Se vi dico, andando in ordine sparso, così, come mi vengono in mente: La meglio Gioventù, I Cento Passi, La Piovra 8 (e 9), Non Essere Cattivo… vi cito solo alcune delle produzioni, cinematografiche e televisive, alle quali Angelo Raffaele Turetta ha lavorato come fotografo di scena. Parlare di lui significa infatti parlare di uno dei più amati ed apprezzati fotografi di scena del cinema italiano (amati ed apprezzati sia sul piano professionale che umano, poiché Angelo è una delle persone più gentili che si possano incontrare in un mondo difficile e rissoso come di fatto è quello del Cinema).

Ho conosciuto Angelo per caso, grazie ad un amico comune; ma esiste il caso? Secondo me no, anzi, ne sono proprio sicura e altrettanto sicuramente non è un caso se, in una Roma ormai purtroppo sempre più sciatta, l’ho incontrato per parlare con lui di fotografia.

L’avevo contatto ad agosto, rimanendo d’accordo che appena possibile mi avrebbe concesso un’intervista. L’ho chiamato e, nonostante stia lavorando su ben tre film, si è reso disponibile per un incontro, affabile e disponibile, con quell’umiltà che anni di esperienza accumulata in questo lavoro m’insegnano appartenere solo ai professionisti, quelli veri.

Difficile dire qualcosa di nuovo, perché su Angelo Turetta sono ormai stati scritti molti articoli; però, seduti davanti ad un caffè in un bar di Trastevere, lui ed io ci abbiamo provato.

od: La tua prima volta con una macchina fotografica, ossia il tuo primo ricordo legato alla fotografia.

Angelo Raffaele Turetta: Il mio primo ricordo con una macchina fotografica risale all’infanzia, perché mi fu regalata una macchina fotografica per la Befana del Ministero dove mio padre lavorava; sto parlando di fine anni Cinquanta primi anni Sessanta, la macchina era una Closter 127 e ce l’ho ancora. Poi, non so bene perché, ma ho incominciato ad innamorarmi di questo linguaggio, di questo modo di esprimermi, anche perché vengo da una famiglia dove mia madre era una pianista ed  anche una pittrice, quindi un’artista; mio padre invece era quello che fortunatamente m’ha tenuto sulla strada diritta e devo molto  sia a mio padre che a mia madre, perché entrambi mi hanno dato la possibilità di essere quello che sono.

Comunque, tornando alla domanda: cominciai a fare queste foto con la Closter; mi ricordo che le scattavo ad esempio durante le gite e in poche parole ero il fotografo della famiglia. Poi mio padre mi mise in contatto col laboratorio fotografico del Ministero in cui lavorava: là ho incominciato a imparare a sviluppare. La particolarità è che in questo laboratorio c’erano tutti sordo-muti, quindi io entravo la mattina in questa camera oscura e non comunicavo; nonostante ciò, queste persone sapevano spiegarmi benissimo come si faceva la stampa, come si procedeva con lo sviluppo e piano piano mi sono appassionato veramente tanto a questa cosa e ho anche un bel ricordo (sicuramente conservo ancora delle foto dell’epoca, perché io purtroppo ho questa “malattia”: sono uno che non butta nulla).

Legata a quei miei primi incontri con la fotografia c’è un’altra cosa molto bella: nel mio palazzo, al piano di sotto al nostro, abitava un inventore, che era il padre del mio più caro amico ed era un personaggio stranissimo, che inventava di tutto e cominciò a regalarci delle lenti e a lui devo molto perché mi insegnò una cosa importantissima: la sperimentazione. Mi stimolò a provare, a sperimentare con l’oggetto, con la macchina. Ricordo che ci regalava delle cellule fotoelettriche che si mettevano davanti all’obiettivo e in un certo senso imparai proprio  in quegli anni la macrofotografia.

