Camera con vista

La dignità dentro

Walter Meregalli

Ci sono progetti che ti segnano, che ti aiutano a crescere, professionalmente e umanamente, che ti costringono ad alzare l’asticella delle tue aspettative. Sono progetti che hanno al forza di scuoterti e di costringere, a volte, a rivedere il tuo approccio.
“La Dignità Dentro" è uno di questi.

 Walter Meregalli – La dignità dentro per osservatoriodigitale di aprile-giugno 2024 n.o 121

È maggio, lo scorso maggio. Una mattina iniziata da poco. Mi suona il cellulare. «Ti va di seguire un progetto in carcere?»
La voce è quella squillante di Roberta Braccio, di The European House Ambrosetti. Mi conosce, conosce bene quello che mi prendere le decisioni di pancia.
Non le do neppure il tempo di concludere la sua domanda. «Quando si comincia?»
Non so nulla di quello che mi avrebbero proposto, nessun dettaglio o altro, ma, dentro di me, ho già deciso. Ero della partita.
A quella prima telefonata segue una manciata di video call con il team di The European House Ambrosetti e con la responsabile di D.O.T, la loro onlus, Marina Mira D’Ercole. Ancora non c’è un nome, ma già il progetto carceri, sta prendendo la sua forma definitiva e mi ci è voluto davvero molto poco per coglierne la portata, potenzialmente strepitosa, così come il peso della responsabilità.
Quello che mi viene chiesto è raccontare come il lavoro in carcere riesca a trasformare la pena detentiva in uno strumento di riabilitazione e rieducazione.

Walter Meregalli – La dignità dentro 2 per osservatoriodigitale di aprile-giugno 2024 n.o 121

The European House Ambrosetti è chiara sin da subito. «Non vogliamo un libro sul carcere.» sottolinea con una compita e cortese fermezza, tutta piemontese, Marina Mira D’Ercole. Vogliono un progetto che parli sì, di carcere, ma che lo faccia attraverso il lavoro. Si aspettano un progetto che principalmente si rivolga alle aziende private loro partner e che attiri l’attenzione del loro management sulla possibilità di investire nel lavoro in carcere. Un progetto decisamente ambizioso e delicato al tempo stesso.
«Io non so nulla di carcere.» dico.
Non ci giro attorno e nemmeno cerco di convincere The European House Ambrosetti del contrario. So raccontare storie, questo sì, con le parole, con le immagini. Forse, la mia acclarata ignoranza dell’argomento specifico, mi dico, in qualche modo mi garantisce un approccio, per così dire, candido, ma il rischio di scivolare nell’ovvio, nel banale, il rischio di non riuscire a non essere superficiale si nasconde dietro ogni paragrafo, dietro ogni scatto.
Devo stare all’erta, mi dico.
Parlare di carceri, di detenuti, di pene da scontare non è come raccontare la storia di un’azienda vitivinicola, senza nulla togliere a queste ultime. Il carcere è un argomento delicato e divisivo, ma anche inflazionato. Il carcere, inevitabilmente, si tira dietro storie complicate di umanità varia, storie spinose, spesso scabrose. Sbagli il tono di voce ed ecco che la tua narrazione va alla deriva, naufraga nel pietismo più stucchevole. Sbagli l’approccio ed è immediatamente retorica, vuota, e tu sforni l’ennesima fotocopia di già visti, di già letti. Il rischio poi di scivolare ancora più in basso e realizzare un progetto caratterizzato da quel voyeurismo morboso, tipico di certi prodotti legati al mondo del crimine e delle carceri, è altissimo.

