Camera con vista
Marocco mon amour
Walter Meregalli
Dove andiamo questo mese? In Marocco, una destinazione molto gettonata dal punto di vista turistico ma davvero poco sfruttata da quello fotografico. Il nostro amico fotoviaggiatore ce ne parla a suo modo e ci racconta perché vale la pena pensare di andarci.
Questo mese voglio portarvi a fotografare in Marocco.
Ok, non vedo le vostre facce, ma mi sembra davvero di sentire i vostri commenti… “In Marocco? Che noia! Tutto uguale… solo sabbia e rocce, sabbia e rocce!”
Beh, questo è quello che, abbandonandosi ai preconcetti, si è superficialmente portati a credere, se in Marocco non ci si è mai stati. Questo è quello che ho pensato anch’io, prima di metterci piede la prima volta, e, nonostante nutrissi (come sempre) moltissime aspettative sul viaggio che mi attendeva, inspiegabilmente, qualche giorno prima di partire, lasciai che luoghi comuni e pregiudizi prendessero forma e sopravvento.
Per un motivo che mi è ancora poco chiaro, la mia testa aveva preso a macinare pensieri che si facevano sempre più ricorrenti e sempre più fastidiosi e che, di fatto, si schiantavano contro un’equazione che mi pareva oltremodo incontrovertibile ed esplicita: Marocco uguale deserto, che declinavo in due o tre forme, del tipo “…uguale Sahara”, “…uguale caldo asfissiante”, ma soltanto perché continuavo a rimuginarci sopra.
Confesso che lasciai Orio al Serio, destinazione Marrakech, con la mesta sensazione di una sconfitta largamente preannunciata e che per tutte le quattro ore di volo cercai qualche espediente che potesse arginare la delusione che mi aspettava a terra, oltre il Mediterraneo.
“Sarà una noia terribile!”, ricordo di aver sentenziato tra me e me, consegnandomi alla frustrazione.
Credo di essermi sbagliato così clamorosamente poche volte nella vita.
Mi è bastato lasciare Marrakech e prendere la strada che attraversa le montagne del Grande Atlante perché il Marocco mi facesse capire quanto superficiale e banale fosse stata la mia supposizione e quanto invece quella terra offrisse una varietà di panorami inaspettata.
Di lì a pochi giorni sarebbe stata ufficialmente primavera e la campagna appena fuori Marrakech mi ha salutato con campi coltivati, ulivi rigogliosi e colline erbose.
Quando poi la strada che mi avrebbe portato a Ouarzazate ha cominciato ad affrontare le prime salite dell’Alto Atlante, con i primi tornanti i campi e le colline si sono rapidamente trasformati in valli, ora ampie, ora più chiuse, il cui fondo era solcato da torrenti carichi d’acqua. Tutt’attorno, a perdita d’occhio boschi di conifere.
Marrakech non era che a un paio d’ora di strada alle mie spalle e la mia Land Rover attraversava boschi di pini, di abeti, di larici, tanto che mi sorpresi a chiedermi se quello fosse davvero Marocco e non la Valle D’Aosta. Sì, quello era il Marocco.
Marrakech, i suoi souk, la medina, la kasbah e le case nei toni dell’ocra sembravano lontanissime, quasi poco più di un ricordo, eppure Youssef aveva guidato per meno di 150 chilometri.
Il cielo era terso, di un azzurro intenso. Quasi fastidioso da quanto fosse sgombro di nubi.
La strada saliva con piglio deciso, mangiando chilometri alla montagna, mettendo serrati uno dietro l’altro i tornanti.
Tornante dopo tornante, in una gimkana che puntava ad est, anche i pini e gli abeti e i larici erano scomparsi, lasciando spazio a un paesaggio lunare di rocce rosse.
Finalmente il passo, il Col du Tichka, 2260 metri sul livello del mare, a picco su una vallata che si apriva vastissima ai suoi piedi, regalando al mio sguardo promesse e celando abilmente sorprese.
In lontananza, potevo ammirare le cime più alte dell’Atlante innevate. Innevate! Sì, non credevo ai miei occhi! Quella era neve! E quelle cime non erano neppure così lontane.
Come non riuscii a credere di essermi addirittura dovuto infilare una felpa, perché, al Col du Tichka, la temperatura non era certo africana e la brezza non faceva sconti.
Ma non doveva essere Marocco uguale caldo torrido?
Poi la strada ha preso a scendere e si è fatta meno tortuosa. Abbiamo scollinato e, più la strada si raddrizzava e più le rocce rosse e i picchi scarni lasciavano spazio a prati del colore dello smeraldo.
Se quello spettacolo non mi avesse costretto a rimanere sveglio e a guardar fuori dal finestrino, se mi fossi assopito e svegliato di soprassalto, avrei quasi certamente creduto di aver guidato fino in Irlanda, perché lo scenario che mi si srotolava davanti agli occhi non mi pareva plausibile.
Quel mare d’erba smeraldo non poteva essere Marocco.
E invece sì. Anche quello era Marocco. Soprattutto quello era Marocco!
Giusto il tempo di dar conto alla sorpresa e di abituarsi a quei prati irlandesi, che il Marocco era già pronto a cambiare di nuovo. Con una maestria unica, la natura fece sparire il verde dell’erba, sostituendolo coi bruciati di un immensa piana orlata da montagne lontane, sulle quali il vento, per intere ere, s’era preso il vezzo di giocare a disegnare arabeschi di roccia.
