Net(e)scape
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The Guardian pubblica ogni giorno sul proprio sito una sorta di riassunto quotidiano per immagini: una "selezione delle migliori immagini dal mondo" nella quale eventi di cronaca si mescolano con istantanee di vita spicciola. Una finestra alternativa sugli avvenimenti delle ultime ventiquattr'ore, filtrati attraverso lo sguardo ovviamente parziale di un photo editor e che tuttavia aggiungono ulteriori dati e sensazioni alla mole di informazioni che già compone il nostro menu giornaliero di notizie.
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C’è qualcosa che risiede nascosto dentro di noi, a cui non sappiamo dare un nome, per quanto lo percepiamo costantemente, dentro un flusso di pensieri, nella paura di perdere qualcuno o di sentirlo ritornare, a fiato rotto come è l’amore o il desiderio, in un qualsiasi convulso movimento dello sguardo o del cuore (che poi sono la stessa cosa). Questo è un movimento che ci spinge a uscire, a cercare fuori l’innominabile sostanza per cui sobbalziamo, e ci stimola a vedere il mondo, non necessariamente per capirlo, ma semmai per assaporarne le forme e le idiosincrasie, come se non ci fosse nient’altro che la necessità di prolungare quest’impressione interiore sconosciuta che da qualche parte dovrà pur rivelarsi.
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Voi l'avete mai visto il mondo mentre scompare? Sì, proprio tu che sei sempre lì pronto a scattare in strada o a casa? L'hai visto il mondo che finisce, o no? E sapresti catturarlo in un'immagine qualunque? Se davvero fotografare è anche un "immortalare", allora in mezzo a tutto questo mucchio di visioni, che lo vogliate o no... la fine non è poi così lontana. Ma non abbiate paura. No, no. Tanto, ormai, è tutta una messa in scena a orario di cena.
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L'occhio fotografico non si esercita solamente stando dietro un obiettivo. L'occhio fotografico si sviluppa allenandolo quotidianamente nelle occasioni più impensate: impostando idealmente un taglio compositivo a quel che guardiamo, o riuscendo a entrare in sintonia con le storie che continuamente si susseguono intorno a noi, di solito ignari di quanto ci circonda. Può la fotografia essere uno strumento per ridestare l'empatia che la disattenzione diffusa intorpidisce così facilmente? Quella stessa empatia che, espressa in immagine, fa la differenza tra un semplice scatto e una prova d'autore? Giuseppe Carrieri si immerge nell'epitome della fretta per trovare una grande storia là dove non ti aspetteresti.
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Cosa hanno in comune un sempre affollato Monaldo di Tokyo con la reception di un albergo lussuoso di Belgorod in Russia? E cosa avvicina il Boom Boom Bar di Phuket in Thailandia, ad alta concentrazione di sbracciati turisti occidentali, con una elegante chiesa di Miskolc, in Ungheria? Apparentemente nulla, è evidente che si tratta di luoghi distinti tanto per latitudine geografica quanto per classe di frequentatori abituali. Eppure gli spazi sopra elencati sono vicini, o meglio sono resi tutti vicini grazie all’occhio delle webcam che li affianca nel grande mosaico per pixel che è la rete e in cui noi li abbiamo scoperti.
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La rubrica Net(e)scape propone una nuova storia e una nuova riflessione che il nostro Giuseppe Carrieri ha scritto sulla strada di Buenos Aires, invitato a partecipare alla quattordicesima edizione del Festival Internacional de Cine de Derechos Umanos dove ha rappresentato il nostro Paese con il suo sempre poetico cortometraggio "La Polvere" di cui abbiamo già diffusamente parlato in passato su queste pagine.
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"Chi desidera la fortuna deve venerare il Potere dell’Illusione”
(Maya)
"Seguitemi, vi mostro come nasce il mondo”, ci fece l’indigeno, con la bocca spalancata e un coltello di pietra coperto di piume. “Vi avverto, però, niente fotografie”. Poi espettorò un ennesimo proiettile dai suoi bronchi malati e proseguì, come se nulla di così serio fosse stato mai detto.
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A me questa storia l’hanno raccontata. È ambientata in Toscana, tempi d’oggi. Si dice che la vedova M. abbia dato un’ultima lustratina alla lapide e poi abbia congedato, a furia di fazzoletti zuppi e sguardate basse, il pubblico che affettuosamente aveva portato l’ultimo saluto al marito V., deceduto pochi giorni prima per un male incurabile. Si dice che la vedova fosse veramente affranta, ma in fondo laicamente consapevole, come se alla fine, da quella storia non si aspettasse più alcun happy ending e ci fosse solo da concepire bene la situazione dell’addio.
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Ci sarà una volta in cui, ad anni luce di distanza, strane creature scruteranno da orbite sconfinate i nostri monitor opachi a cristalli liquidi. E con le antenne perplesse, così si interrogheranno sui nostri destini umani mentre la Storia svolge il suo filo e all’inverso torna…
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Punto primo.
Non te la insegnano a scuola, la forma delle stelle. Ce l’hai dentro di te, già quando sei nato. Ed è un po’ come la sagoma rossa-arricciata del cuore innamorato, nessuno si accontenta della sua reale sembianza, della sua banalità anatomica. Ci serve una figura sognante, un’illusione dichiaratamente finta da alternare alla pochezza dell’immaginazione scientifica. I bambini conoscono a memoria quell’illusione, ancora oggi si può assistere frequentemente ai caleidoscopi delle pagine sgualcite dei loro quaderni, delle praterie di fogli da disegno in cui grandi letti siderali si spremono fuori da piccole dita sporche di giallo, perché in fondo non c’è stella a cinque punte che non assomigli a un grande limone di Sorrento o allo starnuto colorito del canarino.