Walter Meregalli – La dignità dentro 3 per osservatoriodigitale di aprile-giugno 2024 n.o 121
Non deve capitare. Non me lo posso permettere. Il progetto carceri è un’occasione unica per chi come me vive per raccontare storie, al netto dei compensi, al netto del tempo e delle energie che sai sin da subito ti consumerà. E allora comincio a fare i compiti.
D’accordo non sapere nulla di carceri, non esserci mai entrato neppure una volta in visita scolastica. D’accordo l’approccio candido, ma qualsiasi storyteller ha il dovere di prepararsi prima di affrontare la produzione, ha il dovere di documentarsi, di cominciare a colmare le lacune, quanto meno le più evidenti. Chiunque voglia raccontare una storia deve diventare un piccolo esperto del mondo al quale questa appartiene o quanto meno ci deve provare.
Per cui ordino una mezza dozzina di libri su Amazon, quasi tutti fuori catalogo o di sconosciute case editrici. Comincio a leggerli e comincio a salvare decine e decine di pagine web che parlano di carceri e di lavoro in carcere. Mi costruisco il mio piccolo personalissimo archivio.
Poi insisto perché possa incontrare i candidati a diventare le mie dieci storie, primi di cominciare. Mi sembra giusto condividere con loro gli obiettivi del progetto, spiegarne le fasi. Sono curioso di conoscere cosa possano mai pensare di un progetto come questo, se mai li interessi, quali aspettative ripongono. bee.4 - Altre Menti, la cooperativa sociale che mi fa da trait d’union con i detenuti, fissa un incontro ed è così che entro per la prima volta della mia vita in un carcere. Fuori è luglio. Fuori è una mattina assolata e già caldo dello scorso luglio.

Sono ancora sul piazzale di fronte al carcere di Bollate, non sono ancora entrato, ma colgo in maniera distinta, cristallina, la differenza tra un dentro e un fuori. La colgo come sono certo non mi sia mai capitato prima o, più semplicemente, prima non le avevo mai badato troppo. Al blocco d’ingresso, oltre una porta che si apre a comando, dietro un vetro spesso, due agenti di polizia penitenziaria. Un uomo, che sbraita in un cellulare con un pesante accento del sud, e una donna. Su per giù venticinque anni, un cespuglio di ricci neri e il trucco marcato. Quando fa scivolare il mio pass attraverso la feritoia del vetro, scambiandolo con la mia carta d’identità, noto lo smalto sulle unghie. Noto i colori diversi a seconda del dito. Un vezzo. Un vezzo che contrasta con la mimetica blu, sobria e fin troppo maschia.
Visitatore, dice il mio pass. Sei sillabe alle quali, per ora, non do granché conto, ma che quando tra qualche ora mi ripresenterò al blocco d’ingresso, per uscire, faranno la differenza, tutta la differenza di questo mondo.
Ad accogliermi dentro c’è Francesco Panzeri, uno dei due soci fondatori di bee.4. I modi gentili, ma genuini, la barba da missionario e una risata fragorosa che fa esplodere di continuo.
Dice qualcosa del tipo che è bello avermi lì e ammetto che la cosa mi spiazza, e non poco. Siamo in carcere, non colgo il lato bello della cosa.
Mi traghetta verso una serie di capannoni appoggiati al perimetro esterno di Bollate, il box, come lo chiama lui, cioè una sorta di purgatorio dantesco, intrappolato tra i gironi infernali dei reparti del carcere e il cancello principale, oltre il quale c’è il paradiso, la libertà.
Al box ci lavora un gruppetto di detenuti che benefici di alcuni privilegi grazie ad comportamento meritevole ed è proprio nel box che imparo la mia prima lezione.

