L'Armonia Nascosta
Che fine ha fatto Luigi Ghirri?
Giorgio Di Maio
L'opera del fotografo emiliano è un giardino fertile dal quale, oggi più che mai, occorre attingere.
Scrivere sul come dovrebbe essere la fotografia e su quale uso se ne dovrebbe fare per contribuire a un continuo, progressivo miglioramento morale della società, sarebbe una operazione del tutto azzardata, oltre che inutile.
L’Armonia nascosta parte dai presupposti dell’irraggiungibilità della Verità e dell’accettazione delle diversità, che semmai devono convivere in un quadro armonico senza giudizio degli uni verso gli altri.
Da sempre una delle principali querelle che ha impegnato il dibattito sulla fotografia è se essa debba occuparsi del bello o anche del brutto. E se la diffusione di immagini violente contribuisce alla nascita di nuove violenze oppure se sia in grado di generare un risveglio delle coscienze, che si adopereranno di conseguenza per l’eliminazione delle cause di quelle violenze.
Poco servirebbe citare tutti gli illustri fotografi, gli storici, gli analisti che si sono schierati da una parte, tutti quegli altri che l’hanno pensata in maniera diametralmente opposta.
Il problema sorge semmai quando c’è una visione che inizia a predominare sulle altre, perché è allora che nasce l’accademia, ovvero un potere che si fa portatore di un metodo che da un punto di vista teorico viene considerato perfetto e pertanto immutabile. Le accademie sono chiuse alle innovazioni e agevolano le strade del successo a coloro che si attengono ai canoni estetici conformi ai valori ufficiali.
Con umiltà si è consapevoli di non avere la conoscenza per definire i contorni del panorama della fotografia italiana tuttavia, anche attraverso colloqui con persone molto più addentro nell’ambiente fotografico, mi accade sovente di raccogliere malumori perchè molto poco di nuovo vi si muove ormai da anni. Questo è un po’ un limite in generale della cultura italiana e non solo. Come se si fosse arrivati a una soglia massima di conoscenza oltre la quale ogni cosa sarebbe solo pretestuosa se non frutto di smoderata presunzione.
Si è già scritto nel precedente articolo “In cammino” perché si è del tutto contrari a una simile visione, quando invece sarebbe auspicabile per il progresso dell’umanità che ciascun maestro si adoperi affinchè venga superato dal suo allievo. Altrimenti si determina una cristallizzazione della cultura sociale che finisce per definire progresso le sole nuove conoscenze ottenute in campo scientifico. E la crescita viene valutata soltanto in termini economici.
La cristallizzazione è destinata alla inevitabile rottura allorquando le energie innovative rimaste represse avranno raggiunto quel livello di forza in grado di determinarla. È già accaduto nel corso della storia, tanto che l’umanità sembra muoversi più per successive fratture che per ordinaria evoluzione.
Ritornando allora al panorama della fotografia italiana, la domanda secca è: “Perché Luigi Ghirri, ritenuto universalmente uno dei più grandi fotografi della storia della fotografia italiana, ha fatto così poco scuola?”
Quanti fotografi italiani si sono messi sul suo cammino e l’hanno proseguito? Si potrebbe obiettare che, ad esempio, anche Weston è stato ritenuto subito sorpassato perché, una volta fotografati trasformanodoli in astratti un cavolo e dei peperoni, ha reso il gioco talmente facile per cui il valore di chi oggi lo imitasse sarebbe quasi nullo. Ma questa è risposta accademica, formale.
