Camera con vista

Nella luce, a un passo dal cielo: Ladakh

Walter Meregalli

Ladakh, dov'era costui? Camera con vista ci porta questo mese in uno dei luoghi più incantati del pianeta, in una zona remota dell'India dove i panorami sono mozzafiato e il cielo stellato sembra li da toccare: l'amico e viaggiatore Meregalli ce lo racconta a modo suo, quando è in procinto di ritornarci ad agosto con un gruppo di amici: qualuno vuole unirsi?

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“Mi servono occhi più grandi.”
Tesha ha il cranio rasato, ma la cosa non le impedisce di essere bella, di una bellezza androgina, dura e dolce al tempo stesso, proprio come lo spettacolo che la natura mi srotola davanti agli occhi.
“Mi servono occhi più grandi.” –  Tesha me lo ripete una seconda volta, perché le è chiaro che non ho capito – “Sì, per riuscire ad abbracciare questi panorami mi servono occhi più grandi, i miei mi sa che non bastano.”
Tesha ha ragione.

Sono salito fino alla terrazza sullo sperone di roccia di fronte allo Shey Gompa, un tempio buddista di recente costruzione, e da qui contemplo lo spettacolo dell’Himalaya, mentre la mia macchina registra un centinaio di JPEG che andranno a dar vita a un time-lapse.
È qui che mi si avvicina per la prima volta Tesha. Danese, i lineamenti del volto duri, il fisico mascolino e la testa rasata.

“Questa è la mia prima volta in Ladakh.” – mi dice con fare estatico – “Sono arrivata a Trivandrum, nel Kerala, dieci mesi fa e ho risalito tutta l’India in bicicletta… da sola.”
Poi mi indica la testa rasata. “Per questo mi rado a zero, perché è più facile restare puliti. È la mia prima volta in Ladakh e non so ancora cosa sto provando.  Questo posto ha un che di magico, di ostile e di estremamente familiare.”

Non è la mia prima volta in Ladakh, invece, ma non sono mai riuscito a sintetizzare quel luogo ai piedi dell’Himalaya con tanta precisione come la mia nuova amica.

Il sole è quasi sceso alle nostre spalle, la catena dello Zanskar è un orlo di monti  neri ai piedi di una coperta di cielo che si fa sempre più scura. Di fronte a noi la natura ha steso un tappeto infinito e corrugato di cime che il sole basso accende in temporanei falò.
Penso che anche a me servirebbero occhi più grandi.
Fisso ipnotizzato l’unico riferimento costruito dall’uomo che riesce a spiccare nello spettacolo naturale che ho di fronte. È il vecchio palazzo reale di Leh. Sobrio, quasi dimesso, ma dignitoso. Proprio come lo spirito di questa regione. Sì, ho decisamente bisogno di occhi più grandi anch’io.

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Molti insistono a chiamare il Ladakh “Piccolo Tibet”, per la sua impressionante somiglianza con il “regno delle nevi, ma il Ladakh, rispetto al Tibet, di piccolo ha soltanto le dimensioni geografiche, perché le energie che pervadono questa zona nel nord dell’India, incastonata tra Himalaya, Zanskar e Karakorum, la rendono immensa.

L’energia della natura e l’energia della spiritualità. Straripante la prima, più pacata, ma non per questo meno potente, la seconda, mi hanno dato il loro sfacciato benvenuto non appena sbarcato dall’aereo, nel piccolo aeroporto di Leh, accompagnate da un fastidioso cerchio alla testa dovuto all’altitudine, che però, fortunatamente, è molto meno persistente.
Non mi ci è voluto poi molto per comprendere quanto la natura sia impegnativa per la gente di queste parti del mondo, costretta a strappare alla roccia ogni metro quadro coltivabile e alla montagna ogni chilometro di strada carrozzabile. Da ottobre a marzo, la neve taglia il principale asse di comunicazione con il resto dell’India e il Ladakh, che per tutto questo tempo resta parzialmente isolato.

Non mi ci è voluto molto a capire come per fare tutto ciò dovessero riporre un’incontrastata fiducia nel sovrannaturale, nella dimensione spirituale, nella religione.