Un’altra cosa fantastica di quel tempo era che facevamo dei fotoromanzi per i quali io e il figlio dell’inventore coinvolgevamo mio fratello e altri amici (tra l’altro all’epoca eravamo tanti, tutti coetanei), cose folli che però ci divertivano molto. Io ero il fotografo, il mio amico Gabriele faceva il regista e venivano fuori delle cose “tremende”: ricordo che ad esempio stavamo studiando la Rivoluzione Francese e quindi facevamo ghigliottinamenti, fucilazioni e io scattavo in sequenza; queste foto esistono ancora, ce l’ha un mio carissimo amico che ha questa mania di raccogliere i ricordi e pubblica un giornale che fa circolare tra di noi ex-dodicenni di allora. Io ultimamente gli ho dato una scatola dicendogli guarda Marco, cerca qui dentro e lui ha tirato fuori tutte queste esecuzioni. A guardarle adesso ci si rende comunque conto che erano precise, sequenziali: si vedono loro che andavano al patibolo, il ghigliottinamento, insomma tutta la storia... e però c’era anche grande ironia.

(Che si divertissero molto me ne rendo conto dalla luce che ha negli occhi mentre rievoca quei momenti dell’infanzia, NdA)

od: Quando hai capito che da grande avresti fatto il fotografo?

A.R.T.: Mi ero iscritto all’Accademia di Belle Arti, dove c’era un corso molto interessante di fotografia tenuto da Vittorio Contino, e lì si formò il gruppo di quelli che si legarono a Vittorio all’interno dell’Accademia. Ricordo che facemmo tutto un lavoro sull’Anno Santo del 1975; il titolo era “Comportamenti e gestualità dell’Anno Santo” e ci facemmo anche una mostra alla galleria “Il ferro di cavallo”. Poi, sempre in quell’epoca, lì conobbi altre due o tre persone con cui condividevamo la passione per la fotografia e cominciammo a fare le manifestazioni: seguire le manifestazioni è un classico di quel periodo. C’era la manifestazione femminista, la manifestazione del Partito Comunista, la manifestazione di quello, la manifestazione di quell’altro, insomma, era tutta una manifestazione. Noi le seguivamo e poi provavamo a vendere le foto all’Espresso (perché Vittorio Contino lavorava con l’Espresso, faceva le copertine e quindi ci diceva andate da Franca Orfini e proponetele le foto) e lì iniziammo a scoprire questa cosa: che si potevano vendere le fotografie. Tra l’altro, nel frattempo ho cominciato a frequentare anche il teatro.

od: Ecco, il teatro…  tu infatti hai iniziato con l’Avanguardia, giusto?

A.R.T.: Esatto

od: Quella del teatro è stata una scelta o un caso fortuito?

A.R.T.: È stato un caso, per un motivo semplicissimo: perché all’epoca ero fidanzato con la nipote di un attore che si chiamava Claudio Remondi, il quale faceva Teatro d’Avanguardia e quindi cominciai a frequentare il teatro di Trastevere e piano piano scoprii pure là che facendo le foto agli spettacoli di teatro poi la mattina potevo andarle a vendere a Repubblica, al Corriere della Sera: insomma facevo tutto il giro dei quotidiani e la prima foto che vendetti all’Espresso fu un ritratto di Perla Peragallo. Da lì piano piano ho cominciato a lavorare con tutta l’Avanguardia teatrale italiana, da Mario Martone a Toni Servillo (con cui sto lavorando anche adesso).

Apro una piccola parentesi: in questo lavoro ci vuole una cosa importantissima, che è la passione, la dedizione totale (come in tutte le cose creative) e quindi io mi sono buttato all’interno di questa cosa che era il Teatro d’Avanguardia. Poco a poco cominciai a conoscere tutti i gruppi dell’Avanguardia Teatrale Italiana e conobbi un certo Beppe Bartolucci (che era il consulente al Teatro Argentina, quindi al Teatro di Roma), della parte del Teatro Sperimentale. Nel 1982 ci fu una grande rassegna di tutta l’Avanguardia Italiana e Beppe Bertolucci ne era il curatore. Con lui facemmo una cosa meravigliosa, perché mi disse “Senti Angelo, raccontami un po’ tutto questo teatro, tutta quest’Avanguardia”; lo feci, e da lì conobbi tutta una serie di altri gruppi come ad esempio appunto i napoletani Mario Martone, Toni Servillo, Magazzini Criminali, insomma entrai in questo giro del Teatro d’Avanguardia che fotografai per un po’ di anni: dal ‘78 all’83-84... oltre no, perché poi tutta l’Avanguardia s’è sfasciata, è finita, è morta.

od: Prima di iniziare questa intervista stavamo parlando di incontri; per me la vita è anche l’arte dell’incontro e allora io ti vorrei domandare: quanto ha contato per te l’incontro con Claudio Camarca?