Se invece, al di là delle sue poetiche immagini, andiamo a indagare il pensiero di Ghirri, ciò che era sotteso alla sua ricerca e che lo conduceva a indagare la realtà, capiremmo che la sua era «la strada della conoscenza per potere distinguere l’identità precisa dell’uomo, delle cose, della vita, dall’immagine dell’uomo, delle cose, della vita». (1)
Ghirri non fu un creatore sfrenato di immagini e anche se non poteva avvalersi degli attuali metodi di post-produzione, rifiutava comunque le allora già praticate e raffinate cure di stampa: «Ho sempre affidato sviluppo e stampa a laboratori standard… Il gesto estetico e formale è già compreso in quello di fotografare…e il problema della forma fotografica, con gli inevitabili rimandi alle cure esasperate in sede di stampa, viraggi, mascherature per ottenere un risultato ulteriormente “oltre” non mi ha mai affascinato». (2)
Ghirri fotografava a colori perché, scriveva: «il mondo reale non è in bianco e nero e perchè sono state inventate le pellicole e le carte per le fotografie a colori». (2)
Infine - martedì 30 ottobre 1984 dopo avere riflettuto a lungo nei giorni precedenti (3), per Les Cahiers de la Photographie, Ghirri definì «La fotografia….un formidabile linguaggio per potere incrementare questo desiderio di infinito che è in ognuno di noi».
Non sono un grande frequentatore di mostre fotografiche, ribadisco la mia mancanza di una profonda conoscenza del panorama della fotografia italiana oggi, però ho come l’impressione che Luigi Ghirri sia stato messo nei musei, che non si attinga come si dovrebbe dal fertile giardino della sua opera, del suo lavoro, del suo essere.
Credo, forse sbagliando ma non rifiutando la provocazione, che la fotografia italiana abbia fatto più proprie le istanze quali quelle di Diane Arbus e altri fotografi come lei: siano animate da una sostanziale preferenza dell’oscuro piuttosto che dal tentativo di «ridare vita mediante la luce al mondo inanimato».
Che si sia ceduto un po’ troppo alle lusinghe della post-produzione la quale viene sovente praticata ad una fotografia già artefatta in sé, quale registrazione di una scenografia appositamente costruita in funzione dello scatto fotografico, non della realtà nel suo divenire senza fine.
Le scuole di fotografia prediligono l’uso penetrante, a volte violento delle ombre. Sono troppo spesso conformate a una visione gelida della natura; problematica, sconfitta e discinta dell’umanità.
Il danno si provoca quando una ricerca diventa un gusto predominante, quando si sviluppa il potere di una accademia che insegna quell’unico e a riconoscere in quell’unico il valore primario di arte. O di funzione sociale. È l'accademia che si impossessa della cultura. Crea circoli chiusi nei quali ci si autocelebra. Così facendo si diffonde una terribile miscela di 'non sentito', si riempiono i luoghi dell’arte di ripetuto, usuale ‘vuoto’, che privano l’arte di una delle sue principali funzioni: quella di ridestare le coscienze, di scuoterci dal torpore «in cui in cui le mode ed il con-testo socio/politico ci appiattiscono… in una parola, l’importante è che l’arte ci ri-conduca alla persona che noi siamo, alla nostra integrità gnoseologica e pratica». (4)
Si riconosce che il quadro della fotografia italiana è purtroppo congenito a una diffusa tendenza dell’arte figurativa europea, penso parzialmente americana. Ma se è vero che viviamo in un clima storico di disillusione e non nell’epoca dell’ottimismo modernista dei primi del ‘900 è anche vero che è più facile farsi cantori della rassegnazione che ricercatori di nuove indicazioni per il benessere sociale.
Entrare nell’accademia, trarne profitto, costituisce un atto di irresponsabilità o, se si vuole, significa assumersi gravissime responsabilità nei confronti della società. Che dalle tenebre, oggi più che mai, avrebbe bisogno di riconoscere qualche possibile via d’uscita. Degli insegnamenti, dei valori, dei motivi, o delle esistenze nel nostro reale, per le quali valga la pena di non ammazzare, di non stuprare, di non rubare.
Bibliografia:
- Luigi Ghirri, Kodacrome, Punto e Virgola, Modena 1978, pp 11-12
- Luigi Ghirri, Fotografie del periodo iniziale, Niente di antico sotto il sole, SEI, 1997
- Premessa di Edizione di Paolo Costantini a Niente di antico sotto il sole, SEI, 1997
- Rosaria Di Donato, Il senso dell’arte Il compito dell’artista, La dimora del tempo sospeso, on-line.
Data di pubblicazione: ottobre 2017
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