Camera con vista

La dimensione sociale della fotografia di viaggio

Walter Meregalli

In un periodo storico dove si è sempre più portati a confondere il sociale con il social, sottovalutando il peso semantico di quella “e” mancante, e riducendo le due parole a due sinonimi, interscambiabili secondo il bisogno, vorrei provare a fare un’operazione contro corrente, recuperare la vocale latitante e approfondire l’aspetto sociale che può assumere la fotografia e tralasciando, ma non poi del tutto, per una volta ciò che ha a che fare con i social.

©Walter Meregalli 2019 - OD99

In un periodo storico dove si è sempre più portati a confondere il sociale con il social, sottovalutando il peso semantico di quella “e” mancante, e riducendo le due parole a due sinonimi, interscambiabili secondo il bisogno, vorrei provare a fare un’operazione contro corrente, recuperare la vocale latitante e approfondire l’aspetto sociale che può assumere la fotografia e tralasciando, ma non poi del tutto, per una volta ciò che ha a che fare con i social.

Ma cos’è la fotografia?
Ecco una di quelle domande alla quale ognuno di noi può rispondere in modo diverso, senza temere di sbagliare.
Ognuno di noi ha la sua personalissima idea di cosa rappresenti la fotografia e di cosa ci spinga a fotografare.

Chi ci vede un mezzo per esprimere la propria creatività, chi invece un valido strumento per preservare la memoria, chi ancora un modo per condividere esperienze.
Qualunque sia la nostra opinione in merito, è un’opinione valida e rispettabile. Qualunque sia la molla che ci fa lasciare la comodità del divano, che ci fa abbandonare a metà il nuovo episodio della nostra serie preferita o dell’anticipo di campionato, e ci fa uscire a fotografare, è degna di considerazione.

Qualcuno, sbagliando, è portato a pensare che la fotografia sia una registrazione della realtà. Senza saperlo, chi sposa questa tesi, commette un errore piuttosto grave.

La fotografia non registra affatto la realtà, piuttosto ne crea una decisamente verosimile, ma che è comunque frutto di un processo creativo da parte del fotografo.

Non mi riferisco soltanto alla possibilità successiva di intervenire su quanto scattato con la post-produzione. Pensiamo anche soltanto alla scelta che siamo chiamati a fare quando decidiamo l’inquadratura, con la quale fissiamo arbitrariamente i confini di una nuova realtà, che della scena che abbiamo di fronte prende soltanto in prestito gli elementi.

Dal momento dunque che ogni scatto è frutto di un processo creativo esplicito ed arbitrario, teoricamente, ogni scatto, risponde a un intento.
Dove esiste un intento, potenzialmente, esiste una storia.

Dalla dimensione personale a quella pubblica
Il primo passo da compiere è rendersi consapevoli dell’aspetto narrativo che è proprio della fotografia, comprenderne limiti e potenzialità e fare pratica per migliorare la capacità di raccontare storie attraverso una fotografia o una serie di fotografie.
Il secondo passo, invece, è quello di abbandonare la dimensione squisitamente personale della fotografia ed abbracciarne la dimensione pubblica, nella quale siamo chiamati a confrontarci con un pubblico, che dobbiamo riuscire ad interessare e ad emozionare.
Il passaggio comporta un radicale mutamento nell’approccio alla fotografia.

L’esistenza di un pubblico complica le cose. Innanzitutto saremo chiamati ad usare un linguaggio creativo comprensibile e, dettaglio non di poco conto, consegneremo i nostri scatti ad un giudizio, che a volte potrebbe anche non essere benevolo.

La gente adora le storie.

Non importa l’estrazione sociale, non conta l’educazione o l’orientamento religioso, la gente adora le storie, qualunque siano la lora natura, qualsiasi sia lo strumento impiegato, che siano stampate o cantate o dipinte o impresse nell’elettronica di un sensore.

Raccontiamo loro una storia e ci ascolteranno, e vi assicuro che ci ascolteranno anche se la nostra storia parla di transustanziazione o si avventura nella fisica quantistica. Raccontiamo loro una storia che li sappia emozionare e saranno anche disposti a seguirci oltre, saranno disposti ad agire. Questa è la chiave di volta: attraverso i nostri scatti, le nostre storie appunto, possiamo indurre la gente ad agire. 


Raccontiamo loro una storia. Interessiamoli. Emozioniamoli. Spingiamoli ad agire.

Questi quattro momenti costituiscono le basi per coltivare la dimensione sociale della fotografia, attraverso la quale possiamo individuare una buona causa, raccontarla e a fare in modo che la gente compia un’azione, come ad esempio donare del denaro.

Interessare la gente ed emozionarla con i nostri scatti può celare una certa difficoltà, che è invece del tutto inesistente nella dimensione personale della fotografia.
La difficoltà poi cresce esponenzialmente quando, per finalizzare l’aspetto sociale, emozionare il nostro pubblico non è la meta del nostro percorso, ma una tappa significativa per spingere la gente ad agire secondo quello che ci aspettiamo faccia.

Vi confesso che la cosa è piuttosto ardua, ma non impossibile, e provarci, già di per sé, regala molte gratificazioni personali.

ritratto di uomo ©walter_meregalli_2019 - od99

La grande occasione del viaggio.
Il viaggio è un’occasione ghiotta poiché rappresenta una dimensione in qualche modo sospesa dal quotidiano.
Evocare il viaggio significa evocare l’evasione, la negazione della routine. Per qualcuno viaggio significa sogno, desiderio; per qualcun altro memoria, ricordi.