Ebbi la sensazione che fuori non stesse scorrendo il mondo, ma un fondale cinematografico e ormai capii che tutto sarebbe potuto comparire, era solo questione di attendere qualche decina di chilometri.
La piana si spaccò in un canyon e il canyon si ricompose in una nuova piana, più arida. Soltanto l’ocra della terra e l’indaco del cielo.
Il fondale scorreva ed ecco comparire mese e torri di roccia.
La strada ora era un sottile filo nero, dritto, solcava solitario una pianura presa in prestito dalla Luna e puntava sicura al Sahara.
Guardavo fuori dal finestrino e mi domandavo che fine avessero fatto i campi verde smeraldo, i torrenti, le valli, che fine avessero fatto i pini, i boschi.
Quei monumenti solitari di roccia mi accompagnavano verso il deserto e non facevano che sottolineare il mio stupore.
Era soltanto il primo giorno e le sorprese non sembravano avere fine.
Scegliere di partecipare ad un viaggio fotografico in Marocco è un’esperienza incredibilmente piacevole, che lascia ricordi indelebili, proprio perché il Marocco è un paese capace di sorprenderti con la sua varietà di scenari.
Oasi e colline dolci. Montagne impervie che fanno da naturale contro canto a valli smisurate. Poi, aspri canyon e gole fresate dal vento, che sa essere anche gelido.
Un continuo alternarsi.
Valli di rose, valli di datteri, valli di ulivi e di alberi di argan. Gli scenari si sostituiscono più rapidamente di quanto riusciamo ad immaginare. Ci assopiamo qualche decina di minuti, ci lasciamo rapire lo sguardo per qualche mezz’ora, ed ecco che fuori, oltre il finestrino il Marocco già si è mutato.
E poi il deserto, naturalmente.
Parlare del deserto, è quasi banale. Saperlo raccontare davvero è quasi impossibile
Una cosa è certa, sicura: il Sahara è un’emozione de facto.
E tornandoci tutti gli anni da qualche anno ormai, tornandoci con compagni di viaggio diversi ogni volta, ho capito che il Sahara, per ognuno di noi, è qualcosa di diverso e di molto personale.
Per me il Sahara è il cielo trapuntato da milioni di stelle.
È un orlo di dune scure nella notte, mentre nel caldo dei nostri cento grammi, smanettiamo con gli scatti remoti e cerchiamo di tradurre in pixel l’immensità della natura.
Per me, il Sahara è rendersi conto di quanta superbia caratterizzi noi fotografi, che pensiamo di riuscire a rendere il grande disegno in qualcosa che stia dentro un perimetro 24×36.
Per me il Sahara è il profumo della legna che arde nel falò al centro del campo tendato, il beccheggio del dromedario che senza fretta mi porta tra le dune, il sapore del cous cous, che sarà anche uguale a qualsiasi altro cous cous marocchino, ma lì, nel deserto, ha un gusto tutto suo.
Per me il Sahara è quell’arancio, che è solo delle dune.
Per me il Sahara è il secondo movimento del Quintetto in la maggiore K581 di Mozart, il “larghetto”.
Per me il Sahara è qualcosa che, anche se ci provo, ancora non riesco a spiegare a qualcun altro.
Ma il bello è che il Marocco non è soltanto il Sahara.
Il Marocco è anche Essaouira, ad esempio, quanto forse più di lontano al deserto. La sua kasbah fortificata sull’atlantico, i suoi pescatori e il loro pescato, che regala gioia alla gola e all’anima, da consumarsi rigorosamente svaccati all’ombra di una chiglia, nel porto, affumicati dalle griglie, bevendoci sopra acqua minerale e immaginando che sia vino bianco.
Il Marocco è la confusione dei souk di Marrakech.
È il girone dantesco di Jama El Fnaa di sera, dove, per un centinaio di dirham o poco più, si mangia tutti assieme, all’aperto. Italiani accanto a spagnoli, a marocchini, a tedeschi, accanto a americani. Cristiani accanto a ebrei, accanto a musulmani, ad atei. Tutti lì, a spartire pane poco lievitato, harira e cibo da strada.
Il Marocco è il profumo dell’ambra, che sia quella originale o quella contraffatta ad arte per i turisti più creduloni. È l’aroma del tè alla menta, una menta il cui profumo va alla testa. È il profumo delle arance, della mirra e del muschio bianco.
Il Marocco è il rosa delle kasbah, il blu del Majorelles, il bianco della Medersa, l’arcobaleno dei souk.
Il Marocco è altro ancora… molto altro ancora e, se solo cominciassi a parlare dei volti e dei sorrisi che si incontrano in Marocco, degli sguardi… beh
“Ok, ma non hai parlato di fotografia! Hai parlato di tutt’altro, ma non di fotografia!”, già vi sento. Avete ragione.
Vi faccio una domanda, allora.
Ma secondo voi, un Paese come questo, che ho maldestramente riassunto… secondo voi, un Paese così quali occasioni fotografiche uniche potrà mai regalarvi!?
Qualsiasi cosa vi rispondiate, preparatevi a farvi sorprendere.
Data di pubblicazione: maggio 2019
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