Walter Meregalli – La dignità dentro 4 per osservatoriodigitale di aprile-giugno 2024 n.o 121
Gli onori di casa li fa Roberto. Confesso di sentirmi frastornato, un po’ perché lì, al box, sembra di stare in un qualsiasi call center di una qualsiasi azienda e non certo in galera, e un po’ perché Roberto, col quale mi sono appartato a chiacchierare, ha modi gentili, educati, tanto che comincio a dubitare che si tratti di un carcerato. Ci pensa lui a fugare il dubbio. Lo fa con una spontaneità disarmante, tanto disarmante, che mi frega e mi induce a fare la mia prima gaffe, come il primo degli sprovveduti, come il primo degli ingenui. In totale buona fede, spinto anche da una malcelata eccitazione, gli domando quanto gli manca, così, pour parler.
Troppo tardi. La risposta di Roberto è una frustata in pieno volto e mi fa comprendere che devo ancora davvero imparare tanto. Roberto ha un ergastolo da scontare, devo imparare tutto.
E il fatto che sia lui stesso a consolarmi, a dirmi di non preoccuparmi, di pensarci, non fa che farmi sentire un idiota, superficiale ed idiota. Come si fa a non pensarci!?»
«Non si chiede mai.» - aggiunge Roberto. Sorride e scrolla la testa. Non si chiede mai, lezione imparata.
C’è un avvicendamento e Francesco ci affida a Marco Girardello, manager di bee.4, e Juliana Spinola, che per bee.4 cura la comunicazione. Questa coppia di Virgili mi traghetta dal purgatorio del box ai gironi oltre la carraia. Ora sono davvero dentro.
Sono in carcere e sono frastornato. Bollate mi accoglie con un lungo, lunghissimo corridoio, così lungo da farmi quasi scordare di aver superato un cancello all’inizio, armato di sbarre.
Il pavimento è tirato a lucido e sulla parete di sinistra si alternano murales dai colori fin troppo decisi e dal gusto in bilico tra l’infantile e l’incompiuto. Qualcuno ha affidato l’ingrato compito di distribuire un po’ di leggerezza lì dentro, senza però riuscirci. Lo fa invece la luce della mattina, che innonda il corridoio. Entra da padrona dai finestroni sulla mia destra. Non si accorge delle sbarre alle finestre e, lei sì, a suo modo, riesce a far confondere il dentro col fuori.
Sono frastornato. Ci sono sbarre alle alle finestre, sbarre ai cancelli, telecamere, ma nessuna traccia di quella galera che mi ero preparato ad affrontare. Anche questo corridoio mi frastorna. È
trafficato da un costante via vai di persone e non fatico a capire se si tratta di detenuti o di visitatori o chissà chi altro. Gli uniche delle quali ho la certezza, sono le guardie, grazie alle loro uniformi blu, tanto che mi viene da pensare che sono loro i veri detenuti.
Sono frastornato. Mi frastornano le eco di risate che mi arrivano ora attutite, ora più distinte. Mi frastornano i sorrisi dei detenuti che incrociamo, la timidezza di quei sorrisi. Mi frastornano i gesti del capo che mi danno il benvenuto, anche loro timidi, appena accennati. Mi frastornano gli sguardi di chi ci passa a fianco, mai torvi, mai biechi. Mi frastornano le chiacchiere nelle quali ci imbattiamo quando il corridoio incontra i reparti e si allarga e ospita conciliaboli di detenuti intenti a conversare. Mi frastorna vederli interrompere le loro chiacchiere per salutarci. Ciao, buongiorno,
ciao, buongiorno. Di continuo. Chiunque incrociamo ci saluta e, più che in galera, mi pare di essere tornato in villeggiatura, quando passavo le estati in un paesino di montagna e tutti quanti si salutavano, anche se perfetti sconosciuti.
Sono sempre più frastornato. Tutta questa normalità mi frastorna. Prima di superare il blocco ingresso di Bollate ero forte di alcune convinzioni e il fatto che fossero patrimonio intellettuale più o meno condiviso dal resto della società mi faceva sentire nel giusto.
Per me, il carcere era una sorta di buco nero del quale non sapevo granché, ma una cosa ce l’avevo ben chiara e stampata nella mente: dentro c’erano i cattivi e fuori i buoni e io stavo con i buoni. Per me, il carcere era una sorta di bolla dentro la quale il tempo smetteva di esistere e, così come il tempo, anche le esistenze di tutti coloro che ci entravano in manette. Le loro storie smettevano di esistere e forse anche i loro tratti somatici si fondevano in un magma informe.
Tutto sommato, come alla maggior parte di quelli fuori, anche a me, di quel buco nero, di quella bolla, di quel magma, non è che importasse granché.
Marco e Juliana mi fanno accomodare in un’aula all’interno dell’Area Industriale, nella quale hanno sistemato il call center di bee4, che dà da lavorare a circa 150 detenuti.

