Camera con vista

Ancora al Taj Mahal

Walter Meregalli

Se so ancora contare, questa è la settima volta che varco l’East Gate del Taj Mahal ad Agra. Sì, cheppalle, perché anche se si tratta di uno dei monumenti più impressionanti del mondo, uno dei siti più incredibili, un’icona globale della capacità dell’uomo di raggiungere la perfezione attraverso la sua arte e la sua architettura, forse qui ci sono ormai venuto qualche volta di troppo...

Taj Mahal sunset ©Walter Meregalli per osservatoriodigitale di maggio-giugno 2020, n.o 104
Cheppalle! Se so ancora contare, questa è la settima volta che varco l’East Gate del Taj Mahal ad Agra.
Sì, cheppalle, perché anche se si tratta di uno dei monumenti più impressionanti del mondo, uno dei siti più incredibili, un’icona globale della capacità dell’uomo di raggiungere la perfezione attraverso la sua arte e la sua architettura, forse qui ci sono ormai venuto qualche volta di troppo.

È questo quello che penso mentre l’agente della polizia locale passa al setaccio il contenuto del mio zaino e per la settima volta, proprio come le sei prima dei suoi sei predecessori, anche lui prova a estorcermi qualche centinaio di rupie per consentirmi di far passare tutta la mia attrezzatura fotografica oltre i cancelli della sicurezza.
«No possible, sir» - insiste il poliziotto e mi tocca mettere in scena il solito teatrino. Alzo la voce, faccio l’isterico, chiedo di parlare con il suo sovrintendente, che si sta godendo un masal chai al fresco dell’ombra del colonnato e tutto vorrebbe fuorché prendersi cura di un pazzo videshi che sbraita arrabbiato. Alla fine la spunto io. Niente baksheesh ed entro con tutto il mio armamentario fotografico, sospinto dagli sguardi divertiti degli indiani in coda con me.

Una volta dentro, mi è chiaro perché questa sia già la settima volta.
Il Taj è incredibile nella sua perfezione, nella sua maestosità. Lo leggo negli sguardi rapiti dei due amici che accompagno. Il caldo che precede il monsone è straniante, ci affatica il fiato e annacqua lo sguardo, ma il Taj, il Taj Mahal, riesce comunque ad uscirne immenso e inarrivabile, anche in queste condizioni al limite della sopportazione.
Gironzoliamo un po’ per i colonnati che cingono il perimetro del giardino, quasi prendessimo del tempo per affrontare la bellezza unica del mausoleo, troppo per lo sguardo umano.
«…e pensate che è vuoto!» - me la lascio sfuggire quasi per caso e leggo lo stupore negli occhi dei miei due compagni di viaggio. Come è vuoto, sembrano dire senza aprire bocca.
«Vuoto. Vuoto. Dentro lì… » - e indico l’edificio principale, quello che tutti, in tutto il mondo conoscono - «… dentro lì non c’è proprio un bel niente!» Sì, proprio così, non solo il mausoleo è vuoto, ma la cripta, posta nei sotterranei e per la quale i turisti patiscono in coda anche per oltre un’ora, beh, la cripta contiene due repliche, anch’esse vuote, delle bare in marmo bianco di Shah Jahan di sua moglie Muntaj Mahal, per la quale questa bellezza unica è stata costruita, chiedendo la perfezione ai suoi architetti e ai suoi manovali.
Eppure la gente fa la fila per entrare, per salire sulla terrazza che ospita il mausoleo di marmo bianco, per scendere, nella cappella che vorrebbe custodire le spoglie mortali della sfortunata coppia di regnanti mughal. «Volete tornare in Italia con una foto del Taj straordinaria?» - buttò lì un po’ per recuperare. Ovviamente i miei due amici non rispondono che sì.