A.R.T.: Moltissimo. Difatti io e Claudio siamo molto amici ma ancora non so se amarlo o odiarlo. (Angelo sorride mentre mi dice questa cosa, NdA). Conobbi Claudio Camarca sempre tramite un lavoro per l’Espresso: Pier Vittorio Tondelli aveva indetto un concorso tra giovani scrittori under trenta e Claudio lo aveva vinto. Allora con Pier Vittorio Tondelli facemmo un viaggio meraviglioso in Italia insieme con tutti questi giovani scrittori e in quell’occasione io conobbi anche Claudio Camarco: lo dovevo fotografare. Claudio è una persona molto socievole e con lui nacque una simpatia immediata. Gli feci questa foto per l’Espresso (mi ricordo che lo misi in mezzo al Lungotevere, bloccando le macchine, su una sedia, davanti al “grattacheccaro”, quello all’altezza di Piazza Cavour) e comunque niente, la storia finì là. Un anno o due dopo vedo sul giornale che è uscito il suo libro, lo chiamo e gli dico che stavo lavorando su Roma, argomento del suo libro: “Io sto lavorando molto su Roma, dalle feste private dell’alta borghesia alla polizia, ai barboni, alla prostituzione, insomma sto facendo un lavoro ad ampio spettro”. Claudio si interessò a questa cosa e fra noi iniziò una collaborazione e cominciammo a lavorare insieme. Per un anno, un anno e mezzo uscivamo tutte le notti, ad esempio lavorando con una squadra della polizia del Commissariato del Viminale: era una squadra formata da giovani simpatici con cui entrammo in confidenza (direi in una sorta di amicizia) e collaboravamo con loro e giravamo insieme sulla macchina della polizia - chiaramente quella civetta; facevamo nottate incredibili ad inseguire gli scippatori, i ladri, gli spacciatori; poi all’epoca c’era anche un dirigente che ci aveva preso in simpatia e spesso erano loro che ci chiamavano e ci dicevano che avevano un intervento e ci dicevano appunto di venire. Chiaramente questo a me faceva comodo perché così ho potuto entrare in queste situazioni in prima persona, in esclusiva (cosa che tra l’altro  adesso sarebbe impossibile, con tutte le leggi sulla privacy, mentre all’epoca era tutto molto più semplice). Io son sempre stato un po’ un anarchico, ma lavorando con loro ho veramente cominciato a capire quanto poi in realtà la polizia sia utile, perché ti rendi conto che se non ci fosse sarebbe il Far West più selvaggio; ricordo che all’epoca la Stazione Termini era veramente una terra di nessuno e mi sa che anche adesso sta ritornando ad essere così.

od: Sempre a proposito dell’importanza degli incontri, mi racconti l’incontro con Marco Tullio Giordana?

A.R.T.: Quello è stato un incontro veramente fortuito. Prima però devo fare un passo indietro poiché non abbiamo chiuso il capitolo Claudio Camarca, poiché  è stato lui a trasportarmi verso la fotografia di scena. Claudio scriveva anche per il cinema e una volta scrisse un soggetto che poi avrebbe dovuto fare Claudio Caligari. Sto parlando di “Quattro bravi ragazzi”, una storia di inizio anni Ottanta.

Claudio mi chiama e mi dice “Dai, Angelo, vieni, ci divertiamo a Milano a agosto”. Devo confessarti che io all’epoca vedevo il cinema un po’ con la puzza sotto al naso perché venivo dal giornalismo, stavo cavalcando alla grande i giornali: facevo il corrispondente di Stern, collaboravo con il New York Times, con Times, poi con l’Espresso e altri giornali italiani, insomma ero ben collocato e quindi sinceramente di lavorare per il cinema proprio non mi interessava. Però Claudio mi ha beccato nel periodo giusto perché in quel momento quello che facevo io, cioè le grandi inchieste, ossia andare sul posto dopo che era accaduto un fatto e cercare di capire quale fosse la causa di quella storia - e tra parentesi c’erano dei giornalisti bravissimi con cui all’epoca potevi lavorare… - ecco, dicevo, quel tipo di giornalismo lì, stava cominciando a tramontare.

