Andrea FrazzettaAndrea Frazzetta è giovane e fa questo lavoro relativamente da poco tempo, sette anni, ma l'ha talmente voluto che i risultati non si sono fatti attendere. È riuscito a vincere il concorso Canon Giovani Fotografi nel 2007, a essere chiamato come giurato allo stesso due anni dopo, a pubblicare sul National Geographic e, proprio di recente, anche sul New York Times Magazine: insomma non proprio cose da poco. Tra un lavoro e l'altro lo abbiamo incontrato per fare due chiacchiere delle quali siamo felici di rendervi partecipi.

Abbiamo conosciuto Andrea al Photoshow di Milano nello stand Samsung dove era uno dei professionisti che rappresentavano National Geographic, le cui foto erano disseminate in tutto lo spazio espositivo. Mentre davamo uno sguardo da vicino alla nuova NX11 abbiamo cominciato a scambiare le solite due chiacchiere che sono poi sfociate in un incontro vero e proprio nel quale abbiamo cercato di parlare di un po' di tutto, visto che gli argomenti sembravano venir fuori da soli.

osservatorio digitale: Partiamo subito da una domanda tecnica a proposito della tua attrezzatura. Quali macchine utilizzi?

Andrea Frazzetta: Da quando lavoro come fotografo professionista ho sempre usato Canon e adesso possiedo due corpi 5D Mark II con un alcune ottiche di tipo L, il 17-40 mm f/4, il 24 f/1.4 che mi piace tantissimo per la sua morbidezza. Dopo aver vinto il concorso dedicato ai Giovani Fotografi nel 2007 Canon mi ha supportato in modo deciso, ma anche a prescindere da questo devo dire che personalmente mi trovo davvero bene a lavorare con le loro macchine. Dopo il PhotoShow ho avuto l'occasione di provare anche le nuove mirrorless compatte Samsung che sto cominciando a utilizzare proprio in questi giorni: ti danno un approccio diverso proprio grazie al loro corpo più piccolo rispetto alle normali DSLR, rivelandosi magari più adatte per un certo tipo di fotografia dove non devi apparire o farti notare più di tanto. Credo abbiano, dal punto di vista professionale, ancora qualche punto da migliorare a livello tecnico, come il problema della sensibilità, ma sono lacune che sicuramente verranno colmate con il tempo. Samsung viene identificata da molti come un'azienda che produce solo splendidi televisori e monitor, mentre in realtà sta svolgendo un ottimo lavoro anche nel mondo della ripresa e con questi sistemi lo sta dimostrando. Mi è piaciuto molto il loro approccio tanto che si stanno lanciando in una serie di grandi iniziative, come quella con il National Geographic ad esempio, proprio per inserirsi sempre più in questo settore. Mi hanno proposto di provare le loro macchine in modo diverso, magari la sera o quando sono in giro e non ho la voglia o la necessità di portarmi il corredo principale, e così sto facendo: utilizzo la NX per i miei appunti o per scattare foto d'istinto, chissà che ne esca qualche immagine da utilizzare davvero. Per quanto mi riguarda credo che per il momento continuerò a utilizzare le reflex tradizionali perché mi danno una sicurezza e una duttilità che non trovo altrove. Lavorando spesso in Africa e in situazioni dove la macchina con l'obiettivo importante può rappresentare un ostacolo tra te e il soggetto da riprendere, ho imparato a gestire i tempi, a non avere fretta, così da fare in modo che la gente del posto si "abitui" a me e poi non presti più grande attenzione al fatto per cui sono in giro a fare foto. Certo sempre chiedendo loro il consenso di riprenderli, perché questo è fondamentale. Il mio però non vuol essere un discorso a discapito delle macchine compatte, al contrario affermo solo che per me oggi è ancora più comodo lavorare con le reflex; la sensibilità che mi offre la 5D è grande, puoi scattare anche agli alti ISO senza avere problemi di rumore o di grana. Tuttavia ci sono professionisti che utilizzano solo le compatte con risultati eccellenti, basta vedere quello che fa Alex Majoli, fotografo di Magnum, tanto per citarne uno.

(C) Andrea Frazzetta

od: La tua fotografia sembra molto dedicata alle persone.

