Camera con vista

La bimba sul treno locale

Walter Meregalli

Sei. Le classi dei treni indiani sono sei, ma come sempre accade in India, neppure questo numero è certo, dal momento che alcuni treni offrono più varianti che Goldberg per i pezzi di Bach.

©Walter Meregalli 2019 Bimba sul treno locale osservatoriodigitale n.o 103Sei. Le classi dei treni indiani sono sei, ma come sempre accade in India, neppure questo numero è certo, dal momento che alcuni treni offrono più varianti che Goldberg per i pezzi di Bach. Non in tutte le classi è concesso viaggiare, alcune infatti sono riservate alle merci, ma anche questa è soltanto una sorta di indicazione e non impedisce di trovarci passeggeri allungati su sacchi di juta o su pacchi di cartone tenuti insieme dallo spago o su gabbie con dentro polli vivi. I treni in India sono un mondo nel mondo. 

Lascio Gaya diretto a Patna, in una personalissima Divina Commedia fotografica, per la quale ho scelto di scendere negli inferi dei treni indiani, dalla prima classe all’ultima, qualunque sia il suo numero.

Per ventuno rupie, poco più di venticinque centesimi di euro, ho acquistato un biglietto di sola andata sul locale Gaya-Patna, novantadue chilometri che ufficialmente dovrei riuscire a percorrere in tre ore e mezzo.

Quando però ho chiesto conferma all’impiegato della biglietteria della stazione, questo è scoppiato a ridere.

«Solo grazie a un miracolo, signore!» - ha pensato bene di aggiungere mentre contava le rupie di resto.

I treni indiani sono il mio inferno e il mio Virgilio è un ragazzetto sui vent’anni. Una camicia azzurra fresca di bucato e stirata da poco che cozza con un paio di pantaloni marroni che implorano acqua e detersivo. Non ho ben capito come si chiami, mastica paan senza fermarsi un solo istante e cogliere anche solo una parola di quello che dice in quell’inglese che s’è tagliato su misura è una cosa impossibile.

Il mio albergo gli ha affidato il compito di accompagnarmi in stazione, aiutarmi a fare il biglietto e trovarmi un posto a sedere sul treno e lui esegue il compito con zelo tutto indiano. Stranamente taciturno, mi chiede soltanto perché abbia scelto di viaggiare su un treno locale.

«Non bene per stranieri.»

Sarebbe piuttosto complicato spiegargli che sto portando avanti un progetto fotografico.

«Perché no!?» - rispondo e, giusto il tempo di far sparire la le cinquanta rupie di mancia nella tasca dei pantaloni luridi, che il mio Virgilio sparisce anche lui, lasciandomi al mio destino fatto di panche di legno e finestrini senza vetro e una certa apprensione.

©Walter Meregalli 2019 - Treno locale 1 - osservatoriodigitale n.o 103

Mi guardo attorno. Due file di panche di legno, divise da un corridoio, dal soffitto pendono una dozzina di ingombranti ventilatori di metallo smaltato, le cui spire dei motori hanno accumulato stagioni di polvere.

Si parte tra una ventina di minuti e la carrozza è ancora pressoché deserta. Tiro un sospiro di sollievo. Piazzo lo zaino sulla rastrelliera sopra i finestrini, mi siedo e tengo tra le gambe, appoggiato al pavimento, quello con l’attrezzatura fotografica. Tutto sommato non mi pare nemmeno una situazione così estrema. D’accordo, i sedili non saranno comodi, ma mi convinco che questa volta ho esagerato con le preoccupazioni. Certo, questa è la sesta classe - forse - ma non sarà poi così tanto peggio della terza, nella quale ho già viaggiato altre volte.

Via via, cominciano a salire anche altri passeggeri. C’è chi si siede, chi sistema i bagagli, chi cambia di posto, chi ha soltanto accompagnato un amico o un parente, chi si attacca al cellulare e chi invece si nasconde dietro un quotidiano, chi dà inizio ad uno scorrere di conversazioni casuali. Niente di così diverso dal un qualsiasi vagone di un qualsiasi treno pendolari italiano.

Tiro fuori la macchina fotografica e faccio qualche scatto. Controllo le reazioni della gente. Sembrano divertiti. Qualcuno mi sorride, qualcuno è curioso e si allunga per cogliere il visore sul dorso della mia macchina. Dondolano la testa e si godono lo stravagante straniero, il videshee che ha deciso di prendere il treno locale delle dieci e trenta per Patna.

Dieci e trentacinque. Con soli cinque minuti di ritardo lascio Gaya Junction. Giusto il tempo di congratularmene e siamo di nuovo fermi. Guardo fuori dal finestrino. Nessuna stazione. Chiedo al mio vicino di posto se per caso siamo già a Chakand. Lui sorride, mostrandomi un una fila di denti marci. Dondola la testa e sorride.

