Piermarco MeniniAncora una volta torniamo a Venezia e di nuovo ci troviamo, al tempo stesso, all'Istituto Italiano di Fotografia di Milano perché questi sono i luoghi dove Piermarco Menini, fotografo e insegnante, ha cominciato la sua professione e ne ha affinato le tecniche e l'esperienza per portarlo a oggi a essere un grande ritrattista, soprattutto di personaggi del cinema, chiamato dalle maggiori testate nazionali e non, per ciò che riesce a trarre dai set di posa, cioè un'immagine di una persona che riesce a trasmettere se stessa più che la solita foto patinata della star del momento. Lo abbiamo incontrato per questa chiacchierata interessante nel mezzo di una sua tipica giornata di lavoro, nella quale si divide tra gli impegni di studio, di ripresa, di convegni vari e della preparazione delle lezioni che tiene all'IIF ormai da oltre vent'anni.

osservatoriodigitale: Prima di tutto grazie per il tempo che ci concede perché sappiamo che la sua giornata è decisamente "piena" di impegni.

Piermarco Menini: È vero, ma cerco sempre di trovare il tempo per tutto quello che posso, sin dai tempi in cui la fotografia era quasi solo un sogno.

od: Interessante...

PM: Sì, ho cominciato a intressarmi alla fotografia direi in età decisamente precoce visto che a dodici anni già scattavo e sviluppavo da solo le mie fotografie. Sono nato a Venezia ed è li che è iniziato tutto, grazie anche al fascino che esercitava su di me un cugino di qualche anno più grande che frequentava la scuola d'arte e aveva modo di entrare in contatto con molti soggetti interessanti, molti dei quali assumevano spesso la forma di ragazze bellissime... Ero giovanissimo e rimasi affascinato da quel mondo con il quale, allora, mi era possibile entrare in contatto solo attraverso la fotografia; quello fu un modo per cominciare a realizzare concretamente quanto fino ad allora esisteva solo nella mia mente, nella mia fantasia. L'interessarmi all'aspetto di una persona con l'intenzione di riuscire a descrivere con un'immagine qualcosa di più di un mero ritratto è stata la base sulla quale ho costruito la mia intera carriera professionale.

©p.menini_kknightley

od: Quindi la formazione è avvenuta a Venezia, prima ancora che a Milano?

PM: Non so se possiamo parlare di vera e propria formazione, in termini tradizionali, per quanto riguarda la fotografia. Ai tempi il mio percorso formativo è stato comune a quello di moltissimi ragazzi italiani: scuole dell'obbligo poi il liceo scientifico e in seguito, per quello che offriva a livello di programma didattico quel tipo di corso di laurea, scelsi il DAMS di Bologna. Erano anni di grande concitazione e fermento a livello di lavoro e sperimentazione fotografica, così quest'ultima attività ebbe il sopravvento sugli studi universitari che, a un certo punto, si sono interrotti. Oggi guardo con un po' di amarezza al fatto di aver lasciato gli studi ma, in quegli anni, coincise proprio con l'inizio della mia professione di fotografo. La mia passione da fotoamatore si andava trasformando nella professione: da autodidatta anche grazie ai molti stimoli esterni che mi colpivano quotidianamente. dedicai molto tempo all'auto-formazione, prima con argomenti prettamente tecnici passando poi a studiare il lavoro e le opere dei grandi maestri. Non dico che allora non esistessero scuole di fotografia già affermate ma erano a Milano, come l'Umanitaria poi divenuta la Bauer. In quegli anni la mia voglia di fotografare e di pubblicare i miei lavori non lasciavano spazio ad altro: fu un'immersione totale. Ricordo che nell'estate del '79 a Venezia ci fu un evento di portata mondiale che riguardava la fotografia al quale parteciparono i più grandi nomi a livello planetario e ci fu una marea di workshop ai quali partecipai uscendo profondamente arricchito da quell'esperienza; anche adesso la fotografia è un mezzo, uno strumento utilizzato in maniera massiva, anche qui in Italia, ma credo che rispetto ad allora ci sia meno fermento rispetto all'argomento in sé, e questo a livello globale.

takeshi_kitano_©p.menini

od: Come inizio non c'è male direi, ma poi com'è continuata la storia?