In viaggio, le probabilità di confezionare storie che sappiano emozionare sono maggiori, anche per story teller alle prime armi, perché la nostra attenzione è libera dalla sordina dell’abitudine e ci mostriamo più curiosi di quanto non facciamo a casa.
Tutto ci appare più interessante, evocativo. Ci convinciamo che le storie siano davvero ovunque e aspettino soltanto che noi le si racconti.

Non è così. Anzi questa è la trappola più insidiosa che il viaggio tende agli story teller meno esperti.
Una fotografia priva di storia rimane tale, sia che l’abbiamo scattata a Varanasi sia che l’abbiamo scattata sul marciapiede sotto casa.

Sta a noi scovare le storie che meritano di essere raccontate, affinare tecnica e linguaggio per raccontarle nel modo giusto, affinché le si possa usare per spingere gli altri ad agire.

Ogni viaggio è una grande occasione per raccontare storie.
La leva per innescare l’interesse del pubblico non è puramente geografica, ma squisitamente personale. Dipenderà molto da noi, da che storie sapremo confezionare, da come le racconteremo e quali emozioni sapremo trasmettere - chi pensa che basti andare a Kathmandu per tornare con delle buone storie è maledettamente in errore.

Come aiutare con un click.
Non dimentichiamo che il nostro scopo principe ora è quello di sensibilizzare il pubblico nei attraverso i nostri scatti e per metterlo in pratica possiamo agire in due modi:

  • diretto
  • indiretto

Vediamo come, attraverso un esempio.

Tra il Ladakh e l’Himachal Pradesh, nella regione settentrionale dell’India, a partire dalla seconda metà degli Anni Cinquanta, il governo indiano costruì una decina di campi d’accoglienza il cui scopo era quello di dare ricovero ai numerosi profughi tibetani che si riversavano nel Paese, oltrepassando il confine cinese.

Pensati originariamente per gestire l’emergenza del momento, col tempo, quei luoghi si sono trasformati in veri e propri insediamenti fissi, senza che però né le strutture, né le infrastrutture riuscissero a stare al passo col cambiamento.
Qualche campo si è trasformato con una discreta efficienza ed è in grado di offrire una vita tutto sommato dignitosa ai suoi ospiti, ma per molti, un’autoclave per l’acqua o un impianto fotovoltaico rappresentano ancora un lusso, se non una chimera.

Agendo in modo diretto, ci rechiamo sul posto con l’intento di realizzare un reportage in grado di documentare le condizioni dei campi profughi e, una volta tornati in Italia, ci impegniamo per dare visibilità al progetto, magari organizzando una mostra, durante la quale raccogliamo i fondi da destinare all’acquisto dell’autoclave.

Agendo invece in modo indiretto, potremmo selezionare del materiale che abbiamo già scattato in precedenza, magari proveniente anche da viaggi diversi, scegliendo le fotografie con un criterio preciso ed attinente alla causa dei campi profughi tibetani e creando così un corpus di scatti coerente, che potremmo, proprio come prima, presentare in una mostra e legare alla medesima call to action.

Entrambi gli approcci sono validi, anche se personalmente credo che il modo diretto sia più efficace, perché potenzialmente può raccontare storie più emozionanti e che meglio riescono ad innescare l’empatia del pubblico.
Quando budget e tempistiche lo consentono, credo che il modo diretto sia sempre da preferire. In caso contrario, qualora scegliessimo il modo indiretto, il successo del progetto è legato a doppio capo all’accuratezza della scelta degli scatti in mostra, che devono assolutamente avere un denominatore comune, il più possibile chiaro e coerente con la causa sociale che abbiamo scelto di sostenere.

Mostre, libri, proiezioni e, perché no, anche social
La scelta di soluzioni per finalizzare la dimensione sociale della nostra fotografia è quanto mai ampia e molto spesso il criterio finale sta tutto nei costi.

Facciamo i nostri conti, ma ricordiamoci che i JPEG che restano pigiati sulle card, nel fondo di un cassetto, senza mai incontrare gli occhi di un pubblico NON aiutano proprio nessuno

Come possiamo finalizzare un progetto con una dimensione sociale:

  • Mostra personale
  • Mostra collettiva
  • Presentazione con proiezione presso librerie, circoli, associazioni, enti, locali
  • Libro fotografico
  • Stampe singole, cartoline
  • Partecipazione a sagre, feste pubbliche, fiere
  • Pagine Facebook dedicate

Come finanziare il progetto:

  • Direttamente (!)
  • Attraverso sponsorizzazioni private
  • Partecipando a bandi pubblici
  • Iscrivendo il progetto ad una piattaforma di crowdfunding

ritratto di donna ©walter_meregalli_2019 - od99

Occasioni, non espiazioni
Non dobbiamo sentirci obbligati. Non sta scritto da nessuna parte che dobbiamo coltivare la dimensione sociale della fotografia. Se non ci crediamo noi per primi, non ci crederà nessuno dopo di noi.

Se invece pensiamo che l’aspetto sociale potrebbe fare in qualche modo parte del nostro approccio alla fotografia, ricordiamoci che:

  • La nostra macchina fotografica è un potente mezzo per raccontare storie per immagini
  • Le immagini catalizzano l’attenzione come pochi altri strumenti
  • Le immagini comunicano attraverso un linguaggio universale e immediato
  • La gente adora le storie

E ancora, che i nostri scatti possono:

  • Evocare
  • Informare
  • Denunciare
  • Sensibilizzare
  • Addirittura, spingere ad agire

E, per finire, ricordiamoci che facendo semplicemente quello che ci piace fare, potremmo anche fare del bene.

 

Data di pubblicazione: luglio 2019
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