Edoardo Miola è un fotografo che è forse troppo facile definire: ama ritrarre il bello e tutto ciò che da emozione. Non so perché ma trovo che sia l’aspetto più condivisibile per chi, come me, ama la fotografia prima di tutto come fonte di ispirazione. L’abbiamo incontrato alla Milan Image Art Fair (MIA), l’esposizione milanese che “vorrebbe” essere una vetrina per tutti gli artisti, e le gallerie, che si adoperano per affermare questa forma visiva come arte vera e propria e farne, spesso e volentieri, un teatro di contrattazione e vendita. Non sempre ci si riesce e, come quest’anno, ci si è ritrovati all’interno di uno spazio molto più piccolo rispetto a quello degli anni precedenti, in una location decisamente nuova, nelle fondamenta del nuovissimo palazzo Diamante, nello sfavillante quartiere di Porta Nuova a Milano, adibite all’occorrenza a spazio espositivo. Tra i vari stand ve n’era uno in cui spiccavano delle foto, apparentemente semplici, che però arrivavano dritte al centro del al bersaglio: ecco perché siamo qui a parlarne.
osservatoriodigitale: Edoardo com’è stata questa esperienza al MIA 2015?
Edoardo Miola: Direi positiva e interessante visto che non capita tutti i giorni di portarsi a casa anche il primo premio del concorso indetto proprio dall’organizzazione, il My Lifestyle (foto di pertura dell'articolo, ndr). Era la mia prima volta come espositore diretto, senza cioè l’intermediazione di un’agenzia e mi è piaciuto molto. Amo mettermi in gioco e in queste occasioni trovo terreno fertile per le mie sensazioni. Devo premettere che sono una persona molto sportiva quindi portata anche alle competizioni e così avviene anche nel lavoro. Intendiamoci io amo confrontarmi con gli altri ma non per ottenere la vittoria, o almeno solo per quello scopo, quanto per vedere quanto possono valere i miei sforzi in rapporto con quelli degli altri concorrenti: è proprio il confronto con l’altro che mi interessa principalmente. È ovvio che sono felice di aver vinto questo premio e che una mia fotografia sia stata scelta e votata più di ogni altra, anche perché il confronto, appunto, era con signori professionisti del calibro di Massimo Sestini e Fabrizio Carraro.
od: Come ti è sembrato il mercato?
EM: L’ho trovato un po’ altalenante e spesso un po’ viziato, in negativo, anche dall’atteggiamento dei fotografi stessi. Nessuno si aspetta che al MIA vengano vendute fotografie per milioni di dollari, come avviene in mercati dove la fotografia ha raggiunto un livello di rispetto e di accettazione tale da non essere più messa in discussione come forma d’arte. Forse ci sono regole più severe che stabiliscono anche i modi e le quantità con le quali le opere vendute vengono riprodotte e vendute ma è un discorso che conosciamo tutti da tanto tempo.
od: Abbiamo saltato una parte importante della tua vita professionale, quella di architetto, della quale però spesso sei restio a parlarne.
EM: Non proprio restio, penso solo che sia una parentesi importante, anzi importantissima della mia vita che però si è chiusa o continua a vivere in una dimensione parallela a quella della mia professione di fotografo. Da quando mi sono laureato ho coltivato una passione che in seguito si è sviluppata in una professione, che mi ha portato a lavorare con alcuni dei più grandi architetti del mondo, da Piano a Gregotti a Rossi oltre che per grandi designer come Thun; per loro, e non solo, ho realizzato una serie infinita di modelli tridimensionali, tutti realizzati con una mia tecnica precisa. Era una grande passione che mi portava a lavorare con grande piacere ed entusiasmo con grandi studi di architettura con i quali, ovviamente, condividevo lo stesso linguaggio: oggi quel mondo è cambiato e molte richieste vengono fatte dalle imprese edili, gente che vuole modelli di tutt’altro genere, più espliciti e meno interessanti. Quel tipo di attività la gestiscono ora dei miei collaboratori, proprio perché da anni io mi sono dedicato solo alla fotografia e ai viaggi. Con questo non voglio dire che quel periodo della mia vita non mi abbia dato soddisfazioni, anzi, perché ho lavorato astretto contatto con realtà magnifiche come quella del Politecnico oppure quando ho disegnato le campagne per la Coppa America o i prototipi dei nuovo grattacieli di Milano fino alle barche per Nautor, un’azienda Finlandese di proprietà del gruppo Ferragamo.