Quindi all’inizio feci sì un po’ di resistenza, ma poi accettai l’invito di Claudio. Dunque andai a Milano e conobbi il direttore della fotografia e mi divertii molto, anche perché all’epoca cominciai a raccontare il cinema proprio ancora con la logica del reporter: quindi misi in risalto il lavoro dell’uomo nel cinema (i macchinisti, le comparse… cioè diedi al lavoro un taglio ancora giornalistico di racconto di un avvenimento più che non la foto di scena tout court). Poi Claudio si occupò anche della regia perché Caligari non poteva più seguirla. I produttori - Pietro Valsecchi e Camilla Nesbitt - lo convinsero a fare la regia e gli affiancarono un bravissimo direttore della fotografia che gli seppe dare delle impostazioni tecniche precise (perché poi il cinema è linguaggio). Il lavoro finisce e sia Valsecchi che la Nesbitt mi propongono un secondo film, ma proprio immediatamente dopo, a seguire: “La Ribelle”, un film di Aurelio Grimaldi con Penélope Cruz e Stefano Dionisi: lì comincia a spargersi la voce che c’era questo fotografo strano che raccontava il film e faceva le foto diverse.

Una mia fortuna forse è stata anche che in quel periodo è cominciata la fine dei grandi fotografi di scena del cinema italiano (Angelo Novi, Mario Tursi, Sergio Strizzi); però, riflettendoci, guarda caso, tutta la scuola dei grandi fotografi di scena veniva dal fotogiornalismo. Comunque: in quel periodo c’era stata una discesa e quindi io arrivai proprio in quel momento di passaggio ed entrai in questo gioco perverso. Intanto però va detto che continuavo a lavorare anche per i giornali, solo che ad un certo punto mi chiamò Marco Pistolesi, un mio carissimo amico dell’Accademia di Belle Arti che faceva il direttore di produzione, e mi disse “Angelo ho saputo che hai lavorato con la produzione di Andrea Occhipinti” (perché io nel frattempo avevo fatto un altro film di Claudio prodotto appunto da Occhipinti). Dicevo: Pistolesi mi chiama e mi chiede: “Perché non vieni a fare un film che sto facendo io?” E io andai, anche perché il giornalismo d’inchiesta, che era il mio tipo di giornalismo, stava cominciando a sparire dai giornali. Tra l’altro quello di Pistolesi era un film interessantissimo, infatti era “Esercizi di Stile”: una sorta di logica di esercizi di stile di Raymond Queneau, però su una storia d’amore; interpreti Elena Sofia Ricci e Massimo Wertmuller. Erano tutta una serie di registi che in poche parole raccontavano la stessa storia, pur ambientandola ognuno come voleva… esercizi di stile, appunto. Lì c’era un direttore della fotografia e questo è un nodo centrale perché è il mio secondo Virgilio nel mondo del cinema: ti sto parlando di Roberto Forza.

Gli cominciarono a piacere le mie foto e iniziammo a frequentarci e quindi mi contattò per fare La Piovra 8 e 9: in quel momento La Piovra era la produzione Rai di punta. Finito quel lavoro ne feci altri,  lavorai anche con Cristina Comencini ad esempio, però poi un giorno mi telefonò di nuovo Roberto e mi disse: “Guarda, c’è un altro film che è La Piovra dei poveri, però vedrai che sarà un lavoro bellissimo con un regista interessante”. Insomma, a farla breve, questo regista interessante era Marco Tullio Giordana e il film era “I Cento Passi”,  prodotto da questo produttore meraviglioso, uno dei pochi produttori grandi, illuminati, che è Fabrizio Mosca, con un grande Luigi Lo Cascio tirato fuori dal teatro siciliano. Fra me e Marco Tullio nacque subito un’amicizia, un’intesa, in poche parole un sodalizio. Mi disse persino “Ah, tu farai tutti i miei film”, sai quelle cose che si dicono e che poi lasciano il tempo che trovano perché il cinema è cattivo, il cinema è molto cattivo …

od: Ecco, cos’è il cinema per te?