PM: Continuò che insieme ad altri amici-colleghi impiantammo uno studio prima a Venezia poi a Mestre, dove sicuramente era più facile lavorare, anche solo per una questione logistica; i clienti difficilmente accettavano di venire in città, con tutte le limitazioni e i disagi che comportava muoversi in un ambito urbano come quello di Venezia, mentre era molto più semplice raggiungerci a Mestre. Ho iniziaro facendo lavori per l'advertising, la pubblicità come si chiamava allora, ma anche lavori d'arte al punto che cominciai a lavorare per il museo Guggenheim fino a diventarne il fotografo ufficiale. Questo fu un lavoro che, oltre ad essere prestigioso, fu davvero molto interessante e mi ha insegnato molto, e del quale vado molto orgoglioso. A un certo punto però mi sembrava che il mio mondo mi andasse stretto, volevo espandere i miei orizzonti professionali e puntai su Milano perché volevo entrare nel mondo della moda. Stiamo parlando della fine del 1991 quando mi spostai nel capoluogo lombardo dove, quasi per caso, cominciai a lavorare con i personaggi del cinema, quello che in seguito sarebbe diventato il punto di forza della mia professione. Furono anni di transizione fatti di sacrifici ma anche di grandi entusiasmi e soddisfazioni. Per circa tre anni ancora feci la spola con Venezia dove avevo ancora alcuni clienti da seguire fino a quando, nel '94, decisi di chiudere definitivamente lo studio e di insediarmi in pianta stabile a Milano.

Il lavoro di fotografo delle "star" era ricco di eventi e di occasioni a quel tempo poiché, nonostante il mondo del cinema tradizionalmente è a Roma, a Milano si svolgevano molte prime cinematografiche e, soprattutto, tanta promozione. Avevo l'opportunità di incontrare molti personaggi e di lavorare per testate importanti oltre a partecipare, è ovvio, a tutti i Festival in programma nella stagione, come Cannes o Venezia.

al_pacino_©p.meniniod: Lavorava come free lance o con un'agenzia?

PM: Dal '92 a tutto il '95 ho lavorato con una grande agenzia, Photomovie, che mi ha aiutato molto a entrare in contatto con il mondo del cinema e, soprattutto, a trovare testate interessate ai miei lavori. In seguito ho deciso che fosse meglio proseguire da solo, come free lance, in totale autonomia, così da poter scegliere in maniera indipendente quali lavori e progetti seguire e a quali testate destinarli. Lavoravo prevalentemente con settimanali e mensili come Ciak, Sette, Amica, Max, King e Moda giusto per citarne alcuni, perché la "fame" di immagini era già forte allora e la figura del fotografo di redazione stava già scomparendo. Sotto quel punto di vista oggi il grosso del lavoro  con i giornali lo svolgono le grandi agenzie come Getty, Corbis e poche altre. Un altro grande vantaggio di lavorare "in proprio" è quello di non subire alcuna pressione, da parte dell'agenzia o del cliente, che ti condizionano nelle scelte che fai proprio a partire da quando scatti fino al momento dell'editing.

od: E come si arriva all'insegnamento?

PM: Sono sempre stato molto vicino al mondo dell'insegnamento della fotografia, sin dai primi tempi, quando tenevo dei corsi sulla camera oscura per conto di un Istituto tecnico di Venezia. Insegnare è la parte "hobbistica" della mia professione: non perché la faccia con leggerezza, tutt'altro, ma perché è la parte della mia vita professionale che mi permette di restare in contatto diretto con i giovani e la visione giovanile e attuale del mondo, della vita. L'insegnamento per me è sempre qualcosa di piacevole anche se, a volte, mi capita di tenere le lezioni dopo giornate di lavoro pesantissime, in studio o dopo sessioni all'aperto. Quest'anno ho tagliato il traguardo dei vent'anni di collaborazione con l'Istituto Italiano di Fotografia con il quale ho cominciato a collaborare quando era aperto da nemmeno un anno, nel lontano 1992.

La fotografia nel frattempo è passata attraverso molte fasi e molti cambiamenti stilistici e tecnologici, alcuni dei quali si fatica ad accettarli. Forse serviranno altri dieci anni prima che si capisca a fondo e si faccia chiarezza sull'utilizzo della fotografia digitale. Oggi la stampa sembra non interessare quasi più a nessuno ma io credo che si arriverà al punto in cui si avrà di nuovo un'impennata delle foto stampate, quando quel supporto tornerà ma solo con una qualità elevatissima.

Oggi si dà valore alla visibilità immediata di un'immagine perché è troppo facile scattare e pubblicare una propria foto sulla rete. Il risultato però è che l'offerta è ormai troppa, mettendo in crisi anche il mercato degli acquirenti, siano essi i photo editor dei giornali, i collezionisti o i semplici amanti di quest'arte. Un tempo questo non accadeva, c'era una sorta di selezione naturale, per arrivare a pubblicare una propria immagine si doveva passare attraverso dei filtri rappresentati dalle agenzie, dalle redazioni, da qualcuno insomma che decideva chi e che cosa veniva pubblicato o no. Forse il processo era meno democratico se vogliamo ma il risultato finale finiva per soddisfare tutti.

