A Milano, nel cuore della città, qualche portone più in là rispetto a dove vive un altro signore che ha fatto della fotografia la sua vita, un certo Gianni Berengo Gardin, c'è uno studio in cui Romagnoli raccoglie opere e pensieri e prepara le sue prossime apparizioni pubbliche, siano queste una mostra, la partecipazione a un'esposizione museale o una personale in una galleria di questo nostro vecchio continente o di uno dei più nuovi, dove la fotografia ha già raggiunto lo status di arte vera e propria e viene trattata come tale, senza la stupida puzza sotto il naso che spesso si vede stampata in volto tra gli addetti ai lavori che si muovono qui da noi. Entrare in questo grande spazio, dove si cammina lungo stretti corridoi delimitati non da pareti ma da immagini, lascia sbigottiti in principio, almeno fino a quando, appunto, si elabora di essere circondati dalla storia, una storia che scandisce il tempo attraverso grandi fotografie e dipinti, alcuni liberi di mostrarsi insieme ad altri pronti per essere trasferiti altrove. La parete che ho di fronte è occupata da un grosso dipinto che sembra floreale ma fatico a leggerlo, impegnato e rapito come sono dalla quantità di oggetti che richiamano la mia attenzione. Edoardo mi accoglie con un sorriso caldo e il suo viso buono: dopo i saluti ci troviamo subito immersi nelle chiacchiere intrise di fotografia ma, da subito, capisco che questo incontro, ci porterà alla deriva, in un mare aperto dove ci si troverà a parlare di tutto, persino di storia, geografia e di economia.
osservatoriodigitale: Questo posto è incredibile e quel dipinto è bellissimo. Sembra il luogo perfetto per lavorare.
Edoardo Romagnoli: Sì è qui che scelgo le opere da inviare alle mostre e preparo quelle che sono vendute. Ah, comunque quel "dipinto" è una fotografia...
od: Cominciamo bene, se non riesco nemmeno a capire la differenza tra un quadro e una foto...
ER: C'è tutto un discorso da fare a proposito perché è stato realizzato con una tecnica particolare ma... (driiiin – squillo di telefono)
od: Dicevamo della foto-dipinto...
ER: Sì, è vero, ma volevo farti vedere questa foto che mi ha pubblicato questo giornale, l'hai già vista? No, perché tra l'altro l'avevo portata al MIA l'anno scorso, o forse era due anni fa, non ricordo, però ha avuto un bel successo, è piaciuta molto anche se non dovrei essere io a dirlo. È partito tutto da un progetto che poi si è trasformato in... (driiiin – squillo di telefono)
(Stiamo un po' giocando con la storia del telefono – che comunque suona spesso. Romagnoli è gentilissimo e dirotta tutte le telefonate sulla sua assistente Caterina, sempre pronta a ripescare negli archivi di Edoardo le immagini alle quali lui fa riferimento durante il suo racconto.)
od: Andiamo con ordine. Raccontaci un po' come è cominciato tutto.
ER: Volentieri ma credo si debba andare un po' indietro nel tempo, quando ancora studiavo al liceo. Devi sapere che sono cresciuto in una famiglia con due "anime", una decisamente artistica quella di mia madre, in cui lei e il nonno erano pittori, contrapposta in maniera diretta a quella di mio padre, dove lui e l'altro mio nonno, erano degli uomini d'affari. Così ho coltivato la passione per l'arte e il dipingere insieme agli studi di economia ed è andata avanti così per molto tempo. Mi sono laureato proprio in economia ma non ho mai abbandonato la mia passione per l'arte: l'interesse per la fotografia è venuto dopo, quando mi sono sentito attratto da questo strumento che mi permetteva di fissare alcuni momenti in modo diverso rispetto alla pittura ma con un denominatore comune.
