ABC degli Autori
In questa serie di articoli, Monica Cillario presenta alcuni tra i più significativi protagonisti della storia della fotografia... dalla A alla Z.
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Anagraficamente parlando Berenice Abbott è stata fra i pionieri della fotografia. Nacque nel 1898 a Springfield e ha attraversato quasi tutto il Novecento con la macchina fotografica in mano, facendo da apripista nell’ambito della fotografia documentaria ed esplorando le nozioni di realismo fotografico. Oltre che fotografare sapeva anche scrivere bene: aveva infatti frequentato una scuola di giornalismo all’Università dell’Ohio, presto abbandonata per dedicarsi intensamente alla fotografia; nel corso della sua vita pubblicò persino delle poesie sulla rivista sperimentale “Transition”.
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Vi ricordate “Blow up”? Quel film del 1967 di Michelangelo Antonioni è un cult non solo per gli amanti del grande regista italiano, ma anche per chi è appassionato di fotografia ed è interessante da vedere soprattutto per coloro che quegli anni, per motivi anagrafici, non li hanno vissuti. Il protagonista incarna in qualche modo la figura quasi iconica del fotografo tipo degli anni Sessanta. Antonioni, nel realizzare “Blow up,” si ispirò ad un fotografo reale: David Bailey.
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Nel 2013 avrebbe compiuto 100 anni ma non arrivò nemmeno a 50, perché morì saltando su una mina a Thai-Binh, durante la prima guerra d’Indocina, mentre svolgeva il suo lavoro di fotoreporter. Si chiamava Endre Erno Friedmann ed era nato a Budapest nel 1913, però è passato alla storia con il nome di Robert Capa ed è uno dei fotografi più famosi di tutti i tempi.
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Ostinato nella sua convinzione di voler fermare il tempo che fugge, Robert Doisneau è stato sì un fotografo francese, ma soprattutto è ricordato come uno dei più popolari fotografi al mondo (del mondo ormai alle nostre spalle, quello immediatamente dopo la Seconda Guerra Mondiale).
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È uno dei fotografi più ironici in assoluto, non solo nei tratti caratteriali ma anche nei suoi scatti. Sto parlando di Elio Romano Erwitz, al secolo Elliott Erwitt. Francese di nascita, ma ebreo russo per origini familiari, le sue foto in bianco e nero hanno fatto il giro del mondo.
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Alcuni di voi lo conoscono per avere visto le sue fotografie su Cernobyl nella mostra “Cernobyl Legacy” tenutasi a Roma nel 2013: un lavoro emotivamente intenso sul più grave disastro tecnologico del secolo scorso, uno dei più grandi errori umani mai commessi, le cui conseguenze continuano ai nostri giorni e che Fusco ha testimoniato attraverso le sue immagini, potenti e toccanti. Personalmente però sono certa che Paul Fusco passerà alla storia soprattutto per il “Funeral Train”, detto in parole povere sarà ricordato per essere stato il fotografo del funerale di Bob Kennedy. Quello, a mio avviso, è il suo lavoro icona: la testimonianza della fine di un sogno che non era solo americano, ma di tutto l’occidente. Un sogno finito per sempre dopo l’omicidio di Bob Kennedy, quello stesso Bob Kennedy che Fusco, per timidezza e cortesia, non fotografò mentre era in vita e di cui invece raccontò l’ultimo viaggio in modo magistrale.
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Fotografia significa - etimologicamente parlando - incidere, disegnare, scrivere con la luce. Pochi fotografi lo hanno fatto con l’incisività e il tocco poetico di Mario Giacomelli, nato a Senigallia nel 1925 e a Senigallia morto nel 2000. Volontariamente ignorante dell’arte della fotografia e delle sue varie tendenze, sempre in giro con un apparecchio fotografico senza molte pretese (pare utilizzasse una Kobell tenuta insieme da nastro adesivo), Giacomelli ha saputo dar forma a un universo onirico a tratti anche poetico; tra l’altro lui stesso, oltre che scrivere con la luce, scriveva poesie e sicuramente questo suo modo di essere e di percepire il mondo ha inciso sul suo modo di fotografare.
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Frank Horvat è indiscutibilmente uno dei maestri della fotografia ancora viventi. Classe 1928, italiano di nascita ma divenuto croato per destino storico in quanto nato ad Abbazia (all’epoca città italiana poi passata alla Croazia), e francese d’adozione per scelta. Recentemente ho ascoltato una serie d’interviste da lui rilasciate al canale radiofonico “France Culture”, che gli ha dedicato un’intera settimana di programma radiofonico in cui lui si è raccontato e messo a nudo con arguzia e simpatia.
Horvat è stato fra i più importanti fotografi del secolo scorso e ha conosciuto mostri sacri come Henri Cartier-Bresson e Robert Capa ma, nonostante l’età, ha saputo guardare avanti, non si è fermato al secolo breve, è andato oltre e si può tranquillamente dire che oggi come oggi appartiene a questo nuovo millennio nel quale è entrato attivamente facendo evolvere il proprio lavoro e adattandolo alle nuove sfide contemporanee.
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Kenro Izu è un fotografo giapponese che da decenni vive negli Stati Uniti. Classe 1949, ha frequentato la scuola d’arte all’Università Nihon di Tokyo dal 1969 al 1972. È annoverato fra i 20 più grandi fotografi di sempre e al Foro Boario di Modena si è da poco conclusa una sua mostra dal titolo “Kenro Izu. Territori dello spirito”.