Tornando all'insegnamento ci sono dei paradigmi ai quali mi piace attenermi. Credo che l'immagine sia presente nella mente del fotografo ancora prima che questa venga scattata proprio per la capacità del professionista di previsualizzare il risultato finale di quello che sta per riprendere. È una tecnica e una disciplina alla quale ci si deve abituare: lo dico perché ritengo che uno dei grandi problemi dei fotografi di oggi sia rappresentato dallo schermo sul retro delle fotocamere digitali. Mi spiego meglio. Non voglio dire che non rappresenti un vero e proprio balzo in avanti a livello di tecnologia per quanto riguarda la verifica di quello che si è ripreso ma vizia il comportamento del fotografo stesso portandolo a pensare "scatto, controllo, se non va bene scatto di nuovo" mentre, a mio avviso, l'immagine andrebbe creata e visualizzata già prima, nella propria mente, senza l'ausilio del display.

A questo proposito, ai miei corsi, faccio mettere del nastro adesivo nero sullo schermo proprio per quel motivo; insegnando ritratto sono costretto a fare così: si guarda lo schermo all'inizio, come avveniva con le Polaroid, e alla fine di una serie di scatti. Quando si fotografa una persona è necessario entrare in rapporto con la stessa mentre scattare e fermarsi a guardare il monitor è qualcosa che interrompe questo rapporto. Secondo me questo metodo aiuta chi apprende, perché capisce dove eventualmente ha sbagliato (e quindi impara), ma anche chi insegna perché così capisce se il messaggio che sta passando arriva a chi ascolta oppure no. Inoltre sviluppa la capacità molto importante per un professionista di sapere subito, di rendersi conto mentre si scatta, se l'immagine che si aveva in mente c'è già, è già stata realizzata, senza nemmeno dover guardare le foto sul display. È ovvio che comunque col tempo si affinano le proprie capacità tecniche che portano anche alla definizione della propria identià professionale.

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od: Parliamo un po' dei ritratti che l'hanno resa famoso e quelli a cui sta lavorando.

PM: In origine ho scoperto il ritratto quasi per caso come dicevo prima. Mi ero trasferito a Milano perché volevo lavorare nella moda, poi ho iniziato a conoscere il ritratto proprio scattando, una scelta che mi ha portato ad abbandonare tutto quello che facevo prima e anche a scegliere strumenti di ripresa diversi dal solito. r_tuney_©p.meniniAllora sono passato a un formato più grande, il 6x7 con una Pentax 67, una macchina fotografica che mi ricordava le reflex 35 millimetri ma che mi offriva molto di più. Lavorare con le persone mi ha aiutato molto a vincere la mia personale timidezza, a rompere gli indugi e iniziare quel lavoro di costruzione di rapporto con il soggetto di cui parlavo prima. Devo ricordare che non sempre i ritratti posati vengono realizzati in studio, dove c'è tutto sotto controllo e c'è molto più tempo, ma ti capita di avere magari solo mezz'ora nella quale devi portare a casa il lavoro. E allora non c'è tempo da perdere, devi essere capace di instaurare un feeling con il tuo personaggio nel più breve tempo possibile al fine di riuscire a riprendere la sua parte più vera, non il personaggio ma la persona, che è l'aspetto che più mi interessa.

Negli ultimi tre anni ho cominciato a raccogliere anche delle immagini di ritratti "non posati", cioè di immagini colte al volo, in situazioni limite o quasi d'emergenza, nelle quali però l'anima del personaggio affiora completamente e l'immagine è davvero speciale. Il progetto, che ho chiamato Unexpected e che vivrà in un libro e in una mostra futura, è quasi una sorta di "ribellione" che si contrappone al tipico ritratto posato; sono fotografie che colgono momenti che io chiamo di verità, situazioni non ufficiali che si discostano completamente da quelle del tipo "red carpet". Da sempre nel mio stile di ritratto c'è la ricerca di qualcosa in più anche nei ritratti tradizionali, proprio perché mi piace riprendere i soggetti un po' rilassati, non troppo in posa.

od: Concludendo, giusto per far contenti i nostri lettori (e anche noi...), quali macchine utilizza oggi?

PM: Ho due corpi Nikon D700 e D3S.

Piermarco Menini ha tenuto mostre di ritratti a Milano, Savignano e Venezia. Altre fotografie e informazioni si possono trovare sul sito www.piermarcomenini.com
Tutte le fotografie presenti nell'articolo e la foto di copertina sono ©Piermarco Menini