Fotografia vernacolare | Osservatorio DigitaleCon l’espressione fotografia vernacolare si intende l’applicazione della dimensione natia, privata, paesana o familiare, alla ripresa di un contesto. La fotografia vernacolare, o fotografia locale, è quindi l’insieme delle immagini scattate da persone comuni (non professioniste) alle situazioni della vita quotidiana, per uso personale. L’obiettivo è quello di catturare un ricordo o un momento introspettivo e particolare.” Questo è quanto si legge sul sito dell’Istituto Italiano di Fotografia alla voce “fotografia vernacolare”. Sì, ma… da cosa partiamo? Dall’etimologia della parola?

Se partiamo da lì, allora risaliamo al latino “vernaculus”, che indica indigeno, domestico, tipico del paese, del proprio paese. Pensiamo ad esempio alla lingua vernacolare, che si riferisce alla lingua parlata esclusivamente all’interno di una comunità, solitamente ristretta.

Se però ci addentriamo di più, se cominciamo a scavare con maggior attenzione, ci renderemo ben presto conto che in realtà nessun dizionario potrà mai venirci davvero in aiuto per scandagliare il significato profondo del concetto di “fotografia vernacolare”. Un concetto che a quanto pare è aperto a diverse possibilità se le vengono dedicate addirittura conferenze nelle università: ho letto pochi giorni fa un estratto di un atto di un convegno organizzato lo scorso anno dal Dipartimento di Sociologia dell’Università di Ginevra, che si occupava appunto della fotografia vernacolare come fenomeno sociale non facilmente schematizzabile. Nel convegno in questione, la sociologa Heloise Schiber afferma che da quando la fotografia vernacolare ha cominciato ad imporsi come oggetto di un discorso istituzionale e ad occupare i muri di musei, fiere fotografiche e gallerie, questo tipo di fotografia è diventato un fenomeno e come tale ha cominciato a imporre delle domande e in alcuni casi anche ad irritare alcuni addetti ai lavori.

Fotografia vernacolare | Osservatorio DigitaleAutenticamente naif, oppure semplicemente funzionale e banale, in ogni caso comune e senza alcuna pretesa artistica: è a questo genere di definizione che fanno sovente riferimento coloro che cercano di spiegare cosa sia la fotografia vernacolare.

In realtà però, la questione non è così semplice; non lo è da quando questo genere ha abbandonato gli album di famiglia e i cassetti delle nostre case e ha cominciato a divenire oggetto di collezioni, anche museali. Per la Schiber prima di tutto è importante inscrivere in una prospettiva storica il recupero artistico della fotografia vernacolare; per farlo occorre interrogarsi sullo statuto dell’amatore in ambito fotografico ed esaminare il percorso evolutivo della sua produzione.

Sia come sia, secondo i sociologi, quello della fotografia vernacolare è ormai un fenomeno sociale di massa, un vero movimento culturale, e come tale va analizzato e non può più essere ridotto a semplice hobbistica.

In realtà, in un eccesso di scetticismo, si potrebbe dire che il concetto di fotografia vernacolare è stato inventato da alcuni intellettuali per trasformare qualcosa di semplice in qualcosa di complicato. Questo partendo ovviamente dal presupposto che ciò che è “semplice” non è automaticamente “facile”.

Io stessa non saprei dare una definizione precisa di cosa sia la fotografia vernacolare, salvo dire che mi ha sempre molto affascinata e la pratico, sia collezionando foto appartenute ad estranei che acquisto nei mercatini, sia facendola io personalmente: sono infatti fotografa, ma non ho la pretesa di pensare che tutte le foto che scatto siano automaticamente artistiche o abbiano una qualche utilità lavorativa; alcune sono vernacolari, laddove per vernacolare si intende di contenuto familiare o ancora personale, in un certo senso “diaristico”.

E probabilmente molti di voi sono fotografi vernacolari senza nemmeno saperlo: alzi la mano chi non ha mai scattato fotografie di feste di famiglia, di matrimoni, di viaggi, di paesaggi, di oggetti, chi non si è mai fatto una foto-ritratto e via discorrendo.
In verità credo che questo tipo di fotografia non sia ancora stata studiata a fondo in tutte le sue sfaccettature, non dagli addetti ai lavori almeno, e questo perché non tutti sono concordi ad assegnarle un posto “accademico”.

Fotografia vernacolare | Osservatorio DigitaleNon è però di questo avviso Clément Chéroux, storico della fotografia e conservatore al Centre Pompidou di Parigi: nel 2013 ha infatti pubblicato il libro “Vernaculaires”, un saggio di storia della fotografia dedicato espressamente a questo genere.

Anche Chérous afferma che quella vernacolare è una fotografia applicata a ciò che è funzionale, che ha una qualche utilità; la famiglia ne è uno dei principali luoghi di produzione e di circolazione e dunque la si può definire anche una “fotografia domestica”. Però, questo studioso va oltre -ed è qui che il suo saggio si fa interessante- perché sostiene che la fotografia vernacolare si colloca soprattutto al di fuori di ciò che è stato giudicato degno d’interesse dagli studiosi, dai critici e anche dai cosiddetti intellettuali. Si colloca cioè al di fuori dello spazio di legittimazione culturale, ponendosi nella zona periferica rispetto a ciò che conta e pesa nella sfera artistica. E’ in un certo senso una creazione borderline e alcuni, ne sono certa, è proprio da questo suo status di marginalità che sono attratti. È questo suo essere “altro” dall’arte che affascina; un “altro” che però ha un suo valore creativo e un forte fascino attrattivo.

Questo fascino, questa attrazione, le fotografie vernacolari l’esercitano perché rientrano nella sfera della memoria collettiva. Guardando le foto di un estraneo durante il suo matrimonio, o mentre sorride felice alla festa di laurea, oppure osservando l’immagine di un soldato che si è fatto scattare la foto ricordo prima di partire per la trincea, o ancora, un bambino che gioca, noi, pur non conoscendo nessuno degli individui rappresentati, ci sentiamo in qualche modo coinvolti e il perché è molto semplice: la fotografia vernacolare mette in scena gli archetipi della nostra società e tocca il nostro inconscio collettivo e come tale appartiene a tutti. Senza contare che alcuni scatti “anonimi”, a volte sarebbero stati degni di interesse artistico e avrebbero a buon diritto potuto trovare posto in un museo, se solo chi ha scattato la foto avesse avuto gli agganci giusti. Di ciò, nel mondo anglofono - e a New York in particolare - se ne sono già resi conto… ma questa è un’altra storia.

Data di pubblicazione: marzo 2015
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