In tutto questo movimentato mondo trovavo sempre più difficile ritagliarmi del tempo per me e le mie passioni, che coltivo sin dalla gioventù, viaggiare e fare fotografie.
od: E allora ecco che come per incanto…
EM: Sì, diciamo che non è stato né facile né immediato ma col tempo sono riuscito a partire in modo professionale anche con la fotografia. Era il 2005 e da allora non ho mai smesso, sempre con in modo serio e sistematico, con lo stesso approccio che avevo con l’altra attività. Mi piace molto la tecnica e la tecnologia e quindi, anche con la fotografia, ho avuto la stessa necessità di capire prima di fare, cercando sempre di risolvere la ripresa anche da un punto di vista scientifico. Mi piace conoscere tutto o quasi degli strumenti che utilizzo, penso per poterne fare un uso migliore, per poi “buttarmici” con tutto me stesso. Tornando al discorso che facevamo prima a proposito del confronto, anche in quel periodo ho guardato molto il lavoro degli altri fotografi, il loro stile non la loro tecnica ma il loro modo di porsi. Così ho ripreso sia la capacità di “vedere” che la confidenza con la macchina fino ad arrivare a quello che è il mio lavoro di oggi.
Spesso avverto il “momento” prima della scatto, qualcosa che in seguito si percepisce nella foto; ci metto davvero il cuore e cerco sempre di stabilire un legame con il mio soggetto, che si tratti di una persona o di un relitto. Quando fotografo provo una sensazione di svuotamento o di fascinazione dalla bellezza, provo delle emozioni che cerco di trasferire a chi guarda una mia fotografia.
La fotografia, lo sappiamo, è molto cambiata; un tempo chi l’amava le poteva dedicare uno o due giorni la settimana mentre oggi si fotografa ovunque, con ogni mezzo ed è facile perdere quel sentimento iniziale. A me invece è qualcosa che appassiona ancora molto e provo grande felicità ed emozione ogni volta che scatto. Nella vita ho avuto la fortuna e l’opportunità di conoscere e parlare con fotografi come Berengo Gardin, Salgado e McCurry e credo di aver capito da loro che cosa devi mettere in una foto quando scatti.
od: Quindi credi sia importante imparare dagli scatti degli altri.
EM: Se non sai leggere le foto di quelli più bravi di te credo che difficilmente sarai in grado di realizzare un tuo corso, di sviluppare una tua personalità. Io cerco di dare un’anima alle mie immagini anche se a volte ci riesco e a volte no: io ci metto sempre la stessa voglia, mi resta sempre dentro un grande entusiasmo. Ripeto la fotografia mi appassiona molto, credo sia un mio sistema di comunicazione.
Capisco che oggi sia forse più difficile fare un proprio percorso, non posso immaginare le sensazioni di un giovane fotografo che sta iniziando; credo che se mi trovassi in quella situazione mi spaventerei se pensassi a come muovermi all’interno di un ambiente che ha sempre meno da offrire.
od: Secondo te la fotografia si esprime nella stessa maniera in digitale così come in analogico?
EM: Credo che questa sia una questione tutta italiana, una voglia di discutere del sesso degli angeli. All’estero una fotografia è apprezzata, si vede e si vende indipendentemente dal modo con cui è stata realizzata, almeno da quando il digitale ha eguagliato e, forse, superato, la qualità di ripresa delle macchine analogiche così come tutti i sistemi di stampa. Io me ne sono accorto anche utilizzando al cune fotocamere, come Leica, che ero abituato a utilizzare anche prima, così come Hasselblad. I sistemi Monochrom e MP (Leica, ndr) che utilizzo oggi così come l’H3D 39 di Hasselblad mi permettono di scattare foto magnifiche così come avveniva un tempo con le corrispettive macchine fotografiche a pellicola. Devi saper scegliere qual è lo strumento giusto per quello che vuoi fotografare. Con le Leica, ad esempio, ci vado in viaggio quando devo fotografare le città, le persone, i momenti di vita vissuta. Se devo andare in luoghi più impervi, a fotografare gli animali allora mi porto le mie Nikon D3X e D3S che sono anche studiate e realizzate per resistere alle intemperie e mi offrono una capacità di ripresa e scatto completamente diversa.
od: Parliamo anche di viaggi. Realizzati come?
EM: Ci penso e ci vado: se c’è qualcosa che mi interessa progetto il viaggio e lo realizzo. Spesso dale foto che riporto a casa nascono dei libri dove racconto per immagini la mia avventura, senza troppo testo, lasciando proprio tutto lo spazio possibile alle emozioni che le immagini possono dare a chi le guarda, anche attraverso le pagine di un libro. Non tutti i viaggi, che a volte si ripetono proprio per un mio piacere personale o perché amo particolarmente quel luogo, come il Sudafrica e la Namibia per citarne uno, portano alla pubblicazione di un libro. Di recente ho pubblicato un libro su Bangkok (Soi Cowboy del quale si parla nella rubrica Libri di questo numero, ndr) che è stato tra l’altro recensito da Steve McCurry, e che mi sta dando molte soddisfazioni. Ancora una volta voglio ribadire il concetto che è determinante riuscire a esprimere il proprio punto di vista.
Io ho certo la fortuna di poter fare quello che mi piace, senza seguire dettami o mode del momento. Seguo ancora oggi la strada che mi sembra più giusta.Tutte le foto del servizio, compresa la foto di copertina sono copyright di Edoardo Miola. Maggiori informazioni e immagini si possono trovare ai siti di Miola o su quello di Nomad Photographers.
Data di pubblicazione: maggio 2015
©riproduzione riservata