Paul Fusco | Osservatorio DigitaleAlcuni di voi lo conoscono per avere visto le sue fotografie su Cernobyl nella mostra “Cernobyl Legacy” tenutasi a Roma nel 2013: un lavoro emotivamente intenso sul più grave disastro tecnologico del secolo scorso, uno dei più grandi errori umani mai commessi, le cui conseguenze continuano ai nostri giorni e che Fusco ha testimoniato attraverso le sue immagini, potenti e toccanti. Personalmente però sono certa che Paul Fusco passerà alla storia soprattutto per il “Funeral Train”, detto in parole povere sarà ricordato per essere stato il fotografo del funerale di Bob Kennedy. Quello, a mio avviso, è il suo lavoro icona: la testimonianza della fine di un sogno che non era solo americano, ma di tutto l’occidente. Un sogno finito per sempre dopo l’omicidio di Bob Kennedy, quello stesso Bob Kennedy che Fusco, per timidezza e cortesia, non fotografò mentre era in vita e di cui invece raccontò l’ultimo viaggio in modo magistrale.

Look Magazine incaricò Fusco di salire sul treno che avrebbe portato la bara di Bob Kennedy da New York al cimitero di Arlington, dove sarebbe stato sepolto accanto al fratello John. Paul Fusco corse alla Penn Station con tre macchine fotografiche e trenta pellicole a colori e salì sul treno: il viaggio durò più di otto ore e attraversò cinque Stati.
In un’intervista che Mario Calabresi racconta nel suo libro “A occhi aperti” (di cui vi consiglio la lettura perché raccoglie la testimonianza del lavoro di molti grandi fotografi in modo scorrevole e approfondito, accompagnandolo da immagini che hanno fatto la storia della fotografia dell’ultimo quarto del Novecento), Fusco afferma che appena entrato nel vagone che gli era stato assegnato si sentiva pieno d’ansia, ma gli bastò guardare fuori dal finestrino per capire. Infatti fuori c’era la folla e guardandola gli venne l’idea: abbassò il finestrino e cominciò a scattare e continuò a farlo per tutta la durata del viaggio. Nell’intervista di Calabresi racconta testualmente: “Rimasi nella stessa posizione per otto ore a fotografare la gente accanto ai binari. Quella era la Storia”.

È vero, quella gente era la storia di un Paese e di un sogno che si era infranto e quella storia si rifletteva nelle immagini della gente che, in silenzio, sostava lungo i binari per dare l’ultimo saluto a Bob Kennedy e per archiviare per sempre la speranza di un futuro migliore.

Le immagini non sono tutte perfette, anzi, soprattutto quelle scattate verso sera appaiono alquanto sgranate, ma non ha alcuna importanza perché tutte, ma proprio tutte, raggiungono lo scopo: quello di trasmettere un forte impatto emotivo a chi le guarda.

Ironia del destino, Look Magazine non pubblicò mai quelle foto perché il concorrente Life uscì prima con le fotografie della morte e dei funerali.

Paul Fusco | Osservatorio Digitale

Ovviamente Fusco non si era mai rassegnato al fatto che il suo lavoro non fosse stato fatto conoscere al mondo, perché lui credeva molto in quelle immagini e aveva ragione. Nel corso degli anni diventò un fotografo per Magnum e continuò a produrre altri ottimi reportage ma sempre, ogni qual volta c’era un anniversario che ricordava la morte di Bob Kennedy, tentò di proporre le sue foto del Funeral Train e sempre, puntualmente, gli vennero rifiutate.

La fotografia è però uno di quei settori in cui non bisogna demordere, non ci si deve dare per vinti e, se si è fortemente convinti delle proprie foto, bisogna insistere perché se il lavoro è buono alla fine la perseveranza paga: e così fu per Fusco.

All’ennesimo “no” parlò sconsolato del lavoro del treno ad una ragazza da poco assunta da Magnum come photo editor, la giovane  telefonò a George Magazine - che all’epoca era il mensile di John John Kennedy - e finalmente le foto vennero pubblicate. Da allora l’interesse per il Funeral Train non è mai scemato.

Paul Fusco | Osservatorio Digitale

Ho voluto raccontarvi questa storia non solo per parlarvi di un grande fotografo, ma soprattutto perché so che fra voi ci sono probabilmente altri Paul Fusco con un lavoro nel cassetto: e allora fate, anzi facciamo, come fece lui, non demordiamo e seguiamo il consiglio che ha dato a Mario Calabresi alla fine del loro incontro, quando salutandolo gli disse: “Non buttare via niente (…) può sempre servire, chissà, magari fra quarant’anni”.

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