le parti coinvolte mentre, per quanto riguarda le dittature, la Russia Sovietica fece ampio uso della comunicazione visiva per via dell’alto tasso di analfabetismo e anche per l’esistenza nel suo interno di diversi gruppi linguistici. Soprattutto negli anni Venti del Novecento il regime mobilitò diversi fotografi e designer di talento e tra questi spiccano Aleksandr Rodcenko (qui a lato una sua foto) e Georgij Zelma, che crearono immagini dinamiche e moderniste di industrializzazione e di rinnovamento sociale.

Le immagini di Rodcenko del Canale Mar Bianco - Mar Baltico vennero sfruttate anche per la propaganda all’estero e sono rimaste nella storia nonostante in seguito gli stili d’avanguardia siano stati perseguitati e bollati come forme di deviazionismo borghese. Con la soppressione delle avanguardie si fece strada una visione in cui le immagini dei capi di regime assunsero un’importanza sempre maggiore e schiere di fotografi immortalarono Stalin, benché fosse poco fotogenico e spesso a disagio dinnanzi all’obiettivo. Le sue fotografie vennero poi trasformate in dipinti e il suo ritratto fu spesso sovrapposto ad immagini militari o industriali che ne evidenziavano la figura di leader e capo di una potenza militare proiettata verso un fulgido futuro moderno. I fotografi si prestarono al gioco, come in ogni dittatura che si rispetti.

Questo discorso valse anche per la Germania nazista, in cui la cultura fotografica era sicuramente più ricca rispetto ad altri stati totalitari. Qui, negli anni Venti del secolo scorso, vi era un’importante industria fotografica, la stampa illustrata vantava una grande esperienza e gran parte della popolazione possedeva un apparecchio fotografico;  proprio per questo vi fu un enorme contrappeso della fotografia della gente comune rispetto alle immagini ufficiali. Per quanto concerne però il repertorio propriamente politico, il fotografo più importante nell’iconografia propagandistica del Terzo Reich fu sicuramente Heinrich Hoffmann, amico personale di Hitler e, appunto, suo ritrattista in via esclusiva.  Fu Hoffmann a contribuire in maniera rilevante alla creazione del mito di Hitler dal punto di vista dell’immaginario collettivo dell’epoca.

Va da sé che tutti i settori della propaganda erano controllati dal Ministero della Propaganda e i fotografi mettevano in risalto solo i temi segnalati, come l’antisemitismo o la Russia sovietica, mentre dovevano sorvolare su argomenti che riguardavano i passi falsi commessi dai vari gerarchi, pena non solo l’impossibilità di lavorare ma anche l’arresto. Risulta però interessante, per uno studio studio sociologico della fotografia, il fatto che il nazismo puntava a diffondere tra la classe operaia la pratica di una fotografia spontanea e per questo motivo venivano spesso organizzati corsi fotografici e l’attività fotoamatoriale venne incoraggiata fino alla metà della seconda guerra mondiale (questo spiega il vasto numero di fotografie dell’epoca ancora reperibili ai giorni nostri).

Il modo in cui vengono utilizzati i servizi fotografici è di vitale importanza anche in tempo di pace e anche nelle cosiddette democrazie, a dimostrazione che, piaccia o no, la propaganda fotografica è al servizio di tutte le bandiere: i politici, sia quelli in carica, sia quelli che concorrono alle elezioni, devono presentare di sé un’immagine che trasmetta un messaggio e che non evidenzi note negative.

Negli Stati Uniti d’America, il controllo del dettaglio e la ricerca dell’immagine più ammiccante si perfezionarono con la presidenza di Franklin Delano Roosevelt: il suo addetto stampa, Stephen Early, impose ai fotografi delle regole non scritte per ottenere scatti che presentassero favorevolmente il Presidente (la più nota di queste regole non scritte era il divieto di mostrarne la disabilità). Anche per le fotografie legate a Downing Street e all’Eliseo esiste tutta una serie di regole ed è necessaria una meticolosa pianificazione che tende a massimizzare l’impatto positivo del reportage fotografico. Fatto però salvo l’arrivo di un fotografo che di tutte queste regole se ne infischia e fotografa un Presidente mentre con casco e motorino se ne va di nascosto a trovare l’amante di turno.

Ma non illudiamoci, perché anche questo tipo di foto fa parte della propaganda: scandalistica, magari, ma pur sempre propaganda. Quello che voglio dire è che anche nelle democrazie è sempre esistita e sempre esisterà la fotografia al servizio della propaganda, dell’una o dell’altra fazione, ma comunque propaganda.

E la macchina fotografica come strumento che non mente mai? Che fine ha fatto? Basta leggere la storia della fotografia per capire in un battibaleno che anche quella frase è propaganda, forse la miglior invenzione propagandistica di tutti i tempi fino all’arrivo del fotoritocco di massa.

Il sito di Monica Cillario si trova all'indirizzo www.monicacillariophotographer.com

Data di pubblicazione: marzo 2014
© riproduzione riservata

alt

Cerca su Osservatorio Digitale