In una decina di minuti siamo di nuovo fuori. Recupero Pardeep, il nostro autista, e gli do indicazioni perché ci porti a Mehta Bāg, dall’altra parte dello Yamuna, alle spalle del Taj.
Intendiamoci, non che il luogo sia un mio segreto. Ci vanno in molti a fotografare il Taj Mahal da lì, da Steve McCurry in giù. Il vantaggio è che non si ha tra la bellezza del monumento e l’obiettivo della propria macchina le solite migliaia di turisti accaldati e poi si può cogliere il Taj in tutto il suo splendore.
Pardeep ci lascia dove la stradina asfaltata comincia a scendere, poche decine di metri prima dell’ingresso del giardino botanico di Mehta Bāg. Gli dò appuntamento di lì a un’ora e noi tre scendiamo, armati di cavalletti e con la sensazione di aver fatto bene.
La stradina finisce nel niente della riva sinistra dello Yamuna, dopo essersi lasciata alle spalle un ashram e una caserma dell’esercito. Siamo ormai sulla riva e posizioniamo i nostri cavalletti.

Eccolo, nel suo splendore, sgombro di gente, semplicemente stupendo nella luce del sole che tramonta. Il Taj Mahal. Sì è vero, anche qui ci sono stato almeno altre quattro volte, ma davanti alla meraviglia, anzi alla maraviglia, ripetere non è poi una questione che pesi.
Lo ammiro prima con lo sguardo, lo accarezzo. Poi finalmente lo metto all’interno di un’inquadratura. E aspetto. Aspetto che arrivi la luce giusta, quella per la quale vale la pena farsi sbranare dalle zanzare, quella per la quale vale la pena sorbirsi i miasmi della fogna ancora non terminata o il caldo che mi fa zampillare la fronte e mi irrita gli occhi, neanche il sudore fosse alcol.
«Non ancora! Non ancora! Aspettate!»
I miei due amici sono impazienti di scattare. Il caldo, le zanzare, la puzza di merda e di roba andata a male. Non vedono l’ora di abbassare il pulsante. Click! E via, tornare nella bolla d’aria condizionata su quattro ruote che ci riporterà nel comfort dell’Indana Hotel. Perché forse, anche per la maraviglia c’è un tempo massimo, soprattutto in quelle condizioni.
Non per me! In questi momenti credo che mi assalga qualcosa di simile alla catalessi, se non che questa condizione, sebbene mi cortocircuiti quasi tutti i sensi e di sicuro tutti i bisogni, mi amplifica la vista. In questi momenti, che confinano con un’estasi laica e un quasi totale rincoglionimento, vedo solo quello che ho nel perimetro dell’inquadratura e ora ho il Taj Mahal, forse uno degli spettacoli dell’uomo più belli di sempre.

Poi l’inaspettato.
Da destra si alza un vento caldo come un phon. Dal nulla, monta da dietro e alza la sabbia della riva. Una prima nuvola di cartavetra ocra ci avvolge, ma il Taj è ancora lì’, visibile, che si staglia bianco sul vortice giallastro.
Poi la nube si fa rossa, di un rosso intenso, quasi iridescente. Poi prende a piovere.
«Scattate! Scattate ora!» - urlo senza nemmeno distogliere lo sguardo dal mirino - «Scattate ora!»
Come soltanto succede in India in questa stagione, che attende il monsone come una secchiata per spegnere il fuoco, sulle nostre teste si riversa uno scroscio potente, siamo zuppi prima ancora di rendercene conto. Poi le gocce si fanno proiettili e prende a grandinare.
«Scattate!»
Sono fradicio e immobile. I miei due compagni di viaggio se la sono data a gambe levate, verso l’ashram. Non posso dar loro torto.
«Scattate ora!»
Nemmeno mi accorgo di essere rimasto solo.

Un ultimo scatto, quello che ho scelto per la rubrica di questo mese, poi scappo anch’io a cercare riparo nell’ashram. Pardeep sbuca dal nulla con due ombrelli spaiati, ma nel frattempo noi tre ci siamo rintanati nell’ashram e pandit jī, il prete che manda avanti il posto, ha ordinato al suo servitore di prepararci del masala chai caldo. Non c’è più nessuna fretta.
Ci mettiamo a chiacchierare un po’, ma questa è un’altra storia.

 

Data di pubblicazione: maggio-giugno 2020
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