Investire in cultura in un momento di crisi come questo è un’impresa estremamente difficile, ma ciò non ha scoraggiato l’Auditorium di Roma che ha aperto un nuovo spazio di 750 metri quadrati tutti dedicati all’arte; una piattaforma esclusiva e anche un forte arricchimento per l’Auditorium stesso che ha voluto scommettere sulla diversificazione culturale offrendo al pubblico un’area che verrà dedicata a collettive, personali ed esposizioni. L’inaugurazione, avvenuta nei giorni scorsi, ha aperto con una mostra che sicuramente lascerà una traccia iconograficamente indelebile: “LIFE. I grandi fotografi”, questo il titolo dell’esposizione che durerà fino al 4 agosto 2013.

L’esposizione si snoda attraverso un percorso che, come ha spiegato la curatrice Alessandra Mauri, mira a raccontare la storia di LIFE dagli esordi fino agli anni ’70 del secolo scorso. Fondata da Henry Luce nel 1936, LIFE non è stata una rivista di fotografia, bensì è “La Rivista” di fotografia per antonomasia e tale rimane anche ora che non viene più pubblicata da decenni.

Nell’editoriale del primo numero Luce scrive che la missione di LIFE è quella “di vedere la vita, vedere il mondo, essere testimoni oculari dei grandi avvenimenti; vedere cose inconsuete - macchine, eserciti, folle, ombre nella giungla e sulla luna - vedere il lavoro dell’uomo, i suoi dipinti, le torri, le scoperte; vedere cose che esistono a miglia e miglia di distanza, cose nascoste dietro le pareti, nelle stanze, cose pericolose; vedere le donne amate dagli uomini e vedere i bambini; vedere e assaporare il piacere dello sguardo; vedere ed essere stupiti, vedere e imparare cose nuove. Così vedere ed essere visti diventa ora e resterà in futuro il desiderio e il bisogno di metà del genere umano”.

La prima cosa che fece Luce fu contattare un fotografo: volle cioè, prima ancora di una redazione di giornalisti di penna, trovare la figura professionale che potesse aderire completamente alla sua idea di base: andare in giro per il mondo, e in particolare per l’America, raccontandolo in fotografia.

Il primo fotografo che trovò fu una donna, Margaret Bourke-White, alla quale si deve la prima copertina di LIFE, e dopo di lei ne arrivarono moltissimi altri, presenti in mostra. Per generazioni di fotografi la rivista fu la più importante palestra di immagini del Novecento e sono convinta che per molti continui ad esserlo tuttora. È stata una palestra perché ha insegnato ai fotografi non solo a guardare, ma anche a sviluppare una capacità di racconto della realtà per immagini condensando in uno scatto tutto quello che si doveva sapere di un fatto o di un personaggio.

Ha formato lo sguardo di chi era dentro la redazione, ma anche del pubblico e di altri professionisti dell’immagine che si trovavano in Europa, tant’è vero che molti aspiranti fotografi si sono formati proprio guardando, o meglio, osservando con attenzione, le fotografie di LIFE: uno per tutti, per quel che riguarda l’Italia, è stato Gianni Berengo Gardin, il padre della fotografia italiana in bianco e nero, il quale ha più volte affermato che probabilmente, senza ricevere quelle riviste tutte le settimane, non avrebbe allenato il suo occhio.

Decidere di allestire una mostra sulla rivista Life significa non solo ripercorrere un periodo d’oro del fotogiornalismo - quello che va dal 1936 fino agli anni ’70 - ma anche offrire la possibilità di capire come si è formato il nostro sguardo, la nostra maniera di guardare alla realtà.

Quando LIFE venne creata la televisione non esisteva, il mezzo di informazione era la radio e quindi il ruolo della rivista era quello di mettere le immagine alle parole, di dare un volto ad un nome. Questo ruolo è andato poi sempre più scemando man mano che la TV ha cominciato a prender piede e dunque ecco spiegato perché il periodo d’oro di LIFE è quello degli anni antecedenti la diffusione di massa del mezzo televisivo.

L’esposizione romana ripercorre alcune tappe di questo momento d’oro del fotogiornalismo dando spazio ad alcuni grandi fotografi. LIFE aveva dei fotoreporter di staff, ossia stipendiati, e poi ovviamente c’erano dei collaboratori e alcuni reportage potevano venire acquistati poiché non tutte le foto pubblicate erano necessariamente scatti di fotografi della redazione: Cartier-Bresson, ad esempio, pubblicò su LIFE un bellissimo reportage sulla Russia ma non possiamo certo dire che fosse un fotografo LIFE.

