“Sono nata per salire la scala della rispettabilità borghese e da allora ho cercato di arrampicarmi verso il basso, il più rapidamente possibile”. Diane Arbus ha scritto molte frasi che poi sono diventate celebri, però nessuna più di questa riassume meglio la sua essenza.
Nata da una ricca famiglia di origini ebraiche, ci mise un po’ per trovare la sua strada nel mondo, ma alla fine ci riuscì e le sue foto oggi sono famose e fanno di lei una delle più grandi fotografe del secolo scorso. In un primo momento i suoi scatti furono a dir poco molto chiacchierati, da alcuni ben pensanti vennero addirittura criticati e le attribuirono la fama di “angelo nero della fotografia randagia”.
In realtà era solo avanti e subì ciò che spesso chi riesce ad essere un passo più in là rispetto ai tempi subisce: venne criticata e osteggiata da tutti quelli che non solo non erano ancora avanti, ma vivevano guardando indietro.
Lei comunque tirò dritto e continuò a scattare come voleva e chi voleva, incurante della moralità benpensante della sua epoca. Sulla sua vita e sui suoi scatti sono stati scritti fiumi di parole e forse sarebbe giunto il momento che si smettesse di scrivere e si lasciassero parlare le sue opere.
Un bel tentativo è stato fatto ad Amsterdam tra la fine dello scorso anno e gli inizi di questo: il Foam le ha infatti dedicato una bellissima retrospettiva monografica.
Chi ha avuto la fortuna di vedere la mostra ne è sostanzialmente uscito appagato: oltre ad un vasto corpus di opere (che spaziavano dai primi esordi di scatti che erano rimasti sostanzialmente inediti, ai grandi soggetti che hanno fatto della Arbus la Arbus, ossia i ritratti degli emarginati, fino ad arrivare alle foto della comunità intellettuale americana tra la fine degli anni ’50 e gli inizi dei ’60, chiudendo poi con gli ultimi lavori, fra tutti Helene Weigel, la moglie di Bertold Brecht, fotografata nel 1971 a Berlino Est), si poteva “entrare” anche nell’universo più privato della fotografa americana grazie ad una ricostruzione del suo studio di New York e alla visione dei diari privati nonché di tutti i suoi apparecchi fotografici.
Nel caso di una fotografa come la Arbus, presentare anche la sfera privata è sicuramente un modo intelligente di allestire una mostra, perché in poche altre artiste della fotografia il mondo privato e l’universo creativo sono così indissolubilmente legati.
Infatti il suo modo di fotografare e i soggetti da lei scelti derivano direttamente dalla sua personalissima maniera di vedere il mondo e di vivere la vita.
Era nata in un ambiente privilegiato, era sposata ad un fotografo che si occupava principalmente di moda il cui lavoro gravitava intorno all’alta società, ma quello non era il suo vero ambiente, non era il mondo che le interessava e in cui si sentiva viva e quindi lo lasciò, così come lasciò il marito. E da quel momento in poi emerse la nuova Diane Arbus, quella vera, che ormai tutti conosciamo grazie agli scatti che nacquero da quello strappo con uno stile di vita e un modo di lavorare che non le erano mai appartenuti.
L’esposizione di Amsterdam ha saputo sottolineare abilmente questa parabola artistica proprio mettendo in mostra gli effetti personali, gli scritti, i libri, i ritagli di giornale, che sono stati una sorta di guida a capire e comprendere meglio le foto esposte e in generale tutto il lavoro artistico della fotografa.
Perché dico che in poche fotografe come nella Arbus sfera privata e universo creativo coincidono? Perché le sue foto lo dimostrano: i personaggi che scelse di ritrarre e che venivano definiti emarginati, stravaganti, vulnerabili, non sono altro che il ritratto della sua stessa stravaganza e della sua stessa vulnerabilità.
Per capire il suo lavoro occorre indagare il suo modo di vivere la vita e di porsi nel mondo, un modo di vivere ai margini per scelta o forse per destino, un modo che le ha permesso di guardare con occhi nuovi a persone che prima di allora venivano fotografate come fenomeni da circo e a cui lei invece, con i suoi scatti, ha dato dignità, ed è riuscita a farlo perché lei stessa si sentiva ai margini e in quei margini ci stava bene, tra alti e bassi di umore.
Ad un primo sguardo i suoi soggetti più bizzarri ci costringono ad una serie di reazioni. Prima rimaniamo quasi ipnotizzati, poi cerchiamo di spiegarci il perché del nostro straniamento e alla fine ci rendiamo conto che lei, forse più di tutti, ci spinge a fare i conti con la nostra naturale inclinazione a fissare lo sguardo senza mai riuscire a distoglierlo dinnanzi a ciò che ci appare diverso da noi e dai canoni estetici a cui siamo abituati.
Walker Evans ha affermato che “il suo tratto distintivo sta nel suo occhio, che è spesso un occhio pronto a cogliere l’elemento grottesco e triviale; un occhio addestrato esclusivamente a questo allo scopo di lasciarci faccia a faccia con le nostre paure”.
Diane Arbus per tutto il corso della sua esistenza è stata faccia a faccia con le sue paure e una di queste un giorno purtroppo ebbe il sopravvento su di lei: si suicidò il 26 luglio del 1971, ma questa è un’altra storia.
(data di pubblicazione: luglio 2013)