AF: Sì, infatti mi piace stabilire un contatto e, paradossalmente, le mie foto migliori le ottengo quando riesco a inserirmi in un contesto, quando la gente non mi nota quasi più - anche perché utilizzando spesso un grandangolo devo avvicinarmi molto ai soggetti. Su una macchina ho sempre montato un obiettivo a focale fissa, un 24mm che trovo meraviglioso anche se l'obiettivo che ho sempre amato è il 28mm, ma questo in particolare è definito e molto luminoso anche se generoso anche nelle dimensioni che mettono in soggezione chi viene ripreso. Per fortuna la gente oggi è più abituata a vedere la tecnologia e, a volte, vivo scene impensabili fino a qualche anno fa: magari sto scattando in qualche sperduto luogo africano, arriva qualcuno del posto, mi fotografa con il suo telefonino e poi mi chiede l'amicizia su Facebook così da poterci scambiare le immagini e magari "taggarci" a vicenda. Mi è capitato in un piccolo villaggio vicino a Nairobi e davvero la fotografia mi ha dato la sensazione di essere una sorta di esperanto che permette di infrangere molto barriere. Poi sicuramente c'è anche l'aspetto negativo che è dato dall'estrema facilità con cui oggi le immagini possono essere utilizzate anche con finalità non sempre positive; per questo credo che si debba avere ancora più rispetto delle persone che fotografiamo: non parlo tanto dei professionisti che sanno benissimo qual è il codice etico da utilizzare, ma proprio di chi si è trovato a disposizione la possibilità di catturare immagini e farne un qualsiasi uso possibile, come il ragazzino che posta in Internet la foto di una coetanea e ne fa un commento malevolo. Questo strumento che ci ha dato modo di avvicinarci tutti può anche rivelarsi un'arma pericolosa ed ecco perché ritengo si debba imparare un modo di comportarsi, un'educazione a proposito dell'uso delle immagini. Oggi in certi luoghi si sconta ancora un atteggiamento ostile nei confronti di chi fotografa grazie o per colpa di atteggiamenti irriverenti e poco corretti di qualcuno che è passato prima di te: questo dovrebbe far riflettere.

(C) Andrea Frazzetta

od: Raccontaci di come sei diventato fotografo professionista.

AF: Prima di tutto devo dire che ho studiato e mi sono laureato in Architettura a Milano; vengo quindi da un settore del tutto diverso anche perché non ho mai frequentato una scuola specifica, non ho mai studiato fotografia nel senso proprio del termine. Però, anche se non ho mai fatto l'architetto nemmeno per un giorno, devo dire che studiare architettura mi ha aiutato molto non solo per la composizione ma anche per il metodo, la progettualità che mi ha dato che oggi trovo davvero preziosa. All'epoca della laurea, i ragazzi che hanno realizzato il film Fame chimica - Paolo Vari e Antonio Bocola - organizzavano un corso di fotografia e reportage e io, attraverso una borsa di studio, avevo deciso di seguirlo. Alla fine del corso era previsto uno stage, che avevo chiesto di fare all'agenzia Grazia Neri. Al termine del mio periodo in agenzia ottenni la possibilità di far vedere il mio portfolio proprio a Grazia e le piacque molto; all'epoca, però, il mio modo di fotografare aveva uno stile molto "urbano" e architettonico. A me piaceva fotografare le città, e le mie immagini erano tutte palazzi e strade. Grazia Neri mi fece i complimenti ma sottolineò che l'agenzia si occupava di giornalismo e che forse avrei avuto bisogno di chiarirmi le idee su quel tipo di lavoro. Mi propose quindi di seguire una troupe che stava partendo per l'Amazzonia con la promessa che, al ritorno, avrebbero guardato le mie foto e cercato di venderle. Il costo della spedizione era a carico mio ma, essendomi appena laureato, colsi l'opportunità di farmi finanziare il viaggio come regalo da parte dei miei. Al ritorno portai le mie foto in agenzia e subito vennero vendute in due tranche, prima a Gulliver (mensile di viaggio che ormai ha cessato la pubblicazione, ndr) e in seguito al settimanale D di Repubblica. In Brasile per me è stato un po' come il battesimo del fuoco perché ho capito che cosa e come dovevo fotografare: abituato a riprendere le grandi città mi sono ritrovato catapultato in un luogo in cui, oltre alla natura, c'era solo da raccontare la vita delle persone che incontravo. È stato amore a prima vista perché, passando dall'architettura all'assenza della stessa, ho capito davvero cosa avrei voluto veramente fotografare. Tra l'altro se c'era una cosa che ritenevo davvero difficile era proprio fotografare le persone perché, essendo io di indole timida, lo trovavo molto invadente. Superando quella fase ho capito che oltre ad essere cresciuto professionalmente ero cresciuto anche dal punto di vista umano. Alla fine ho deciso di "sposare" questo tipo di attività: sicuramente non può essere vissuta a tempo parziale, non puoi pensare di fare l'architetto e prenderti delle pause per fare reportage - credo sia proprio una scelta di vita.

od: Quindi direi che sei soddisfatto della scelta di non fare l'architetto...