Walter Meregalli – La dignità dentro 5 per osservatoriodigitale di aprile-giugno 2024 n.o 121
Ecco che faccio la conoscenza con le mie dieci storie.
Ma quale bolla temporale!? Quale buco nero!? Quale magma! = Attorno al grande tavolo bianco, seduti con me ci sono donne, ci sono uomini, ci sono persone e queste persone, proprio come fuori, mantengono i loro tratti, custodiscono le loro storie, portano con sé le loro esperienze. Sono diversi e unici e hanno meriti e capacità.
Buco nero!? Bolla!? Magma informe!?
Ora sì che sono frastornato, alla deriva. Oggi è il primo giorno di scuola. Sono un primino e la mamma si è pure scordata di preparami la cartella. Sono spaesato. Non sono i detenuti che siedono con me a spaventarmi, a farlo e la dirompente normalità che mi trasmettono, l’urgenza di raccontarsi, a patto che le loro parole non vengano impiegate per istruire un nuovo grado di giudizio, da sommarsi a quelli già emessi dai tribunali.
Decidono di sposare il progetto carceri, ma intuisco che la loro fiducia dovrò sapermela conquistare. Ripercorro il lungo corridoio al contrario, esco.
Sono bastate poche ore dentro per uscire balbettando pensieri centrifugati, spaiati.
Eppure, se provo a ripensarci con un briciolo di distacco, la mia prima esperienza dentro un carcere non puzza neppure lontanamente di galera, tutt’altro.
Restituisco il pass all’ingresso e sono fuori. Al netto di tutta la normalità che mi ho incontrato dentro, ora che sono fuori colgo in maniera netta la linea che separa i due mondi, quello oltre quel cancello e quello da questa parte.
Il progetto carceri diventa “La dignità dentro” e io, dentro, ci torno di continuo e, ogni volta un po’ di più, sento che sto instaurando rapporti umani sinceri, prima con le mie dieci storie, poi anche con gli altri detenuti che lavorano nell’Area Industriale per bee.4.
La dignità prende forma. Intervisto i miei protagonisti, li fotografo, li riprendo. Ma soprattutto passo del tempo con loro. Chiacchieriamo, scherziamo, li ascolto raccontarsi. Diventiamo amici,
di quell’amicizia che non dispone di lunghi trascorsi, ma che risponde all’urgenza di comprendere e farsi comprendere e che ripaga la mia scelta di non giudicare.
Mi scopro curioso, di una curiosità sincera e priva di morbosità. E allora chiedo, chiedo senza più paura di fare gaffe, e loro mi rispondono, condividono con me anche dettagli che non avrei immaginato. Non hanno filtri, non fanno giri di parole. Parlano e si raccontano perché hanno capito che qualsiasi cosa mi diranno, non la userò mai contro di loro.
Ogni volta che torno a casa, dopo una giornata passata a Bollate, sento che l’empatia che provo nei confronti delle mie storie cresce, cresce e abbraccia anche a chi nel progetto non ci è finito.
Quasi mai conosco il motivo per il quale stanno scontando la loro pena, ma è la cosa che meno mi importa.
Prima di iniziare, mi ero detto che avrei fatto di tutto per non confondere la persona con il reato, e, al netto dell’empatia che avrei sviluppato per i protagonisti delle mie storie, non avrei dimenticato che fuori c’erano delle vittime.
Prima di iniziare, qualcuno aveva anche cercato di mettermi in guardia. «Sono dei manipolatori.» - mi era stato detto, parlando dei detenuti - «Vedrai che tutti ti diranno che sono innocenti e che sono in galera per un errore, che stanno pagando ingiustamente.»
In realtà, nessuno mi ha detto qualcosa di simile - anzi, mi correggo, uno sì, ma si tratta di un caso molto particolare.
In questi mesi ho avuto modo di ascoltare molte storie, diverse, più o meno complicate, più o meno disperate. Ho avuto modo di comprendere come sia fin troppo facile commettere un errore e scivolare al di là della legge, finire in carcere e così uscire dai radar dell’attenzione di chi sta fuori.
In questi mesi ho avuto modo di capire come un carcere che assolve soltanto l’aspetto punitivo non serve a nessuno, né al detenuto, né alla società, ma che anzi rischia di trasformarsi in un ambiente criminogeno, una sorta di master del crimine de facto.
In questi mesi ho capito come il lavoro possa invece essere un potentissimo strumento rieducativo per tutti quei detenuti che dimostrano una seria aspirazione a reintegrarsi.
Al netto della mia soddisfazione per La dignità, credo che il progetto sia andato oltre le aspettative iniziali, a dirmelo sono i complimenti che mi arrivano in ordine sparso, ma soprattutto le dediche che ognuno dei miei nuovi amici ha voluto scrivere in calce alla loro storia.
Ha ragione Pino Cantatore, fondatore e presidente di bee.4 (ed ex-detenuto): in carcere non si finisce, si ricomincia…

 

Data di pubblicazione: aprile-giugno 2024
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