Ho sempre amato viaggiare ma viaggiare in maniera avventurosa, in Land Rover, un'automobile fantastica che mi regalò mio padre per sopire quella voglia di corse che c'era in me. Per la cronaca fui vicino all'acquisto di un a Lancia Stratos stradale ma finì che mi ritrovai sul Land a passo corto. Divenne la mia casa e per mesi ci viaggiai fino a Capo Nord. Fu in quell'epoca che fotografavo i viaggi come reportage e vendevo le mie fotografie a molto riviste, più o meno note. Questa attività, oltre a darmi la possibilità di fotografare mi permetteva di mantenermi i viaggi: tanto per dire ho attraversato il Sahara ma ho anche attraversato gli Stati Uniti da New York all'Alaska in Land, giusto per dirne qualcuno. Insomma la fotografia di viaggio è stata molto importante perché mi ha insegnato molto, mi ha davvero fatto entrare in sintonia perfetta con la mia Nikon di allora. Solo che, a un certo punto, è finito il mio interesse per il reportage.
od: E allora ecco la luna...
ER: Non ancora. Tornato a vivere a Milano ho intrapreso una carriera in una grande azienda assicurativa continuando a scattare per piacere personale e, dopo alcuni anni, mi sono sposato. Una sera, guardando la notte limpida, ho preso la macchina con il 300mm e il cavalletto e sono andato in terrazzo a fotografare la luna ma l'ho fatto da subito cercando un modo mio solo che, come è facile immaginare, utilizzando la pellicola non avevo la certezza di ottenere i risultati che mi ero prefisso. Tra l'altro il concetto della linea mi aveva sempre attratto e così, volendo applicarlo anche al nostro amato satellite, cominciai a muovere la macchina mentre stava scattando in posa B.
od: Quindi anche la luna è una passione di vecchia data.
ER: Altroché. Dobbiamo andare indietro qualche decennio. Certo adesso col digitale è tutto più controllabile, non voglio dire semplice, ma almeno i risultati di quello che fai li vedi subito e, se hai qualcosa di particolare in mente puoi correggerti e rifare di nuovo lo scatto. Premetto che tutti i miei scatti sulla luna sono frutto di un solo scatto, senza intervento alcuno in post-produzione: intendo che quello che si vede in stampa è esattamente quello che ho scattato, eccezione fatta per una possibile correzione dei grigi, come avveniva in camera oscura (guardando molti scatti, oggi famosi, della luna di Romagnoli, sembra impossibile che siano stati realizzati davvero con uno scatto solo, come ci ha raccontato prima la sua tecnica, ndr). Anche nelle foto che ho intitolato Dialogando con Venere si vedono la luna e Venere allo stesso tempo, come se fossero più immagini sovrapposte mentre invece sono tutte frutto di uno scatto solo; col tempo ho imparato e sviluppato una mia tecnica di ripresa, usando la posa B come se stessi dipingendo su una tela: muovo la fotocamera come in una vera e propria danza.
Comincio così a realizzare immagini della luna e a "metterle li". Un giorno comprai un libro, Graphic Adventures, di Giulio Confalonieri, uno dei maggiori designer del secolo scorso insieme a Bob Noorda, Usellini, Munari e gente così. Ne rimasi così impressionato che decisi di conoscerlo e ci riuscii. Lui venne da me un giorno e si mise a guardare le mie lune, se ne innamorò e mi procurò un incontro con Lanfranco Colombo, mitico proprietario della galleria milanese Il Diaframma. In breve fu li che si svolse la mia prima mostra personale con immagini stampate in grande formato, 120 x 180: era il 1991 e come esordio era da considerare strepitoso, al punto che mi sentivo anch'io sulla luna dalla gioia ma, nonostante il successo di quella mostra, anche in termini commerciali, fu proprio Confalonieri che mi riportò con i piedi per terra dicendomi che non avevo fatto niente, quello era solo il punto di partenza e da li me la sarei dovuta cavare da solo. Tra l'altro, quando andai a stampare le foto dal grande Mario De Stefanis, incontrai e conobbi Gianni Berengo Gardin che, qualche tempo dopo, fu molto franco nel dirmi che lui intendeva la fotografia come reportage mentre io mi indirizzavo a un mondo più artistico ma che avrei dovuto insistere e dare un prezzo alle mie fotografie. Questo in breve l'esordio fotografico della luna.
od: Hai portato avanti un discorso parallelo tra la pittura e la fotografia?
