Enrico Bossan www.osservatoriodigitale.itMi trovo a Padova, città affascinante del Nord Est italiano, terra del Santo venerato da tutto il mondo, quel Sant'Antonio che aiuta tutti a ritrovare qualcosa che si è perduto. Tra le chiacchiere con un grande amico musicista che vive qui e i commenti su come la città riesca a cambiare e restare immobile al tempo stesso (mi passa davanti un tram con la pubblicità del centenario dell'Italia unita ma, dico tre me e me, è un evento di due anni fa ormai…) iniziamo a parlare di un amico comune che, guarda caso, è un fotografo, un grande fotografo italiano: Enrico Bossan. L'uomo è vivace nei modi e nella parlata, non si risparmia, racconta la voglia che ci ha sempre messo e ci mette tuttora in quello che fa, nel cogliere momenti attraverso le sue fotografie che ci riportano pezzi di mondo che forse non c'è più, con un taglio di chi non è lì per scattare la cartolina da mostrare a casa ma per riprendere momenti di vita che sembra di esserci, come se fossimo noi a vederli con i nostri occhi. L'intervista è stata realizzata "a puntate", al telefono, in auto, perché oggi Bossan è un fotografo in vista, impegnato, anche nel senso di indaffarato del termine, che si alterna tra molti lavori, progetti  e viaggi che, talvolta, portano alla realizzazione di mostre e pubblicazioni di altissimo livello.

osservatoriodigitale: Raccontaci un po' gli inizi della tua carriera di fotografo.

Enrico Bossan: Inizialmente, finito il liceo, non pensavo che avrei un giorno intrapreso questa professione. Insieme al gruppo di amici più intimi mi ero iscritto alla facoltà di Ingegneria, senza troppa convinzione a dire il vero, perché non è che mi vedessi molto come ingegnere, una vita tutta quadrata con il righello in mano, anche a livello mentale spesso… Nonostante tutto sono rimasto iscritto fino al terzo anno, sostenendo anche gli esami di analisi (chi li ha sostenuti all'università sa che non sono proprio una passeggiata, ndr) ma poi ho deciso di lasciare e andare a fare il servizio di leva: sentivo che al Paolotti (sede dell'istituto di Analisi all'università di Padova, ndr) c'era qualcosa che non andava, mi sentivo troppo diverso da quel tipo di "regolarità".

èAfrica ©Enrico Bossan

od: A quel punto è intervenuta la folgorazione per la fotografia?

E.B.: Non proprio: fu durante le licenze dal servizio militare e poi anche durante le libere uscite che cominciai a fotografare i concerti pubblicando anche qualche scatto sui periodici e quotidiani locali. Fu a Venezia che successe qualcosa davvero. Nel 1979 si tenne una Biennale interamente dedicata alla fotografia, il titolo della mostra era proprio Fotografia 79, che consacrò questo tipo di immagini al mondo dell'arte. Andai al Festival e rimasi molto colpito, compresi subito l'esistenza di un mondo a me totalmente sconosciuto, un mondo che viveva di immagini allora proposte solo attraverso i maggiori periodici italiani e internazionali, come Epoca e Life per intenderci. Vivendo a Padova vedevo il mondo come qualcosa di lontano: fu proprio da quell'energia che vibrava in quelle immagini, dall'aspetto che assumeva attraverso le fotografie che mi venne la voglia e la determinazione di provare a seguire quella carriera. Ci fu poco dopo un workshop a cui mi iscrissi mandando alcune mie fotografie che vennero notate incoraggiandomi a continuare. È proprio tra il '79 e l'81 che nascono le basi di Enrico Bossan fotografo.

Decisi allora di partire per visitare il Festival di Arles, per vedere e capire il mondo della fotografia e dei fotografi: avevo cominciato a lavorare in un'agenzia, uno studio di pubblicità come si diceva allora, e tutti i miei guadagni li investivo sia in formazione personale, come i viaggi e i concorsi appunto, e in attrezzatura fotografica. Era il 1985 e in quell'anno andai negli Stati Uniti per la prima volta. Fu in quel momento che iniziò la mia carriera professionistica: Photo pubblicò una mia foto che mi diede visibilità e, di lì a poco, mi portò a collaborare con il settimanale Epoca.

