A definire grande il fotografo il protagonista del profilo di questo numero basterebbero i suoi quattro World Press Photo Awards, un traguardo raggiunto da pochissimi, soprattutto se consideriamo i professionisti italiani. Le sue fotografie sono assimilabili a quadri, a opere che, per sua stessa definizione, appaiono come evanescenti, con una tipica sovraesposizione che lasciano spiazzati al primo sguardo. Poi si scopre che dentro a quelle immagini c’è tutto, nulla è perso o bruciato nelle alte luci: è una cifra stilistica (per usare una frase che oggi è molto in voga) che caratterizza il lavoro di un eccellente professionista della macchina fotografica: Massimo Siragusa. I suoi detrattori vedono nelle sue immagini un eccesso di esposizione: tutto il resto del mondo, critici e amanti della fotografia, vedono e percepiscono un lavoro di concetto e di pazienza che si concretizza proprio nel momento dello scatto. Siragusa non è un fanatico della post-produzione proprio perché si prepara ad affrontare un lavoro con tutta la perizia del caso. La nota critica Renata Ferri ha detto di lui che fa un abile “lavoro di lima”, si prepara meticolosamente al controllo della luce e della prospettiva: due elementi dei quali è decisamente diventato un maestro e come tutti i bravissimi “artigiani” mette a disposizione la sua arte in modo indifferente per il paesaggio o per la fotografia industriale.
Ci incontriamo a Roma, sua città di adozione e fonte infinita di ispirazione: Massimo è catanese ed è molto legato alla sua terra d’origine. Si sente come “prestato” alla capitale per ragioni professionali e non solo ma torna molto di frequente in terra siciliana, dove tutto ebbe inizio.
osservatoriodigitale: Tutto è cominciato li, a Catania, quasi per una sfida, un piacere personale…
Massimo Siragusa: Sì, l’avvicinamento alla fotografia professionale è avvenuto in modo graduale, passando attraverso un’esperienza diversa, dove l’immagine era coinvolta ma in un senso più ampio. Dopo essermi laureato, aprii insieme a un amico uno spazio, una libreria che proponeva libri di fotografia e di design, qualcosa che all’epoca, era la fine degli anni ottanta, non si trovava facilmente nemmeno nelle grandi città del nord o a Roma; facevano spesso viaggi all’estero proprio per individuare e procurarci i libri che poi avremmo proposto ai nostri clienti di Catania. Vivevamo il rapporto con l’immagine in modo, diciamo, indiretto poi abbiamo cominciato anche a organizzare e realizzare delle mostre di grandi fotografi come Scianna, Berengo Gardin e altri di questo calibro.
La mia idea di fotografia era che fosse qualcosa di complementare alla scrittura: infatti mi sono laureato in Scienze Politiche proprio perché avevo come finalità professionale quella di fare il giornalista, e così inizia, facendo il fotoreporter. Fu proprio Ferdinando (Scianna, nda) che mi spinse e mi convinse a intraprendere la carriera di fotografo.
od: Direi che se te lo dice uno come Scianna ci devi provare almeno e, visti i risultati, direi che aveva visto giusto.
MS: In effetti sono molto contento di quello che faccio e di come lo faccio. Mi piace fare il mio lavoro, sia esso finalizzato a una nuova mostra o una pubblicazione oppure quando affronto un nuovo incarico per conto di qualche committente.
od: Di che cosa si tratta solitamente?
