L'Osservatrice Romana

Bises de Nice, Moscou et Tokyo. Fotografie di William Klein

Monica Cillario

Perché vedere le foto di William Klein? Semplicemente perché quelle di Klein non sono solo fotografie, dal momento che lui è uno dei due fotografi che hanno rivoluzionato la storia della fotografia, piaccia o non piaccia.

Come – quasi – ogni estate, vi propongo una mostra da visitare e come – quasi – sempre si tratta di una mostra che potete vedere a Nizza. L’esposizione, al Museo della Fotografia “Charles Negre”, è “Bises de Nice, Moscou et Tokyo”, fotografie di William Klein.

Per chi non lo sapesse, William Klein, con la raccolta fotografica “New-York” è annoverato come uno dei due fotografi che hanno fatto entrare la fotografia di diritto nell’arte contemporanea (l’altro è Robert Frank, con la sua opera “Gli Americani”).

Per la storia della fotografia (e anche dell’arte contemporanea) entrambi hanno creato una sorta di strappo, anzi, diciamo le cose come stanno: Frank e Klein hanno dato vita ad una vera e propria rivoluzione, perché le loro immagini sono state da subito considerate come una rottura nei confronti della scuola accademica che voleva la fotografia come espressione di un’immagine pulita, perfetta, con un geometrico rispetto delle proporzioni, una fotografia alla Cartier-Bresson o al più alla Doisneau, per intenderci.

Per Klein sembra che la fotografia debba in qualche modo stravolgere gli schemi e le sue foto sono infatti a volte mosse, a volte sgranate, con forti contrasti, insomma, per l’appunto fuori dagli schemi del canone classico. Mi domando se queste sue scelte “forti” non siano in qualche modo anche legate alla sua storia di vita. Figlio di immigrati ungheresi negli Stati Uniti, ha fatto studi di sociologia e durante il servizio militare, fra il 1948 e il 1951, conosce l’Europa: nel 1947 visita per la prima volta Parigi e si innamora di Jeanne Florina, che poi è diventata sua moglie e con la quale ha vissuto e lavorato per oltre cinquant’anni. Finito il servizio militare, si iscrive alla Sorbonne e poi studia pittura nell’atelier di Fernand Léger.

Dal 1951 al 1954 vive e lavora a Milano, dove collabora con degli architetti italiani per delle pitture murali. Il 1954 è un anno importantissimo per lui: incontra Alex Liberman, all’epoca direttore artistico di Vogue America, che gli propone un contratto come fotografo. Così parte alla volta di New York e realizza una sorta di diario fotografico del suo soggiorno nella Grande Mela. Ne trae poi anche un libro, “New York”, che uscirà nel 1956.

Questo suo lavoro è in netto contrasto con tutto quello che, nel campo fotografico, era stato fatto prima di allora. Come tutto ciò che è nuovo, suscita reazioni forti, anche in senso negativo, ma ciò non gli impedisce di vincere il Premio Nadar nel 1957. E il libro diventa subito un’opera da collezione, oggi praticamente introvabile (se non a prezzi esorbitanti).

Klein ha saputo dare alle proprie fotografie, nel corso di tutto il suo percorso creativo, uno sguardo istintivo, immediato e molto, molto personale. C’è a chi piace, anzi, alla maggior parte dei critici, degli addetti ai lavori, dei collezionisti e anche dei comuni mortali, piace moltissimo: il suo successo è stato decretato a gran voce in tutto il mondo.

Proprio perché avevo molto sentito parlare di questo fotografo, che è nato nel 1928 e che ora vive a Parigi, mi sono detta che non potevo perdermi l’occasione di vedere “dal vivo” i suoi lavori esposti a Nizza.

E così sono andata a vedere e... non mi è piaciuto.

Io non esprimo un giudizio da “critica” perché non lo sono e non ho la pretesa di esserlo; e non mi permetto nemmeno di esprimere un’opinione come fotografa, no, non oserei mai; il mio è un giudizio personale, da semplice amante della fotografia.

Non essendo mai stata una grandissima fan della perfezione alla Cartier-Bresson e amando molto, proprio per carattere, tutti i fotografi che hanno avuto l’ardire di infischiarsene del canone accademico, mi aspettavo molto da Klein, soprattutto per ciò che avevo sentito di lui e del suo lavoro. Sinceramente però, mi ha delusa e mi ha delusa anche il modo in cui i suoi lavori sono stati esposti: alcune foto del ciclo giapponese per vederle bisogna chinarsi e questo lo trovo assurdo (e tra l’altro mi ha stupita molto, dal momento che solitamente al Museo della Fotografia qui a Nizza i curatori sono molto attenti).

Non ricordo dove ho letto che Klein ha fatto sua la lezione di Capa, là dove diceva che “se la foto non è buona è perché non eri abbastanza vicino”... Ecco, diciamo allora che però a volte essere troppo vicini è altrettanto deleterio e io sono per la lezione aristotelica: in medio stat virtus, ossia, una sana via di mezzo fra il troppo vicino e il troppo lontano, a volte è la giusta scelta, anche in uno scatto.

Visto che nel 1982 e poi anche nel 2005 il Centro Pompidou di Parigi gli ha consacrato una grande retrospettiva, è indubbio che probabilmente sono io che non riesco a comprenderne il valore, la bravura, l’importanza, insomma, sicuramente la colpa è mia, ma tant’è.

Una foto sola secondo me vale tutta la mostra ed è Bikini, prova ai sali d’argento, scattata a Mosca nel 1959 e riprodotta qui sopra.

Personalmente ho subito pensato che sia una sorta di riassunto dell’esistenza, perché in quell’unico scatto c’è tutto: la strafottenza spensierata e anche un po’ arrogante della gioventù e il distaccato disincanto della vecchiaia, che ha già visto ogni cosa.

Il fatto che la mostra e le foto mi abbiano deluso, non significa che non valga la pena di vedere l’esposizione del lavoro di William Klein e anzi, se passate da queste parti, un salto fatecelo: buona visione e... buone vacanze.

 

Data di pubblicazione: luglio–agosto 2017
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