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L'occhio vuole la sua parte. Già, ma quale tra le tante? Net(E)scape di questo mese propone un viaggio sconnesso nell'intestino di un'immagine... che non finisce mai. Dentro ogni cosa ne appare un'altra e guardare non è più solo un incrocio di direzioni, ma il perdersi nelle profondità di un abisso sotto forma di pixel. Per chi non sa nuotare, saran problemi... Per chi sa vedere, una scoperta che prosegue senza sosta.
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Ci sono ultime sfocate proporzioni negli angoli del cielo. Per trovarle, però, occorre spostare la vista e sincronizzare l’orologio secondo i battiti del cuore. Rapidamente, così, ogni cosa si dissolve in questo nostro sguardo piccolo, furioso di proiezioni spaziali e sconfinati orizzonti. Noi ci consoliamo tendendo la mano all’aria, con quelle dita che provano a spiegarsi la lontananza e fanno cerchi tra gli aeroplani, mentre l’obiettivo punta solo un’impressione. I paesaggi si vestono d’illusione ed escono dalla cornice, le linee si frammentano, il buio si vede. Nel tempo, tutto questo può essere possibile, se si accendono luminosi occhi infiniti. Non ci resta che aspettare, dunque, per capire realmente ciò che possiamo vedere.
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Uomo, se non alzi gli occhi al cielo, non vedi niente. No, questo non è un inedito comandamento biblico né tanto meno l’editto mistico di chissà quale sciamano che predica su qualche canale satellitare. Può essere piuttosto interpretato come un invito rivolto a tutti noi osservatori, gente che lavora semplicemente affacciandosi alla finestra e per questo condannati alla perenne ricerca di nuove visioni. Ma partiamo da un presupposto banale, platealmente scontato: intorno a noi sempre più si moltiplicano display e obiettivi a caccia d’immagini. Mallarmé diceva che il mondo è fatto per finire per un libro. Bene, se oggi il mondo esiste ancora è solo per diventare una fotografia (tutt’al più una clip di qualche minuto in Full HD). Che siano poi le strumentazioni professionali o formato giocattolo poco importa, questi dispositivi sono divenuti parte del nostro abbigliamento e con essi non ci sfugge più niente. Tuttavia basta vagabondare dentro album virtuali o più semplicemente fare zapping negli scaffali pieni di Giga dei nostri cellulari per comprendere che, in verità, le immagini a nostra disposizione sono finite
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Io ci credevo nella realtà. Sì, insomma, guardavo la gente muoversi intorno, gli alberi che facevano fatica a rimanere fermi, i paesaggi crescere in proporzioni come giganti verdi, persino le stelle di notte e qualche luna. E ci credevo a quel che vedevo. Mi bastava l’orizzonte e capivo che ogni cosa era al suo posto. Altro che macchine fotografiche, altro che telescopi! Perché non accontentarsi degli occhi? Perché non sopravvivere con l’ incessante trasmissione delle pupille e con la sola energia delle ciglia e delle lacrime, senza batterie e messe a fuoco automatiche? Tutto il visibile del mondo era a mia disposizione e anche gratis! Per non parlare di quando viaggiavo in treno o in aereo: non mi pareva vera quella scorpacciata di chilometri d’immagini tutta bevuta in poco tempo, dove ogni linea si sfilava e la corsa costruiva un unico grande film di case sempre più lontane, sirene velocissime e un unico grande cielo immobile. Poi, un bel giorno, si consumò il grande tradimento.
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I luoghi sono resti di noi, destinati a farci sopravvivere. In un modo o nell’altro non possiamo che dipendere da essi, adattandoci alle loro crepe per resistere alla scarsezza irrisolvibile della nostra durata biologica. Pensiamo a tutte le città in cui lasciamo segni che ci riguardano o ai quartieri e alle strade in cui talvolta andiamo rispecchiandoci. Pensiamo alle case. Le case, soprattutto, ci sono sempre. Sono mappe confidenziali, territori odiati e amati che ci consegnano una dote di tempo immobile e la possibilità tattile di un ricordo immutato. Le mura sfregiate come rughe della pelle, ante cigolanti come occhi dormienti e portoni zitti in attesa di essere spalancati sono solo alcuni tra gli spazi intermittenti e onnipresenti che ognuno di noi prova a trattenere nella propria memoria. Molto spesso, però, non se ne percepisce che un sentimento distante, un’assenza irreparabile mista a quel proustiano sapore d’oggetto smarrito che ci condanna alla ricerca.
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È come un’isola distante che si sbarazza dell’oceano. Perché si raggiunge sempre, subito e senza difficoltà. È come il mondo, ma più grande, dove anche se ti sfugge tutto tra le mani bucate di codici binari, non perdi niente. Internet, l’unico universo di cui si hanno certezze, è ormai la scorciatoia preferenziale per sbirciare la lontananza e ottenere una fuga. Ma non corriamo, facciamoci spazio piano in quest’apnea d’immagini e suoni, e senza trovare un orientamento, guardiamoci pure attorno. Vorrebbe nascere così Net(E)scape, come un telescopio lento e curioso, ma che prova a graffiarsi e a graffiare, zoomando nel paesaggio vivente della nostra contemporaneità. Qui tra fotografie, luoghi di pixel e ritratti di umanità virtuali possiamo provare davvero ad andare lontano.