Nell’esposizione sono presenti soprattutto i fotografi che lavoravano per la rivista sotto contratto, ma la parte dedicata alle guerre presenta foto anche di reporter come Robert Capa che con LIFE lavorò solo saltuariamente ma che è artefice dello scatto che rappresenta la foto di guerra per antonomasia: quella del miliziano ferito a morte nella Guerra Civile Spagnola.

Andando con ordine, sulle pareti troviamo prima di tutto le fotografie della bellissima e terribile (così la descrive la curatrice Alessandra Mauri) Margaret Bourke-White: tra le tante cose che lei fece come pioniera della fotografia ci sono le foto aeree, e infatti troviamo esposti alcuni suoi scatti dall’alto: un aereo sul cielo di Manhattan, la Statua della Libertà, tanto per citare le due più significative.

Segue un’altra parte dedicata alle immagini di paesaggio e quella che documenta la realtà sociale dell’America. Nel ’36 gli Stati Uniti stavano uscendo da una crisi economica molto forte e uno dei punti fondamentali di LIFE fu quello di raccontare la società in tutte le sue sfumature, disagio sociale compreso. La rivista fu straordinaria anche nel narrare alcuni stilemi della vita americana come, ad esempio, la strada, immortalata come luogo in cui si è costretti ad andare via in cerca di nuove prospettive per il futuro.

Un’altra parete estremamente significativa e interessante è quella presidenziale, perché LIFE doveva raccontare la politica e i Presidenti: un ritratto di Eisenhower, un giovanissimo Nixon, il pianto per la morte di Roosevelt, la gioia per il matrimonio dei Kennedy. Ogni dettaglio esaltato dai fotografi ha poi costruito il personaggio, come si può notare ad esempio in Jackie Kennedy: la collana di perle, i guanti… ogni elemento viene catturato e diventa poi parte dell’icona.

Tornando alle guerre, le foto che le immortalano sono decisamente pregnanti. Non va dimenticato che tra le cose che LIFE doveva documentare c’erano appunto le guerre che venivano combattute lontano dagli Stati Uniti ma che coinvolgevano gli americani. Oltre alla già citata foto del miliziano ferito a morte, spiccano altre foto dello stesso Capa, questa volta sullo sbarco in Normandia. Poi, con un salto temporale, si arriva alle immagini del Vietnam e salta agli occhi come tutta la cinematografia americana a riguardo abbia preso ispirazione proprio dalle foto di LIFE. Ci sono le immagini di Larry Burrows, che per primo portò il colore nella fotografia di guerra: le foto esposte evidenziano la sua enorme capacità di sintesi iconografica. La sezione si chiude con un’altra icona per eccellenza per quanto riguarda le foto di baci: Times Square il giorno della vittoria alla fine del Secondo Conflitto Mondiale. Eisenstaedt era in strada e aveva visto un marinaio ubriaco che cercava di baciare tutte le ragazze che incontrava; ovviamente decise di seguirlo pensando che prima o poi ne sarebbe uscito un bello scatto e così fu poiché ad un certo punto il marinaio trovò l’infermiera e la baciò. La donna ha un nome e una famiglia che si scandalizzò nel vedere una parente passata alla storia della fotografia come una che si fa baciare dal primo marinaio incontrato per strada, ma quello era un giorno particolare, di festa e di gioia. Al di là della considerazione moralistica, ciò che davvero è importante è che in questo scatto si vede la grandezza del fotografo: Eisenstaedt coglie non solo il gesto bellissimo delle gambe della donna, ma mette anche in risalto i personaggi dietro che sembrano sistemati in una quinta teatrale.

La mostra si chiude con la parete dei ritratti in cui in uno scatto si doveva condensare la personalità del soggetto consegnandolo alla nostra memoria collettiva, e allora ecco Churchill che fa il segno della vittoria, Gandhi a torso nudo seduto davanti al telaio. Molti di questi scatti sono diventati il ritratto per antonomasia e l’esempio più eclatante sono sicuramente gli occhi del fotografo Brassaï in cui risalta davvero la parte per il tutto.

Come sostiene John Loengard, “la parola scritta diventa rapidamente obsoleta: una notizia vecchia è un ossimoro. Invece le fotografie vecchie continuano a richiamare la nostra attenzione e credo sia proprio questo lo spartiacque tra le ambizioni dei fotografi e quelle dei giornalisti.”

Probabilmente queste parole contengono una loro verità, quello che è certo è che gli scatti presentati in questa retrospettiva hanno un valore che dona loro una bellezza intrinseca che li colloca al di là dell’unità temporale, rendendoli immortali.

(data di pubblicazione: maggio 2013)