A.R.T.: Allora, il cinema all’inizio è stato un gioco, una scoperta e tuttora, con la passione questo gioco, questa logica di scoperta esiste ancora; ma tante volte, lo  confesso, mi annoia; e però in questo mestiere tu non ti puoi annoiare perché devi mantenere la passione, la curiosità.

od: Ma ti annoia perché, rispetto a quando hai cominciato, il cinema è cambiato?

A.R.T.: Perché sono entrato abbastanza dentro la macchina e quindi molte volte mi chiamano per fare delle cose che, ti confesso, se avessi la possibilità direi “no” ; però le fai, le fai perché devi campare e poi perché comunque che so, le fiction noiose, in qualche modo sono anch'esse storia, io almeno le prendo da questo punto di vista. Poi a volte proprio su queste cose riesci a tirar fuori cose interessanti. Tra l’altro nel cinema ci sono poche cose che odio, ma due o tre le odio proprio tanto. Una sono le tavolate: perché le tavolate nel cinema le racconti, girando, spostandoti, in qualche modo insomma le racconti, ma in una foto non le racconterai mai, perché tutta una tavolata fa parte di una logica che ha un altro linguaggio, il linguaggio del movimento; e i corridoi… stessa cosa.

od: Cosa fa e cos’è un fotografo di scena e poi, soprattutto, è un  mestiere che tu consiglieresti di fare adesso come adesso ad un giovane che inizia?

A.R.T.: No, non lo consiglierei. Comunque: cos’è il fotografo di scena. Allora, il fotografo di scena è un osservatore, un occhio che in qualche modo dovrebbe raccontare gli istanti importanti del film perché poi servono per la pubblicità: sui giornali, in internet, all’ufficio stampa, eccetera. Anche se il fotografo di scena non nasce per questa cosa: inizialmente il fotografo di scena era considerato una persona importante dentro un film. Perché? Perché i primi fotografi di scena erano quelli che in poche parole facevano quello che adesso è il trailer, cioè facevano il book: quindi in ogni scena importante levavano la macchina da presa, il fotografo si piazzava al posto della macchina da presa, con la stessa inquadratura a volte rifacendo le luci (e infatti poi alcuni fotografi di scena passano a diventare direttori della fotografia) per fare questi libri che servivano poi per vendere il film, cosa che adesso è impensabile; e in tutto questo anche la foto di scena sta cominciando ad avere sempre meno appeal per un motivo semplicissimo: i giornali non hanno più una grande richiesta di cinema. In poche parole tutto si sta spostando su internet e però lì cambia tutta la solfa; ma in verità anche la fotografia sta cambiando totalmente linguaggio.

od: Quale futuro vedi tu per la fotografia?

A.R.T.: Per la fotografia  - ma non per la fotografia di scena -  dico che non morirà: è una forma di espressione. È un’espressione creativa ed è anche una documentazione (benché su questo fatto della documentazione io ci creda poco).

od: In che senso ci credi poco?

A.R.T.: Ci credo poco perché ultimamente credo pochissimo in quello che è l’ultimo fotogiornalismo: penso che ormai raccontare le storie, gli avvenimenti reali, con la fotografia, sia sempre meno importante; ti faccio un paragone con quello che può essere stato… che ne so… LIFE. Ecco, LIFE ha fatto chiudere la guerra nel Vietnam; adesso tu accendi la televisione, o ancor più internet, e tutto quello che accade lo hai in diretta.

od: Secondo te, il video ha preso il sopravvento sulla documentazione fotografica?

A.R.T.: Diciamo che è cambiato proprio il media con cui si comunica l’immagine.

od: Mi hai appena detto che secondo te la fotografia non morirà mai, ma il fotogiornalismo?

A.R.T.: Guarda, c’è Christian Caujolle che ha detto bene quale sarà il futuro del fotogiornalismo. (“Il fotogiornalismo, la fotografia documentaria, non sono morti. Devono però trovare un modo contemporaneo di esprimersi: dall’elaborazione del progetto alle loro forme estetiche, fino al loro modo di diffusione: tutte queste scelte sono collegate”. Da “L’avvenire del fotogiornalismo per Christian Caujolle”- L’Oeil de la photographie- settembre 2015. NdR).

