Daniel Etter ©Ezio Rotamartir – od91

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Daniel Etter

Ezio Rotamartir

Sempre in occasione di Visa pour l'Image, abbiamo avuto l'opportunità di incontrare e conoscere un giovane professionista che da molti anni si occupa di fotogiornalismo e che è stato insignito, nel 2016, di uno dei premi più prestigiosi per chi svolge questo tipo di attività, il premio Pulitzer. andiamo a vedere che cosa ci ha raccontato Daniel Etter.

©Daniel Etter – Kinshasa, Congo for Der Spiegel – tutti i diritti riservati – od91

Nato nel 1980 ma cresciuto nel mondo, Daniel Etter comincia la sua attività di fotografo e scrittore fino ad approdare a lidi molto prestigiosi come il settimanale tedesco Der Spiegel o il quotidiano statunitense The New York Times, alcuni tra i pochi giornali che ancora incoraggiano e, talvolta, sponsorizzano inchieste e missioni in luoghi remoti del mondo dove accade qualcosa di straordinario e, purtroppo molto spesso, di tragico. Per questi giornali e per il suo grande interesse verso le tragedie che interessano il nostro pianeta, Etter si mette in viaggio con la sua fotocamera e con il suo taccuino, annotando oltre alle immagini – spesso forti e toccanti – anche le sue sensazioni, le sue emozioni, quello che prova nell'essere presente mentre accadono avvenimenti che, senza il lavoro di gente come lui, rischierebbero di passare inosservati agli occhi del resto del mondo. Parliamo di vicende tragiche che ogni giorno, purtroppo ormai, troviamo sulle prime pagine dei quotidiani o nelle aperture dei siti di news o dei telegiornali. Nel corso degli anni raggiunge una grande notorietà che lo porterà a vincere il premio Pulitzer per la fotografia di attualità e anche a diventare uno dei Canon Ambassador nel mondo.

Alcune immagini sono così paurosamente attuali che se avessimo cercato di fare quest'intervista in modo determinato non ci saremmo assolutamente riusciti in modo così puntuale. Vediamo che cosa ci ha raccontato Etter e che cosa raccontano le sue immagini.

osservatoriodigitale: Prima di entrare nel vivo della nostra intervista volevo chiederti come ti sei trovato a lavorare con la nuova EOS R che, come Ambassador, hai avuto con largo anticipo.

Daniel Etter: Direi assolutamente bene, ho ritrovato la stessa affidabilità delle mia 5D Mark IV solamente in un corpo di dimensioni più contenute e con un sistema di autofocus migliore. Il nuovo sistema di messa a fuoco è pazzesco , velocissimo e decisamente silenzioso, come tutta la macchina: con gli altri corpi quando lavori in modalità silenziosa in realtà stai lavorando facendo un po' meno rumore del normale mentre con la (EOS) R passi davvero inosservato. Ho lavorato molto con la nuova ottica 50mm f/1.2 e ho trovato che sia un obiettivo incredibile; credo sia una delle migliori ottiche sul mercato e una tra le più risolute. Punto.

od: Come professionista di alto livello quando sarai pronto a passare dall'attuale corredo a questo nuovo tipo di fotocamera?

DE: Anche subito, davvero, e non è una risposta da Ambassador (lo è diventato poco più di un anno fa, ndr) ma da professionista. Questo te lo dico perché ha un corpo piccolo ma non piccolissimo e al di là di alcune piccole cose diverse, come il posizionamento di alcuni tasti, è davvero molto simile al modo in cui lavoro con la 5D Mark IV.
Ad esempio una delle funzionalità che apprezzo maggiormente è la possibilità di spostare il punto di messa a fuoco principale facendo scorrere il dito sullo schermo touch: trovo che oltre che creativo sia davvero utile.

od: Come sei diventato Ambassador per Canon, sei stato scelto o hai partecipato a qualche selezione?

DE: Sono stato "obbligato" (sorride). È accaduto dopo la pubblicazione di alcune mie foto e la cosa mi ha fatto molto piacere anche perché ho sempre utilizzato queste fotocamere da quando ho iniziato a lavorare da professionista, con la prima EOS 5D originale.

©Daniel Etter – Circo Bellucci, Egitto – tutti i diritti riservati – od91

od: Ora però parliamo della tua fotografia.

DE: Cerco di fare del buon fotogiornalismo, in modo onesto, che racconta davvero quello che accade e che vedo con i miei occhi prima ancora che attraverso l'obiettivo. Da sempre cerco di raccontare le storie dei rifugiati, di coloro che si spostano scappando da situazioni di fame o guerra o persecuzioni di ogni tipo, razziale, religioso, politico. Alla base di tutto ci sono le mie emozioni, il mio modo di reagire alle situazioni di cui sono testimone e che mi toccano molto. Inoltre cerco di andare oltre a quanto accade in quel momento, ricerco i motivi che stanno all'origine dei fatti e non solo. Per quanto riguarda i migranti, ad esempio, cerco di spingermi più in là e oltre a ricercare le ragioni che scatenano un evento come questo, cerco di indagare anche tra le difficoltà che incontrano i Paesi che sono i destinatari di queste genti in movimento, i problemi che possono incontrare nel trovarsi di fronte all'arrivo di una quantità enorme di persone, spesso in uno stato precario sotto tutti i punti di vista, dal sociale al sanitario.