Latino ©Enrico Bossan

od: Bossan non è uno che sta con le mani in mano. Già nel 1987 partecipa e vince il Premio Kodak per la fotografia professionale così da vedere le sue immagini esposte ai principali festival mondiali come la Biennale di fotografia di Torino, lo Houston PhotoFest e proprio ad Arles, manifestazione che lui considerava come un punto di arrivo per un fotografo. Sono solo due anni che lavora come professionista ma i risultati e i riconoscimenti non si fanno attendere molto. In quel periodo organizza anche delle mostre a Padova, dedicate alla fotografia di Koudelka e di Erwitt e un'altra, A est di Magnum, proprio per la notissima agenzia fotografica Magnum.

Insomma, Enrico, non ti piace star fermo… Parlaci dei tuoi reportage, come quello sulla Pechino - Parigi del 1989.

E.B.:  È stato fantastico, fu un lavoro credo irripetibile perché racconta, soprattutto, una Cina che non esiste più, quella fatta di strade bianche, di treni a vapore e di un popolo che si spostava in bicicletta, milioni di biciclette che oggi sono scomparse a favore delle auto. Sono partito alla volta di questo viaggio insieme a uno scrittore vero, Guy Mandey, perché volevo qualcuno davvero capace di raccontare a parole quello che io cercavo di descrivere con le immagini. L'evento era sponsorizzato da Fiat per commemorare l'impresa del principe Borbone e di Barzini sulla Itala del 1907 che stravinse il raid Pechino – Parigi. Accadde tutto per caso quando, al festival di Arles, incontrai una persona che lavorava in Fiat che mi parlò dell'iniziativa e mi chiese come la vedevo io da fotografo. Risposi sicuro che l'avrei impostata non tanto dal punto di vista del racconto dell'abilità dell'automobile di riuscire nell'impresa ma, piuttosto, su ciò che avremmo visto noi passeggeri, il mondo esterno visto dal finestrino. Questa considerazione piacque e mi valse l'incarico come fotografo.

Ci sono voluti quaranta giorni per attraversare la Cina sulle sue strade di allora, che erano per il settanta per cento in terra battuta, un paesaggio fantastico, qualcosa che non esiste più. Alla fine gli appunti di Mandey e le mie foto sono stati pubblicati in un libro per Fabbri.

A dire il vero già nell'86 avevo in programma di realizzare un progetto sull'America Latina che ho amato molto ma che non è mai stato pubblicato, anche se ho avuto l'onore di vederlo proiettato nel teatro Antico di Arles.

èAfrica ©Enrico Bossan

od: Quando sei entrato a far parte della prestigiosa agenzia Contrasto?

E.B.: Nel 1992 quando ho conosciuto e cominciato a lavorare con Roberto Koch in occasione della pubblicazione di Exit, un reportage sull'America dove si contrappongono, e si integrano, le mie immagini a colori con quelle in bianco e nero di Koch.

od: A vedere i tuoi lavori si nota una spiccata propensione per il sociale.

E.B.: Non ti nego che mi piace poter fare qualcosa per gli altri, mi sembra che sia insito nelle nostre maglie di italiani, un popolo che sa essere davvero generoso. Tuttavia la parola sociale oggi mi lascia un po' perplesso, forse per l'abuso che se ne fa. Per quanto mi riguarda già parecchio tempo fa, parliamo dei primi anni 90, mi occupai di un'inchiesta sulla sanità, anche in seguito a vicende familiari che mi coinvolsero a quel tempo, e che mi portò a conoscere il lavoro del CUAMM Medici con l'Africa, un'associazione ONG di Padova con la quale cominciai a collaborare prima regalando degli scatti, e poi occupandomi in prima persona di realizzare il progetto di comunicazione dell'organizzazione stessa. Fu così che, con Pietro Veronese, realizzammo il libro Un privilegio difficile al fine di far conoscere il lavoro del CUAMM e di raccogliere fondi per sostenerli.

Devo aprire una parentesi su alcune riflessioni che avevo fatto in passato a proposito del mio lavoro, di come stava andando la mia carriera di fotografo. Pensavo e temevo di essermi comportato in modo molto provinciale nell'aver scelto di restare a Padova, nel mio territorio d'origine, di non aver voluto lasciare l'Italia alla volta magari di New York dove avrei  avuto modo di conoscere un'altra realtà e dove il mio lavoro sarebbe stato sicuramente condizionato dall'ambiente. Invece quella scelta ha finito per darmi la possibilità di essere quello che sono oggi, un portavoce del mio territorio – l'esperienza con il CUAMM è significativa oltre che felice proprio perché sono entrato fortunosamente in contatto con un'ONG che aveva sede proprio nella mia città –  e direttore di Colors, il magazine di Fabrica. Mi sono impegnato proprio perché volevo costruire qualcosa qui, senza andare a cercare traguardi chissà dove.