Per me il fotogiornalismo non ha più bisogno di esistere ora come ora, la fotografia invece sì. Perché c’è stato un momento in cui il fotogiornalismo (fino a otto, dieci anni fa) ancora aveva il suo peso all’interno dell’informazione, però stava già un po’ nascendo questa deriva dello sguardo del fotografo, questa deriva dello sguardo che dà vita ad un fotogiornalismo astratto. Ad esempio, se tu guardi i lavori di Paolo Pellegrin vedi delle immagini molto autoriali: sono delle foto bellissime, Paolo è un fotografo che stimo molto, però guarda i lavori di Paolo e vedi che sono sempre più, non dico astrazione del reale,  però… però  c’è molto più la possibilità di far diventare un accadimento qualcosa di molto  ma molto soggettivo rispetto a quello che una volta invece era il fotogiornalismo che si basava sull’oggettività.

od: Tu insegni fotogiornalismo, ma allora che senso ha al giorno d’oggi insegnare fotogiornalismo?

A.R.T.: Ma io difatti non insegno fotogiornalismo; io faccio dei corsi più che altro sulla trasformazione del linguaggio. Tengo corsi che sono sull’interpretazione del reale, cioè io parto da un concetto: una fotografia non è mai realtà, non deve, è inutile che sia realtà; però ciò non toglie che devi saperla interpretare questa realtà; quindi, quello che vede l’occhio non potrà mai essere registrato da un mezzo fotografico (ma anche perché l’occhio poi sceglie, questo va detto). La fotografia non è mai in primis una realtà, ma una fotografia è sempre una grande bugia, perché sei tu che decidi cosa mettere e cosa togliere, e tra parentesi, quasi per una logica michelangiolesca, la cosa più interessante è quello che tu levi, quello che lasci immaginare… bisogna lasciare quindi il dubbio, la curiosità, non far capire del tutto. In poche parole la fotografia sta andando qui, verso questa strada, perché la notizia ormai viaggia su altri canali.

od: L’etica del fotogiornalismo: come ci si dovrebbe muovere secondo te? Voglio dire: il fotogiornalismo ormai è sempre più sostituito da altri media e allora quale dev’essere il modo di fornire una notizia (come ad esempio quella della decapitazione del direttore di un museo da parte di terroristi), attraverso una fotografia?

A.R.T.: Una foto come quella poteva avere senso sessant’anni fa, ora non serve, ci sono altri modi per fornire quella notizia; bisogna mantenere sempre una certa grazia, una certa eleganza, non urlare… ecco questa è una cosa che in un certo tipo di fotogiornalismo che ancora esiste non va bene; penso ad esempio ad un certo World Press Photo dove c’è l’urlo. Ecco non va bene; il far vedere qualcosa di eclatante è inutile.

L’urlo dell’orrore non colpisce più tra l’altro, è questo il discorso e comunque anche il World Press Photo sta uscendo da questa durezza del famme vedè er morto, anche perché non serve più, lo guardi più per pruderie che per essere informato e il primo prudeur rischia di essere proprio il fotografo, che a quel punto non è più un testimone ma è uno che si vanta di essere lì e riprendere qualcosa per darla in pasto al pubblico.

Ci sono però anche delle foto di fotogiornalismo che hanno della pietà dentro e allora sì, funzionano. C’è una vecchia foto di un World Press Photo di un fotografo francese che si chiama George Merillon: è un funerale dove non si vede il morto e ci sono queste donne che sono al funerale… ecco, lì viene fotografato il dolore senza che venga urlato.

od: Tu hai fatto quello che secondo me è uno dei più bei ritratti di Italo Calvino, mi riferisco a quello dove lui si affaccia alla finestra; ad un certo punto, in un’intervista, dicesti che quando lo avevi visto affacciarsi così, per te c’è stato un flash e lì hai visto il Marcovaldo. A me viene in mente che tu spesso hai giustamente detto che un fotografo deve avere anche un buon substrato culturale: quali sono le cose che un fotografo deve assolutamente conoscere?

A.R.T.: Allora, innanzitutto deve conoscere la fotografia: la storia della fotografia, i grandi fotografi; deve vedere le fotografie che hanno fatto la storia della fotografia. Poi deve conoscere la pittura; c’è un quadro di Rembrandt che io faccio sempre vedere ed è un quadro che io adoro: La lezione di anatomia del dottor Tulp, dove si vede il professore che tiene questa lezione di anatomia, ma la cosa bella sono gli allievi che hanno questi occhi che hanno la forza di vedere, di capire, in una parola sono mossi dalla curiosità.