ER: No, la pittura l'ho abbandonata completamente a favore della fotografia: direi che la grafica, invece, mi ha sempre colpito. Però non ho mai smesso di dedicarmi ai Doodles, piccoli disegni astratti che realizzo dove mi capita. E qui devo aprire una parentesi che riguarda Riccardo Costantini, gallerista di Torino che li scopre proprio durante una sua visita qui in studio e me li fa esporre al MIA nel 2013. In realtà li avevo già esposti da Grossetti negli anni '90 ma in seguito erano spariti anch'essi. Per il MIA li ho selezionati, ne ho fatto delle scansioni accurate e li ho ingigantiti stampandoli su carta da architetto ed esponendoli appesi a un filo con le mollette da bucato. È stato un successo incredibile che mi ha fatto davvero piacere, proprio a livello personale, umano. Devo dire che Costantini mi ha aiutato molto anche a fare ordine tra le mie foto e a trovare la giusta strada per far emergere quel desiderio di incrociare la grafica con la fotografia che è, da sempre, dentro di me. Un altro lavoro che ho già esposto e presto tornerà in mostra sono le foto del progetto Self Stone Therapy (nostra foto di copertina di questo numero, ndr) valorizzato anch'esso da Costantini che mi ha aiutato a dargli un suo carattere preciso. Alcune foto, scaturite da una mia ricerca a proposito della guarigione – argomento che mi ha interessato particolarmente da vicino in seguito a una malattia – erano già state in mostra a Ravello, nel 2011, selezionate da Achille Bonito Oliva, col nome di AutoRiscatti.
od: Com'è il mondo della fotografia in Italia? Qual è il ruolo dei galleristi, quanto conta il loro appoggio?
ER: Diciamo che essendo a Milano bisogna ritenersi fortunati per la centralità della piazza nel nostro Paese. Certo sarebbe meglio trovarsi a Londra o a New York anche se Don Thompson, come ha scritto nel suo libro Lo squalo da 12 milioni di dollari riferito al mondo milionario delle opere d'arte contemporanee (come lo squalo di Damien Hirst, ndr), ha individuato che tra le due metropoli vi sono almeno cinquantamila artisti tra i quali 75 hanno redditi sopra i dieci milioni di dollari, circa 200 si attestano tra i centomila e il milione mentre tutti gli altri faticano a sbarcare il lunario: sono numeri che dovrebbero far riflettere. I galleristi certo che contano ma, forse, contano ancora di più le istituzioni e i musei. C'è una sorta di classifica in tutto: è magnifico esporre ad Artefiera di Bologna ma sarebbe ancora meglio essere presenti alle fiere di Basilea o Miami, Parigi o Londra.
Ho avuto la fortuna di espore le mie foto al Guggenheim di Venezia in una mostra collettiva e ho due opere esposte in modo permanente al museo di arte moderna di Strasburgo, opere che mi hanno permesso di realizzare una mostra all'Istituto Italiano di Cultura. Conta molto anche la casualità a volte: è stato così che la direttrice del museo di Strasburgo, girando tra gli stand di Bologna, vede delle mie foto e se ne innamora al punto di comprarne due da esporre nel suo museo. E non si limita a questo: una volta tornata organizza una visita a tutti i galleristi della città affinché vedano le nuove opere appena arrivate; da noi, inteso come in Italia, c'è sempre grande entusiasmo e interesse, si parte benissimo però poi ci si perde tra mille meandri organizzativi e cavilli burocratici.
C'è anche un vuoto culturale che aleggia in Italia e non solo, a proposito dell'arte contemporanea e della fotografia; spesso il pubblico incorre in due errori comuni nel guardare e valitare le opere. Il primo è senz'altro la sindrome del "questo potevo farlo anche io" mentre il secondo è dato dalla mancanza del valore percepito dell'opera stessa, come dice Jacopo Perfetti nel suo nuovo libro "Fai fiorire il cielo" edito da Sperling & Kupfer.