Tornando al discorso iniziale, nel 2002 ho prodotto un reportage sulla sanità qui a Padova e un altro, è Africa, sulla quotidianità attraverso i gesti semplici delle popolazioni delle aree sub-sahariane. Proprio quest'anno ho organizzato il premio eAfrica Award che mi vedrà accompagnare una selezione di 3 fotografi e 2 videomaker proprio negli ospedali africani sempre a sostegno del lavoro dei volontari del CUAMM, che nel 2010 ha festeggiato i suoi 60 anni di presenza in Africa. Il sociale è davvero qualcosa di buono, di positivo ma non dev'essere fine a se stesso: non riesco più ad accettare il lavoro di quei fotografi che oggi, con la scusa di mostrare chissà quale piaga o malessere, se ne vanno in giro per il mondo per mostrare prima di tutto… se stessi.Forse è un discorso che andrebbe approfondito anche in altri settori della vita, ma vorrei che apparisse meno "io" in quel che vedo e leggo a favore di una maggiore condivisione di quelli che sono davvero beni comuni. Non credo più agli eroi, ai "salvatori della patria" ma al confronto tra le persone. Sono contrario da sempre all'individualismo sfrenato ed è proprio per questo che mi piace condividere, soprattutto quando si tratta di persone che sono legate ai valori del proprio territorio.

Io credo che se, nella vita o nel lavoro, agli inizi si ha avuto fortuna, sia nostro dovere rendere qualcosa, in modo laico intendo, al mondo, agli altri. Ecco perché mi piace lavorare con gli altri, con i giovani: ho creato un blog, E-Photoreview.com, per offrire un modo concreto di mostrare il loro lavoro. Ho anche avviato il programma di studio Masterclass in cui si impara la fotografia mettendosi a confronto con gli altri partecipanti: queste attività mi impegnano molto ma le faccio perché credo molto nell'importanza di insegnare agli altri quello che si sa, si conosce.

Latino ©Enrico Bossan

od: E per Fabrica che cosa fai esattamente?

E.B.: Inizialmente sono entrato con la carica di responsabile della fotografia, poi sono diventato il responsabile editoriale di Colors. Il mio compito è quello di costruire sempre una squadra nuova e formare nuovo art director. Per questo avevamo anche creato un premio chiamato FFF Award in collaborazione con Forma (il luogo della fotografia a Milano, ndr).

od: Adesso che progetti hai?

E.B.: Sempre tanti, ma uno che amo in particolare, dedicato al Museo del Carattere, in collaborazione con le Grafiche Antiga di Treviso. L'idea del progetto è quella di provare a recuperare la stampa tipografica in piombo, quella tradizionale. Mi piacerebbe realizzare qualcosa in modo da riuscire a mischiare la stampa tradizionale con la fotografia digitale. È un'idea per un laboratorio sperimentale che mi permetta, insieme a tutti coloro che parteciperanno al progetto, di provare a fare di nuovo qualcosa in prima persona, sporcandosi le mani.

od: Parliamo della tua attrezzatura...

E.B.: No, perché non c'è nulla da dire e perché sono contrario alle schematizzazioni, che molto spesso oggi il mercato propone a chi fotografa così come a chi si avvicina a ogni attività che preveda l'utilizzo di qualcosa di tecnologico. Nella mia professione ho utilizzato di tutto, soprattutto quando si lavorava in pellicola, dalle reflex Canon alle Leica fino ai banchi ottici. Credo che ci sia uno strumento adatto a seconda del lavoro che ti appresti a fare e che oggi, con il digitale, sia forse ancora più semplice trovare lo strumento giusto. È ovvio che se devi realizzare una foto che richiede un grande contenuto tecnico tu abbia bisogno di uno strumento che possieda quelle capacità tecniche, che sia adeguato allo scopo. Quando passai al digitale ricordo che investii molto per dotarmi di un corredo adeguato che, in seguito, si rivelò decisamente sovradimensionato.
Credo che un supporto sia un po' fine a se stesso: quello che conta è ricordare che si sta realizzando una fotografia che altro non è che una scrittura con la luce.

Enrico Bossan mi lascia sottolineando ancora il concetto espresso prima a proposito del muoversi nel mondo: "Come diceva Giacomelli, bisogna recuperare la vicinanza del mondo. Non è più necessario andare lontano ma guardare di più a quello che c'è e accade intorno a casa."

Il sito di Enrico Bossan è www.enricobossan.com o anche www.enricobossanmasterclass.com. Bossan è rappresentato dall'agenzia Contrasto.