©Daniel Etter – Rifugiati al riparo dal freddo in un campo UNHCR – Tutti i diritti riservati – OD91

od: Che cosa cerchi in uno scatto?

DE: L'ispirazione e questa può venire da un luogo e dalle emozioni che mi trasmette ma, principalmente, sono le sensazioni che ho che mi spingono a scattare, quasi in maniera automatica. Trovo che non sia per forza necessario trovarsi in luoghi particolari – come in zona di guerra o sulla scena di un evento tragico – per scattare delle foto interessanti; puoi essere in India come in Italia o in Norvegia o, ancora, ovunque nel mondo ma basterà che ti metta in "ascolto" per entrare in sintonia con ciò che ti circonda, per percepire la storia di un luogo o di un popolo. A quel punto è quasi certo che riuscirai a fare delle buone foto.

©Daniel Etter – Sea Watch – Tutti i diritti riservati – od91

Ci sono immagini che sembrano venirti incontro. Come quella di questa donna salvata dal mare da una nave (la Sea Watch, ndr) insieme a molte altre donne, tutte madri con dei bambini. Oppure quella di Kinshasa o ancora quelle dei profughi appena scampati alla morte per freddo che hanno trovato aiuto in un centro di rifugio dell'Onu. Ci sono dei contrasti enormi, spesso, tra la bellezza di un luogo e la tragicità dell'evento che sto vivendo davanti a me. È partito tutto dal mio desiderio di conoscere e far conoscere queste situazioni che spesso in molte parti del mondo cosiddetto civilizzato vengono ignorate del tutto, non hanno nemmeno la possibilità di apparire sui giornali: cerco a modo mio di essere utile, di dare il mio aiuto in qualche modo a queste cause.

©Daniel Etter – Yemen – Tutti i diritti riservati – od91

od: Quindi tornerai a casa con migliaia di scatti... Passerai tutto il tempo a scattare.

DE: Non credere che sia così, purtroppo. Scatto poco perché la maggior parte del tempo, quando arrivo in una zona di mio particolare interesse, la devo dedicare alla ricerca di un mezzo di trasporto, di qualcuno disposto a portarmi sul luogo dove voglio recarmi, per non parlare dei permessi che rappresentano la maggior perdita di tempo, per chiederli e ottenerli, passando da un'autorità locale all'altra e così via. Magari tra il mio arrivo in un Paese e il raggiungimento della mia metà possono anche passare giorni, a volte settimane: il fotoreporter non è mai visto di buon occhio perché c'è sempre qualcuna delle parti in conflitto alla quale puoi dare fastidio, recare danno, quindi cercano di ostacolarti in ogni modo. Il segreto è nell'avere pazienza e non demordere.

©Daniel Etter – Exodus Grecia – Tutti i diritti riservati – od91

od: Un'ultima domanda che potrebbe apparire scontata: com'è stato vincere il premio Pulitzer, forse il maggior riconoscimento al mondo per un lavoro come il tuo?

DE: Ovviamente incredibile. Ero nella mia fattoria qui vicino (siamo a Perpignan quando facciamo l'intervista, ndr) nel sud della Francia quando ho ricevuto la notizia e la richiesta di recarmi subito a New York perché mi era stato assegnato il premio Pulitzer per la categoria Breaking News (fotografia d'attualità, ndr). Al momento  ho quasi fatto finta di niente, come se niente fosse, davvero, poi piano piano è cresciuta in me la consapevolezza diquanto mi stesse accadendo e mi sono sentito un po' sopraffatto dagli eventi, pensando a chi aveva vinto quel premio prima di me e ai loro capolavori. Nella sede del giornale (The New York Times, ndr) c'è una sala con tutte le foto e i nomi dei vincitori del premio e, quando sei li dentro, ti rendi conto di essere nel pantheon dei più grandi fotografi di reportage di ogni tempo: capire che il mio nome e il mio lavoro, Exodus, dedicato ai migranti e ai rifugiati sarebbe finito proprio li mi ha fatto tremare le gambe. L'immagine vincitrice ritrae un padre, fuggito dalla Siria in guerra, che si ricongiunge ai figli, temuti dispersi durante il viaggio verso la Grecia.

Vuoi sapere una cosa bizzarra? Dopo che ho ricevuto il premio sono trascorsi tre mesi senza che nessuno mi chiamasse per un lavoro, incredibile no?

Grazie a Daniel Etter per la sua disponibilità nel trovare uno spazio per realizzare la nostra intervista, tra un workshop, un evento, la partecipazione a una mostra o a un seminario nei quali era sempre presente.
Un grazie di cuore allo staff di Canon che ha permesso tutto ciò, in particolare a Giada Brugnaro e a Massimiliano Ceravolo, da ventinove anni deus ex-machina della casa giapponese in Italia.
Un altro grazie anche a Viviana Viviani di Primapagina per il supporto infinito.

Data di pubblicazione: settembre 2018
© riproduzione riservata

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