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Se dovessi fare un elenco dei dieci fotografi che hanno fatto la storia della fotografia del secolo scorso, sicuramente André Kertész non potrebbe mancare all’appello. Nell’opera di questo fotografo ungherese si percepisce il senso della dolcezza della vita, il piacere libero e infantile di esprimere la bellezza del mondo e la preziosità dello sguardo disincantato. Le sue foto evocano la contemplazione dei ricordi anodini che fanno parte dell’esistenza di un po’ tutti quanti noi e che formano una vita intera: personaggi anonimi che s’incontrano all’angolo della strada, coppie che cercano di entrare in un luna-park senza pagare il biglietto; immagini lontane da clamori o drammi, scene quotidiane semplici e lineari, ma mutuate e trasformate da uno sguardo poetico.
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In un certo senso Dorothea Lange era predestinata a divenire la porta-immagine dei diseredati della vita, di coloro che non hanno voce, essendo stata lei stessa, inizialmente, vicina a questo mondo. Apparteneva infatti alla seconda generazione di immigrati tedeschi negli Stati Uniti ed era nata il 26 maggio 1895 a Hoboken, nel New Jersey. In quel periodo si chiamava Dorothea Margaretta Nutzhorn, ma rinnegherà questo nome in seguito alla fuga da parte del padre, che la lasciò quando lei aveva solo 12 anni; Dorothea decise di assumere il cognome della madre, ma il trauma dell’abbandono, che l’accompagnò per tutto l’arco dell’esistenza, la aiutò a comprendere coloro che erano stati traditi dalla vita.
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Se dico Emmanuel Radnitsky, a molti di voi non verrà in mente nulla; ma se invece dico “Man Ray”, subito vi si accenderà una lampadina. Man Ray è però in realtà uno pseudonimo che lui stesso si scelse intorno ai primi anni dieci del Novecento; letteralmente significa “uomo raggio” e la locuzione latina nomen omen (che vuol dire il nome è un presagio), non fu mai tanto azzeccata. E lo fu perché più tardi Man Ray scoprì una tecnica - quella per cui è maggiormente ricordato - chiamata solarizzazione.
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Fotografare la felicità è davvero difficile, forse più complicato che fotografare la miseria o le tragedie. È qualcosa d’impalpabile, una bolla di sapone che scivola tra le mani, che si fa fatica ad acchiappare perché dentro ci siamo noi e un gesto maldestro potrebbe farla scoppiare. Quando si è felici non si ha davvero voglia di fotografare, ma semmai di lasciarsi andare all'ebbrezza del momento, di bere, mangiare, baciare, sollevare corpi nel vortice di tutti i sensi.
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Dichiarava di esser nato a Staten Island, quindi a New York, nel 1840, però probabilmente era di origini irlandesi. Resta comunque il fatto che è ricordato per essere uno dei più importanti fotografi statunitensi perché ha documentato, con le sue fotografie, la guerra civile americana. Oltre a questo importante lavoro è ricordato anche per alcuni bellissimi scatti legati all’Ovest, ossia a quello che siamo abituati a chiamare Far West, che divenne mitico anche grazie al lavoro di quest’uomo che contribuì a diffonderne il paesaggio facendolo conoscere a tutto il mondo.
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I grandi fotografi non sono solo quelli del passato e non sono solo stranieri. Paolo Pellegrin ne è un esempio: è un fotografo contemporaneo (classe 1964) ed è italiano. Romano, ha studiato architettura ma poi un bel giorno ha trovato il coraggio di dire al padre che quella non era la sua vocazione perché strada facendo si era reso conto di voler fare altro nella vita, di volersi dedicare alla fotografia. Ha seguito il richiamo del cuore, perché in lui la fotografia è davvero una passione, come le sue foto dimostrano.
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Eva Quintas è una fotografa spagnola, ma racchiuderla nel solo ambito fotografico è un po’ riduttivo poiché rappresenta meglio di molti altri la vera figura dell’artista a tutto tondo; infatti se dovessi definirla direi che è un’artista multimediale e transnazionale: è nata in Svizzera nel 1964 ed è attiva a Montreal.
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Leni Riefensthal è stata una donna straordinaria come la sua carriera e la sua vita che abbraccia un secolo: cento anni di luci ed ombre, centouno per l’esattezza. Poche artiste sono state controverse quanto lei, la donna - e soprattutto l’artista - che ha iniziato come ballerina, poi è divenuta attrice, poi ancora regista e produttrice dei propri film, diversi dei quali sono fra i più influenti ma anche fra i più controversi della storia del cinema, e che infine ha concluso la sua esistenza dedicandosi alla fotografia.
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Nel 2014 è ricorso il centenario della prima guerra mondiale. Il conflitto del 1914-1918 vide impegnati sul fronte anche i primi fotografi di guerra della storia e fra questi Edward Steichen. Steichen, lussemburghese di nascita, venne poi naturalizzato statunitense: la sua famiglia emigrò infatti negli Stati Uniti agli inizi del Novecento, quando lui aveva pochi anni.
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Il 25 luglio 1937 fu un giorno critico e drammatico nella storia della Guerra Civile Spagnola: le truppe del generale Franco avevano infatti riconquistato il piccolo villaggio di Brunete, a ovest di Madrid, i repubblicani erano stati costretti a battere in ritirata sotto un tiro incrociato e in mezzo a loro si trovava anche una giovane fotografa di nome Gerda Taro.
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Umbo, al secolo Otto Maximilian Umbehr, è stato un fotografo e fotogiornalista tedesco. Nacque nel 1902 a Dusseldorf. Originario di una famiglia della media borghesia tedesca (il padre era un architetto industriale), rimase orfano di madre in tenera età. Il padre si risposò ed ebbe altri figli dalla seconda moglie e questo allontanò sempre più il giovane Otto dall’ambito familiare, che percepiva come angusto e ostile.