MS: Mi occupo spesso di corporate image, realizzando fotografie per conto di grandi gruppi industriali che vogliono diffondere l’immagine non solo dei loro prodotti ma anche dei luoghi ove quelli vengono realizzati. Dalle catene di montaggio della FIAT al centro di produzione degli elicotteri AgustaWestland per fare due esempi. È sempre entusiasmante per me entrare in contatto con un mondo lontano dal mio dove vedo concretizzarsi qualcosa che fino ad allora ho sempre visto da lontano; trovarsi a contatto con le persone e l’ambiente in cui si costruisce un elicottero, appunto, è stato illuminante e affascinante proprio perché davanti ai tuoi occhi prende forma e si realizza qualcosa di magnifico. È molto importante per me, quando devo fotografare qualcosa, entrare in contatto con quella realtà, sentire i rumori e respirare gli odori, vedere le persone che si muovono nel loro ambiente, capirne le dinamiche. Lo faccio sempre cercando di essere il più discreto e trasparente possibile, proprio per non interrompere il flusso di vita che scorre naturalmente, per non interferire in alcun modo con ciò che sta accadendo. Oltre al mondo industriale spesso mi occupo anche di fotografare luoghi ed edifici di particolare interesse culturale e artistico, vere e proprie perle del patrimonio italiano e mondiale.
od: Anche in questo caso sono commesse private?
MS: No, la maggior parte viene commissionata per la pubblicazione di libri oppure sono lavori miei che in seguito si trasformano in mostre e magari anche in pubblicazioni. I miei lavori vengono commissionati e pubblicati sempre più spesso da testate internazionali come Geo oppure Traveller di Condé Nast, The New Yorker, giusto per citarne alcune. In Italia ormai sono rimasti pochissimi gli editori che richiedono un servizio fotografico specifico e che, soprattutto, sono disposti a riconoscere la professionalità di chi realizza le immagini con un compenso dignitoso. Ricevo spesso richieste da molti giornali che propongono compensi che non bastano nemmeno a coprire le spese necessarie allo spostamento in loco: non voglio sembrare esoso ma io mi sposto con una quantità di materiale e attrezzatura che spesso paga il viaggio come una persona se non di più; a questo punto diventa difficile accettare incarichi in questo Paese: si salvano ancora testate come L’Espresso ma credo che sia anche per una questione di ottimi rapporti e di una collaborazione di lunga data. (Proprio mentre pubblichiamo questa intervista è uscito un nuovo servizio di Siragusa dedicato agli spazi adibiti a refettori e mense su L'Espresso, insieme al testo di Aldo Nove "Com'è bella la mensa", pagg. 74–79, nda).
od: Le tue fotografie hanno una caratteristica che le rende uniche, proprio tue, sin dal primo sguardo ed è l’utilizzo della luce in termini quasi estremi da farle sembrare sovraesposte, sbagliate poi le guardi con attenzione e capisci che c’è tutto, la foto è perfetta.
MS: Mi è sempre piaciuto giocare con la luce e cercare il limite di luminosità possibile. È vero sovraespongo ma non tanto quanto si possa immaginare: ormai è diventato il mio modo di lavorare e caratterizza le mie immagini ma è il io modo di rendere evanescente l’immagine di un luogo, sia esso un panorama, una sala di un edificio oppure la catena di montaggio di una fabbrica. All’inizio della mia carriera non era così, facevo foto differenti molto più cariche poi ho scoperto col tempo la voglia e la necessità di raccontare una realtà che fosse magari un po’ diversa da quella vera, una realtà vista con i miei occhi e i miei sentimenti e allora ecco apparire questi colori tenui, meno violenti di come sono davvero, a indicare come una specie di sogno. Qualcuno confonde le mie fotografie con quelle di architettura, in parte perché c’è molto dell’elemento architettonico in esse, ma nelle mie immagini c’è anche la presenza dell’uomo, della vita di tutti i giorni, di quella realtà appunto che diventa protagonista. Ancora, rispetto agli esordi nel fotogiornalismo, mi sono pian piano sottratto dalla situazione in cui mi trovavo per così dire nel centro dell’azione, spostandomi verso l’esterno, sempre di più. Oggi mi piace riprendere dall’alto, cercando di dare una nuova dimensione alle immagini, una profondità che nelle fotografie classiche è sempre stata negata perché vivevano in un dominio di larghezza per altezza. Le mie immagini offrono a chi le guarda l’opportunità di vedere tutto lo spazio, con una messa a fuoco continua e infinita.
od: Oggi faresti ancora il fotografo se fossi giovane?