Indispensabile è comunque, lo ripeto, conoscere e studiare i grandi fotografi perché in fotografia non si copia mai, al limite si può fare del manierismo, però in qualche modo c’è sempre un maestro a cui tu ti ispiri. Poi deve conoscere l’arte in generale (la pittura soprattutto), il grande cinema, la letteratura, la poesia. Quello che voglio dire è che qualunque forma creativa ha la possibilità in qualche modo di essere riportata in un linguaggio visivo, poi sta però tutto nella tua capacità di utilizzare il mezzo e di utilizzare il linguaggio per ricercare quell’emozione e quell’emozione a volte non è reale. E ritorniamo al discorso reale – irreale: la fotografia non è mai realtà, è un’emozione, è l’istante di un’emozione.

od: A volte quella luce nel parco però non la trovi.

A.R.T.: E beh, Antonioni, stai parlando di un Maestro.

od: L’ho detto apposta. Ora la domanda però è: quanto conta la tecnica per la riuscita di una foto?

A.R.T.: Guarda, io umilmente parto da un concetto: la tecnica è una trappola micidiale; ma usando un mezzo tecnico per combatterla, questa trappola la devi conoscere. Con una macchina fotografica devi conoscere la tecnica esattamente come conosci la tecnica di guidare un’automobile: tu quando guidi lo fai automaticamente, l’importante è guardare davanti a te e come affrontare la strada, ed è esattamente come n fotografia. Se rimani nel range della tecnica assoluta è difficilissimo che tu riesca a meravigliare; la tecnica va continuamente sfidata, messa in discussione, bisogna lavorare sui range estremi, a volte anche scavalcarli. Provare, sperimentare, il bello della fotografia è anche questo: che puoi sperimentare, fare, poi guardi e se funziona, funziona, se no riprovi; però, nel momento che funziona ecco, ti sei fatto la tua tecnica. E questo comporta riuscire a trovare il tuo linguaggio e a diventare in qualche modo autore.

od: Il mondo in bianco e nero è più bello?

A.R.T.: A me piace di più. A me il colore piace, forse mi piacerebbe anche lavorare a colori e certe volte me lo impongo; poi me lo vieto, chissà perché. Ad ogni modo il mio archivio è in bianco e nero e quindi ormai qualunque cosa faccio voglio continuare ad accumulare quell’archivio.

od: Quando tu scatti una foto la vedi già in bianco e nero prima di scattare?

A.R.T.: Sì, vedo la luce. Ecco, un’altra cosa importante: un fotografo deve imparare a capire la luce, proprio perché la macchina fotografica non vede come l’occhio umano; con la macchina fotografica entri in un altro universo, entri in un altro modo di poter vedere e quindi di gestire la luce.

od: Sei contrario a Photoshop?

A.R.T.: Ma assolutamente no. Ma perché non usarlo? È tecnologia che va avanti. Se Eugene Smith avesse conosciuto Photoshop sarebbe stato uno dei suoi più grandi fautori; ma poi se tu guardi tutta una serie di fotografie, di Salgado, di Koudelka e guardi gli interventi che sono stati fatti sul negativo (+1, +2, -1, qui mascherare,  ecc), quello non è Photoshop?

od: Ci sono dei puristi che dicono che quella è un’arte, l’arte dello stampare, della camera oscura…

A.R.T.: Ma per carità! È inutile negare Photoshop, è inutile fare il romantico; qual è il segreto? Cercare di usarlo in modo intelligente. Ti confesso che io sono stato un discreto stampatore e ci sono dei negativi su cui ho passato veramente del tempo; poi una volta portai uno di questi negativi da quello che ora è il mio stampatore: in tempi brevissimi riuscì ad arrivare esattamente dove io volevo arrivare. Allora perché lo devi negare? Photoshop è una camera oscura meravigliosa, basta, come tutte le cose, saperla usare in modo intelligente.

od: Se non avessi fatto il fotografo cosa avresti voluto fare?

A.R.T.: Il musicista; mia madre era pianista, quindi sicuramente il musicista. Oppure il cuoco, cucinare mi piace da morire.

Data di pubblicazione: ottobre 2015
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