AF: Sono molto più che contento. All'inizio avevo il timore di deludere i miei ma, alla luce dei primi successi e delle prime fotografie pubblicate, devo dire che questa è la mia professione e, forse sto per dire qualcosa che va controtendenza, io ci vivo piuttosto bene soprattutto se penso a chi si è laureato con me e al livello di soddisfazione professionale che vive in questo momento. Sono sensazioni e discorsi che variano da fotografo a fotografo, un po' come quando si parla dell'agenzia che ti rappresenta: per me non è un ostacolo, anzi: l'ho sempre vista come una grande opportunità per far conoscere il proprio lavoro, così da lasciarmi tutto il tempo per dedicarmi al lavoro stesso, alla ricerca e alla mia crescita. Ho avuto fortuna di entrare in un'agenzia prestigiosa come Grazia Neri che, però, poi ha chiuso; allora ho seguito alcuni fotografi che si sono uniti insieme fondando Luz Photo, riprendendo un po' la parte giovane della vecchia agenzia Grazia Neri e puntando molto, oltre che sulla forza vendita ovviamente, anche sulla rappresentanza di alcuni nomi stranieri di sicuro impatto come Anne Lebovitz, per fare un esempio. È vero che un'agenzia si prende una fetta importante del lavoro, ma senza di essa - tanto per fare un esempio - mai sarei riuscito a prendere un incarico da un cliente prestigioso come il New York Times.

(C) Andrea Frazzetta

od: Raccontaci cosa significa lavorare per un cliente così.

AF: Credo sia come per un calciatore giocare in Champions League. Di solito, in Italia e all'estero, capita spesso che riviste importanti producano dei servizi come quello che ho realizzato per il NYT ma nessuno è in grado di gestire tutto il ciclo di produzione a un livello così alto. Tutta la produzione, i viaggi, le spese di albergo, vitto, taxi e la post produzione sono a carico del giornale, per me e per le persone che hanno lavorato con me - e tutto a livelli davvero impensabili se paragonati a quelli a cui siamo abituati in Europa. Al di là del prestigio che ti può dare un'esperienza del genere, è proprio il livello dell'esperienza stessa che ti segna.

od: Per chi lavori di più in Italia?

AF: Lavoro spesso con Vanity Fair, l'inserto Sette del Corriere della Sera, L'Espresso e D di Repubblica perché sono tra i pochi che ancora producono dei servizi, anche se in modo completamente diverso rispetto al New York Times. Qui ti danno la certezza di comprarti un servizio ma te lo devi praticamente produrre da solo e questo è un lavoro enorme. Spesso si pensa che il lavoro del fotografo di reportage sia tutto tecnica, obiettivi e scatti in posti esotici; invece c'è un grosso impegno per la preparazione e l'organizzazione dei viaggi che ti porta via un sacco di tempo, direi quasi la metà del totale.

(C) Andrea Frazzetta

od: E a lavorare con il National Geographic come ci sei arrivato?