MS: Sì, perché è un lavoro che mi affascina e che amo. Certo non è più come un tempo anche se qualcuno pensa che allora fosse tutto facile: non c’è niente di più falso. Devi sempre e comunque credere profondamente in quello che fai e studiare, leggere, cercare di imparare sempre perché poi tutto torna utile con il passare del tempo. Oggi la fotografia, per esempio, è ovunque e ha assunto questo aspetto di onnipresenza grazie al web e agli smartphone, strumenti che un tempo non esistevano. Forse il fotogiornalismo come lo si intendeva un tempo è giunto al capolinea, o quasi, e oggi si è aperta però tutta una nuova serie di opportunità che ai miei tempi erano inimmaginabili. Resta il fatto che se vuoi essere un bravo fotografo devi fare della buona fotografia e questo è un assunto che vale a prescindere dal tempo. Io vedo tanto entusiasmo anche durante l’insegnamento all’ IED di Roma, per fare un esempio: ci sono tantissimi studenti che sono davvero interessati al mondo della fotografia nel profondo e questo fa sperare per il futuro. Basta che ne “nascano” un paio all’anno e il futuro dell’immagine come elemento di arte visiva e di comunicazione sarà sempre assicurato. L’aspetto professionale, cioè il fatto di guadagnare con la professione di fotografo, invece ha delle dinamiche diverse proprio perché bisogna cercare spazi là dove un tempo non c’erano e dimenticarsi di continuare a percorrere le strade che sono state battute da sempre, come quella dell’editoria ad esempio che, essendo in grave crisi, tende a svalutare o, meglio, a non dare il giusto valore ai servizi che vengono proposti per la pubblicazione. Ma è un discorso che abbiamo già fatto prima.
od: Per finire quali sono i tuoi strumenti di lavoro?
MS: Ho da poco sostituito la Canon 5D Mark III con una 5DsR e poi ho un dorso digitale IQ80 di PhaseOne che utilizzo con i banchi ottici o con altre fotocamere medio formato che, tuttavia, noleggio quando mi servono, perché è sempre più difficile trovare clienti che siano disposti ad accettare quel tipo di costi per un servizio fotografico. Trovo che la nuova Canon abbia una capacità enorme di risoluzione dell’immagine, quasi al pari con un dorso digitale: per il mio modo di lavorare è davvero duttile e potente al tempo stesso, qualcosa di veramente utile che mi permette di ottenere dettagli elevatissimi nonostante la grande maneggevolezza, tipica di un corpo macchina di quelle dimensioni. A differenza di quando ho cominciato, quando utilizzavo una reflex Canon o una Leica perfetta per il fotogiornalismo, oggi sarebbe impensabile non ricorrere a strumenti molto sofisticati e potenti che sono in grado di rispondere perfettamente alle mie esigenze; con la reflex Canon utilizzo quasi sempre un’ottica 24mm tilt & shift mentre con il dorso ricorro a strumenti come il banco ottico, qualcosa che comunque mi permette di controllare le linee e le prospettive delle immagini che scatto. La grande risoluzione, invece, mi permette di inserire tutti i dettagli che voglio anche nelle immagini dove la sovraesposizione della luce può sembrare molto elevata.
Tutte le immagini sono coperte da diritto d'autore e ne è vietata la copia. Tutti i diritti sono riservati e di Massimo Siragusa; le fotografie di Capri e Cortina fanno parte di un recente lavoro di Siragusa che è stato in mostra a Capri e nel 2016 lo sarà anche a Cortina.
I quattro premi del World Press Photo, Massimo Siragusa li ha vinti nel 1997, grazie al suo lavoro "Bisogno di un Miracolo", nel 1999 con "Il Cerchio Magico”, nel 2008 con il reportage sul "Tempo Libero" e nel 2009 con "Fondo Fucile", un lavoro sulle baraccopoli di Messina.
Altre informazioni sui premi e sui libri che Massimo Siragusa ha pubblicato, oltre a molte altre sue immagini si possono trovare sul suo sito o sul sito di Contrasto, l’agenzia con la quale collabora dal 1989 e che, spesso, pubblica i suoi libri.
Data di pubblicazione: dicembre 2015
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