Ci sono critici che mi hanno detto che le foto della luna andrebbero messe di diritto nella storia della fotografia: certo è un bel complimento ma, se lo scopo è quello di vendere le foto, sembra che non ci sia una diretta corrispondenza tra il pensiero della critica e il successo di pubblico. Sinceramente sono contento di come le mie opere si posizionano sul mercato: è recentissima la vendita di un dittico al noto gallerista Massimo Minini (gallerista d'arte contemporanea tra i più noti in Italia, ndr) che, dopo averlo vistoin mostra a Bologna è andato da Costantini a Torino e l'ha comprato per sé. Una grande soddisfazione, soprattutto dal punto di vista personale.
od: Hai scritto anche dei libri...
ER: Sì e anche il primo, Lune, ha una storia di lunga data. Il menabò lo ha realizzato Giulio Confalonieri mettendo una E in copertina a simboleggiare la congiunzione tra grafica e fotografia, senza che queste si sovrapponessero o travalicassero una lo spazio dell'altra. Giulio mi fece promettere che l'impostazione del libro non sarebbe stata cambiata e così, dopo tanti tentativi e proposte editoriali, solo nel 2009 con l'editore Springer – in occasione del quarantesimo anniversario dello sbarco sulla luna – sono riuscito a pubblicarlo così come l'avrebbe voluto Confalonieri. Le foto e la grafica vivono uno spazio preciso ed esclusivo, al pari del testo scientifico scritto da Piero Bianucci. Poi c'è un progetto molto personale Ogni generazione è ponte, edito da Chimera nel 2014 in occasione dei cento anni della nscita di mio padre, nel quale ho voluto raccontare la storia di cinque generazioni della mia famiglia partendo dal mio bisnonno Pietro e attraversando la nostra storia fino a mio figlio Pietro Maria. È un libro polifonico come amo definirlo, perché scritto con l'aiuto e la voce di molte persone che hanno attraversato il tempo insieme alla nostra famiglia; è stato anche un progetto di ricerca notevole che mi ha fatto scattare immagini particolari e recuperarne altre dagli album di famiglia.
od: Progetti per il futuro?
ER: Di immediato sto preparando il prossimo MIA (che si terrà a Milano tra il 10 e il 13 aprile 2015, ndr) dove esporrò con la galleria Pho_To di Cristiana Pepe e Federica Gilardi: proprio in questi giorni stiamo preparando le opere da portare in mostra. Poi c'è un progetto che riguarda ancora la foto-dipinto di cui abbiamo parlato in apertura poiché in Germania soprattutto l'attenzione si sta muovendo verso le immagini floreali particolari e, questa mia serie, credo proprio lo sia. È realizzata a colori in due scatti semplicemente posti uno sopra l'altro: il primo è il soggetto assolutamente definito a cui viene sovrapposta l'immagine realizzata con la tecnica di ripresa della luna, con la macchina che fa la sua danza. Il risultato è visibile a tutti. Ultimo ma non meno importante è un progetto che vedrà le mie foto realizzate al nuovo Palazzo della Regione Lombardia in mostra all'Istituto Italiano di Cultura di Buenos Aires in una collettiva insieme ai lavori di mio nonno (pittore) e mio zio (architetto) che hanno lavorato molto in Argentina. Infine non dimentichiamo la luna, un impegno che non ha mai fine: ho tra l'altro presentato a Venezia un progetto (presentato fuori tempo massimo purtroppo) chiamato Specchio di Luna dove, in una struttura di 18 metri si trova una luna di due metri di diametro contrapposta a uno specchio: il visitatore guardando a sinistra vedrà la luna mentre voltandosi a destra vedrà se stesso "sulla luna".
Edoardo Romagnoli è un romantico sognatore di un mondo decisamente migliore, fosse anche solo dal punto di vista visivo. Le sue foto sono davvero coinvolgenti e riflettono la personalità dell'autore, un uomo capace di entusiasmarsi ogni giorno e di coinvolgere gli interlocutori al massimo livello. Il pomeriggio se n'è andato e sarebbero ancora tante le fotografie da vedere, i doodles da passare in rassegna nelle scatole in cui sono raccolti, i racconti da ascoltare. La promessa è quella di rivedersi presto. Sicuramente già al prossimo MIA.
Tutte le immagini dell'articolo sono copyright e proprietà esclusiva di Edoardo Romagnoli. Altre informazioni e immagini si possono trovare qui, sul suo sito personale.
Data di pubblicazione: marzo 2015
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