Se dovessi fare un elenco dei dieci fotografi che hanno fatto la storia della fotografia del secolo scorso, sicuramente André Kertész non potrebbe mancare all’appello. Nell’opera di questo fotografo ungherese si percepisce il senso della dolcezza della vita, il piacere libero e infantile di esprimere la bellezza del mondo e la preziosità dello sguardo disincantato. Le sue foto evocano la contemplazione dei ricordi anodini che fanno parte dell’esistenza di un po’ tutti quanti noi e che formano una vita intera: personaggi anonimi che s’incontrano all’angolo della strada, coppie che cercano di entrare in un luna-park senza pagare il biglietto; immagini lontane da clamori o drammi, scene quotidiane semplici e lineari, ma mutuate e trasformate da uno sguardo poetico.


Andre Kertesz - Circus, Budapest, 19 maggio 1920In un primo momento Kertész aveva documentato gli orrori della Prima Guerra Mondiale e forse proprio per questo, proprio perché negli orrori lui c’era passato in mezzo (dovette sfuggire, lui, ebreo, alla persecuzione nazista, riparando prima in Francia e poi negli Stati Uniti), la sua opera è come una fiera della vita tranquilla, serena, semplice.

Quando la realtà non gli piace, allora la trasforma, con distorsioni o deformazioni ottiche. Alcuni critici hanno detto che c’era un sorriso al fondo del suo apparecchio fotografico, e probabilmente è vero: era il suo modo di guardare il mondo e di raccontarlo; un modo disincantato e pacato, come il sorriso di chi ha visto l’orrore e ne è scampato.

Ha avuto una vita lunga (era nato a Budapest nel 1894 ed è morto a New York nel 1985), ma non è mai diventato vecchio, fedele al pensiero di Matisse, secondo cui bisogna continuare sempre a guardare il mondo con gli occhi di un bambino. E con lo sguardo di un fanciullo lui ha osservato il mondo lungo tutto l’arco della sua esistenza, regalandoci immagini che sono poesie e dando vita a quella che, proprio grazie al suo lavoro, verrà chiamata “poesia fotografica”.

Non ci restituisce mai le cose e gli esseri che fotografa così come brutalmente appaiono, ma li incorona con la sua tenerezza, con la sua personale poetica interpretazione, esattamente come un poeta trasforma con le proprie parole la  grigia e piatta realtà di tutti i giorni, per poi restituircela arricchita e trasformata grazie ad un afflato lirico.

Se vi state chiedendo perché io metterei Andé Kertész fra i più grandi fotografi del secolo scorso, potrei citarvi Henri Cartier-Bresson, il quale diceva che “tutti noi dobbiamo qualcosa a Kertész”.

Preferisco però rispondervi con le parole dello stesso Kertész; a chi lo intervistava, rispondeva: “Io faccio delle fotografie, tutto qui”, e lo diceva con quell’umiltà che solo i grandi uomini possiedono.

Ecco, io metterei André Kertesz nell’Olimpo dei grandi fotografi proprio per questo: perché faceva delle foto, tutto qui.

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