AF: Nacque tutto perché l'agenzia (Grazia Neri, ndr) portò il mio portfolio da vedere a NG Italia, cui piacque subito il modo di scattare che avevo perfezionato durante i miei viaggi in Africa, dove seguivo delle missioni di carattere umanitario. Marco Pinna, caporedattore della rivista, volle conoscermi e andai a Roma per incontrarlo. Lì decidemmo di fare un servizio insieme e io gli proposi il tema degli "slow train" italiani, partendo da una vecchia ferrovia del Salento e altre sempre nel sud-est d'Italia; su quella linea ormai quasi dismessa si vedono scene di altri tempi dove la gente sale e chiede al controllore di fermarsi in un determinato posto, una sorta di tram a richiesta, belissimo... Avevo già scattato qualche foto in passato a questi treni, e piacquero così tanto che mi chiesero di fare un servizio su sei diverse ferrovie di questo tipo in tutta Italia. Così, dopo alcuni mesi, tornai anche con le mie foto della Circumvesuviana intorno a Napoli, della Ferrovia Centrale Umbra, quella della Valvenosta in Trentino e creammo il servizio intitolato "Andamento lento". Paradossalmente è molto difficile lavorare per NGI se lavori molto all'estero perché loro giustamente ripubblicano i servizi del magazine americano, vero e proprio punto di forza della testata. Si capisce dunque che quando si tratta di pubblicare un servizio, la priorità andrà sempre a quello eventualmente già prodotto dalla casa madre. Devo dire che anche quella è stata per me un'enorme soddisfazione, considerando che come fotografo mi sono formato proprio guardando e leggendo la rivista americana e ripromettendomi un giorno di riuscire a fare fotografie come quelle che vedevo su quelle pagine.

od: Visto che possiedi e usi una macchina come la 5D Mark II saprai benissimo che oggi rappresenta l'inizio di una nuova frontiera per i fotografi, quella del video HD.

AF: Sì, ho visto delle cose magnifiche: io non ho ancora realizzato nulla e mi sto solo avvicinando alla ripresa in movimento ma devo essere sincero, avendo iniziato con la pellicola sento che ciò che mi interessa ancora di più è proprio la foto al punto che, se sto girando qualcosa in video ma la scena che si profila mi appassiona molto, passo in modalità foto e comincio a scattare. Capisco però che lo strumento permetta di arrivare a livelli di ripresa di una qualità elevatissima al punto che, quest'anno, World Press Photo ha istituito un premio anche per la sezione multimedia dove, tra l'altro, c'è un italiano in finale, Stefano De Luigi, che sta facendo dei lavori davvero belli.

(C) Andrea Frazzetta

od: Tornando al tuo "mondo", raccontaci la tua Africa.

AF: Dopo esserci stato tante volte ho cercato e cerco di fuggire un po' dalla tipica iconografia di quei Paesi, con i villaggi poveri e i bambini dalla pancia gonfia. Così ho realizzato i servizi sul villaggio dove abita la nonna di Obama, oppure, in occasione dei mondiali di calcio, uno sulle maglie che usano le squadre locali. Ma quello che mi ha più coinvolto è stato un progetto che voleva raccontare la povertà in Africa e che ho realizzato in Burundi, proprio perché in quell'anno, 2008, era risultato essere il Paese più povero del mondo. Mi venne da pensare al significato di povertà e di ricchezza che, nel nostro mondo, spesso viene identificato con gli oggetti che possediamo. Così ho chiesto alla gente del posto di poterla fotografare con ciò che possedevano, con l'oggetto che aveva per loro un particolare significato, e ne uscì un servizio splendido. Parlando con queste persone recuperammo anche tutte le informazioni e le storie che vennero riportate nell'articolo. Ad esempio c'era una donna che si era presentata con una tanica: ci disse che quello era l'oggetto che le permetteva ogni mattina di andare a prendere l'acqua camminando per quattro ore ma, visto che faceva quel percorso con la sua migliore amica, era per lei il momento più bello della giornata: storie come quella ti raccontano tutto di una vita e ti cambiano anche il modo in cui tu, occidentale, ti poni davanti alla stessa; ma soprattutto, dal punto di vista del reportage, ti offre l'occasione di vedere un'Africa diversa, con un approccio differente che ti spinge a soffermarti sulla foto e a leggere l'articolo per saperne di più. A questo punto sai di aver fatto davvero bene il tuo lavoro.

od: E ora quali progetti hai in cantiere per il prossimo futuro?

AF: Adesso che ho finito questo grosso lavoro per il New York Times voglio starmene un po' tranquillo, anche se ho sempre qualche lavoro da fare per L'Espresso e Sette oltre a un lavoro per Wired. Ho in progetto un lavoro in Sud America per settembre che mi porterà in Perù e Costa Rica dove andrò con un amico giornalista a raccontare il problema del petrolio nella foresta amazzonica, un servizio che realizzeremo per Vanity Fair ma che ci piacerebbe anche trasformare in una mostra, anche per dare una vita più lunga al servizio stesso.

Tutte le foto che corredano il servizio sono di Andrea Frazzetta - www.andreafrazzetta.com

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