«Ci vuole ancora un bel po’ per Chakand.» - interviene un altro.

«Ma, non è possibile, Chakand è la prima fermata!» - obietto io.

Sorridono entrambi. Mi stanno compatendo e con loro anche gli altri che mi siedono attorno.

È l’inizio di una delirante commedia che via via si tinge di drammatico surrealismo. 

©Walter Meregalli 2019 - Treno locale 2 - osservatoriodigitale n.o 103Il treno avanza a strappi, brevi singhiozzi di strada ferrata. È un continuo fermarsi, che ci sia una stazione o no. Così per tutte le cinque ore che ci sono volute per portarmi da Gaya a Patna. Ad ogni fermata il treno ingloba gente. Viaggio all’interno di un mostro di ferro arrugginito che si nutre di pendolari. Salgono a ondate e non esitano a spintonarsi per spingersi più all’interno possibile, per guadagnarsi un posto a sedere. Dopo appena tre fermate, di posti a sedere non ce ne sono più e il corridoio è terra di conquista.

Ogni volta che il convoglio si ferma, oltre ai viaggiatori, salgono venditori di ogni sorta. Anche loro lottano per avanzare nei corridoi. Sgomitano, si sbracciano, urlano. Tè, noccioline, samosa, pakora, giornali, mele, banane, mango, fumetti, accendini, caramelle, acqua.  Vendono di tutto. Portano il loro negozio ambulante all’interno di ceste e secchi di plastica, se li caricano con fatica sulla testa, se li trascinano a stento. Attraversano il treno da cima a fondo, in un viaggio che sa di epico e che è molto fisico. Si fanno largo con decisione, senza mai interrompere la loro litania. Chay, chay, chay, garam chay, ripete il ragazzo che vende tè. Kele, kele, kele, achchhe kele, quello delle banane. Pani, tandi pani, iced tandi pani, quello dell’acqua, in un misto di inglese e hindi. Il flusso è ininterrotto, così come quegli striduli richiami commerciali, che ripetono come mantra svuotati.
Scatto qualche foto a questi venditori da corridoio e non mi accorgo che nel frattempo il vagone si è trasformato in una scatoletta di sardine. Sette, otto persone si stipano su panche pensate e posate per accomodarne quattro. Dalle porte aperte penzolano passeggeri. Funamboli per abitudine, aggrappati al convoglio che si trascina stanco verso la prossima fermata.

Mi ritrovo a lottare per una manciata di centimetri di comodità con un bengalese. È madido di sudore e puzza. Sento, con disgusto, la manica della sua camicia appiccicarsi al mio braccio. Ma non esiste via di scampo, ho la parete alla mia sinistra. Il bengalese si sta addormentando e il suo corpo incombe fastidioso. Lo allontano con una spallata risoluta e torno a far finta di niente. Non apre gli occhi, non dice nulla, il bengalese si limita a ciondolare per qualche istante, ma è costretto dal passeggero alla sua destra. Si sporge in avanti e gli rubano immediatamente lo spazio alle sue spalle. Quando si riprende e riapre gli occhi è troppo tardi e ora viaggia spinto in avanti sul bordo del sedile. È scomodo, ma si guarda bene dal mollare.

Comincio a pensare che viaggiare a queste latitudini sia una questione che ha a che fare con la sopravvivenza.

Ora c’è gente letteralmente ovunque. C’è grande confusione e scoppia una lite. Una donna blocca l’uscita ad un tizio più largo che alto. I due si spintonano. La donna inveisce. Il ciccione impreca. La gente s’infiamma. Il treno sta per ripartire e al ciccione non resta che guadagnarsi la via d’uscita a spallate. Spinge e impreca. Spinge, spinge. Si libera della donna, che finisce schiacciata contro lo sterno di un passeggero alle sue spalle.
Il fischio del capotreno, la sirena. Il treno riparte. Il ciccione si sente evidentemente in trappola e prima che la donna riesca a tornare sui suoi passi le assesta un’ultima spinta e a testa bassa punta la porta, travolgendo chi cerca di salire. È fuori. La gente lo insulta, lui restituisce loro un’occhiata carica di rabbia. È madido, stremato. Si asciuga il sudore dalla fronte con un fazzoletto e dal marciapiede guarda il convoglio riprendere la marcia. Mi convinco, è una questione di sopravvivenza.