Natura e spiritualità sono la vera essenza di questo luogo magico chiamato Ladakh. Due facce della stessa medaglia e per entrambe servirebbero davvero occhi più grandi, fisici e mentali. Occhi fisici, come quelli che invoca Tesha, per poter abbracciare il deserto, le montagne, i fiumi, i campi coltivati, i palazzi. Occhi della mente, per vedere oltre ed aprirsi al richiamo di una spiritualità che pervade ogni passo, ogni attimo, ogni giorno, qui in Ladakh.

Il Ladakh non è un luogo semplice in cui vivere, ma la cosa non traspare affatto sul volto degli abitanti di questa regione. Sole, ghiaccio e vento scolpiscono i tratti somatici di uomini e donne, che con l’età prendono la sembianza di statue in movimento. Gli zigomi pronunciati, gli occhi a mandorla, la pelle ambrata. Il Ladakh non è un luogo semplice da abitare, ma appare ovvio che sia un luogo felice, o, quanto meno, pacifico, al contrario del vicino e tribolato Kashmir. Qui in Ladakh la maggioranza buddista vive in armonia con il resto, rappresentato da musulmani sciiti e pochi induisti.

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Il Ladakh è un luogo primordiale, dove gli elementi naturali giocano un ruolo primari.
L’acqua, qui, è un genere preziosissimo, dal quale dipendono agricoltura e insediamenti umani.
Il fiume Indo rappresenta la più grande risorsa idrica della regione e, come una spina dorsale, disegna una piana fertile, a ridosso della quale si è andata formando una delle più antiche civiltà del mondo. Non a caso è uno dei sette fiumi sacri dell’India, con il Gange, Yamuna, Narmada, Saraswati, Godavari e Kavari, e, in questa regione aspra, le sue acque spesso ne decidono le sorti. Guardando l’Indo si ha quasi l’impressione che il fiume conosca la responsabilità della quale si è fatto carico da sempre. Dopo il disgelo è gonfio di neve, poi arriva il monsone, anche se qui, in Ladakh, le piogge non sono così insistenti come nel resto dell’India e le acque impetuose del fiume esondano e rendono la zona meno dura, più fertile e più adatta all’agricoltura. A guardarlo pare evidente che il fiume possa contare su una coscienza tutta sua che gli ricorda quanto conti per questa regione. Lo si coglie dalla sfrontatezza della sua corrente, dalle rapide, dal quel suo incedere verso sud certo, a tagliare in due il Ladakh.
È l’Indo che fa da  riferimento per le mie escursioni esplorative della regione, verso i monasteri di Tiksey, di Hemis, di Spituk e più, verso nord, verso la valle di Nubra e il lago Pangong.

Leh, la capitale, è cambiata molto dalla prima volta che mi ha accolto, anni da. È cambiata in meglio. È spuntata un’area pedonale, sulla quale i venditori ambulanti di frutta, verdura e spezie possono stendere le loro stuoie, senza rischiare di venire travolti dai bus diretti in Kashmir. La gente si attarda volentieri e tutt’attorno sono fioriti negozi vari, librerie, bar e ristoranti tipici, che hanno dato un nuovo volto a Leh, strappandole quell’aria in prestito tipica delle città di passaggio sulle grandi vie di comunicazione.

L’ultimo click della mia macchina fotografica. Gli scatti che andranno a comporre il time lapse di questo stupendo tramonto himalayano sono tutti sulla card. Saluto Tesha, un arrivederci,  perché so che ci incontreremo di nuovo a Leh, senza bisogno di darci un appuntamento, perché è così che capita in Ladakh, dove tutto gira attorno a pochi posti, come Pamposh, un bar diventato famoso per i suoi frullati alla frutta, o i ristoranti della Little Tel Aviv, la zona a ridosso dell’Indo, che ospita una comunità piuttosto nutrita di giovani ebrei intenti a vivere qui i loro anni sabbatici.

Per questa volta mi devo accontentare degli occhi che ho, ma davvero Tesha ha ragione, per apprezzare al meglio lo spettacolo che offre il Ladakh, servirebbero occhi più grandi.

 

Data di pubblicazione: giugno 2019
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