Non c’è un solo centimetro di agio. Sulle panche, tra le panche, nel corridoio. La gente è ovunque. Chi si appoggia alla parete, chi si aggrappa ai sostegni, chi penzola dalle porte aperte. Quelli in piedi ondeggiano stretti nella morsa dei corpi. Quelli seduti cercano di non concedere troppo al vicino e nulla quelli in piedi. I ventilatori che pendono dal soffitto falciano inutilmente l’aria, che si è fatta satura di odori. Cibo, sudore, dopobarba scadenti, ma col passare ipnotico dei chilometri finisco con l’abituarmi anche a questo.

Ci stiamo fermando di nuovo. Mi volto e in prossimità del vano che anticipa l’uscita la vedo. Un vestitino arancione. È in braccio al padre che mi dà le spalle e si adopera per guadagnare la porta.

La bambina sul treno locale. Inquadro. Compongo. Scatto. Cartier-Bresson diceva che un buono scatto allinea mente, occhi e cuore. Quando riguardo questa fotografia, mi permetto di aggiungere anche culo. Già perché se per caso sono riuscito ad allineare, mente occhi e cuore - come un po’ spocchiosamente credo - di sicuro la fortuna ha giocato la sue carte, facendo in modo che l’uomo sulla destra guardasse in macchina.

Ci vuole anche fortuna, sì, è vero, ma bisogna essere lì e pronti, altrimenti si può vantare tutto il culo del mondo, ma quello scatto è perso.

Poi Patna si avvicina e sento montare la tensione generale. Meglio mettere via la macchina fotografica.

È rissa vera quando il treno rallenta ed entra in stazione. Chi spinge per uscire, chi per recuperare i propri bagagli, chi per raggiungere la moglie, chi il marito o i figli. Quando finalmente il treno si ferma è pure peggio. Ora premono anche da fuori. Vogliono salire. Il miraggio di un posto a sedere.

Il bengalese mi aiuta a raggiungere il corridoio, ma sono incastrato. Non riesco a muovermi in nessuna direzione. Lo zaino in spalla è un freno a mano tirato. La gente mi immobilizza e la borsa delle macchine fotografiche, che tengo al contrario, ben stretta al petto, non mi fa girare. Mi sento spacciato.

Tutto attorno a me è una lotta, violenta, fatta di spinte, di ginocchiate, di spallate. Non vado né avanti né indietro. Sono in balìa delle spinte degli altri. Chi spinge per scendere, chi per salire. Ogni posto che si libera scatena la bagarre. Tutti urlano. Quelli in piedi, quelli seduti. Tutti.

Sono attimi di pura follia. Prendo colpi ovunque. Le urla salgono, le spinte si fanno decise. Un vecchio s’assottiglia tra il corridoio e il sedile. Sento che è il mio momento per avanzare, quando lo zaino s’incastra in qualche cosa. Dannazione! Poi una mano da dietro mi libera e mi aiuta a non cadere. Mi giro. Un sikh gigantesco. Sorride da dietro la barba nera e oliata e mi consiglia di fare attenzione. Non faccio neppure in tempo a chiedergli a cosa che prende a spingere. Un toro con un turbante turchese. Ci sposta tutti verso l’uscita. Sono preoccupato per la mia Nikon. Tutti spingono tutti.

«Attento…»

Il sikh carica di nuovo, ma non basta ancora. Nuovi corpi sono saliti e si sono piazzati tra me e la porta. Sento l’ansia salire. Tutti berciano, tutti spingono. L’ansia si trasforma in furia. Spingo, spingo, spingo e strattono, con tutta la forza che ho. Spingo e scalcio. Sono fuori! Scendo urlando. Sono fuori. Fuori!

Forse davvero viaggiare a certe latitudini è una questione di sopravvivenza, ma quando riguardo la foto de La bimba sul treno locale, mi ripeto che tutto ha il suo prezzo e mi tornano in mente le parole di Tiziano Terzani a proposito della fotografia:

“Per un vero fotografo, una storia non è un indirizzo a cui recarsi con delle macchine sofisticate e i filtri giusti (…) Fotografare vuol dire cercare nelle cose che uno ha capito con la testa (…) Bisogna capire cosa c’è dietro i fatti per poterli rappresentare (…)”

©Walter Meregalli 2019 - Treno locale 3 - osservatoriodigitale n.o 103

Riguardo la mia bimba e mi dico che vale ogni spinta che ho dato e ricevuto per scendere, che mi ripaga del legno delle panche che mi ha segnato la schiena per tutto il viaggio e anche del bengalese sudato e fin troppo addosso. La mia bimba, almeno per me, vale molto di più di ogni costrizione patita in quelle cinque ore surreali nel girone più profondo degli inferi dei treni indiani.

Data di pubblicazione: marzo-aprile 2020
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