Giuseppe Carrieri è, a modo suo, un cantastorie: un giovane cineasta che crede nella forza propulsiva del racconto come elemento centrale sul quale cucire l'abito audiovisivo più vicino alle sue corde partenopee un po' poetiche e un po' intimiste. Ma Giuseppe Carrieri è anche espressione di una nuova generazione che ha capito benissimo di avere di fronte a sé una strada assolutamente diversa da quelle di chi l'ha preceduta, una strada lungo la quale ruoli e mercati tradizionali cedono il passo a nuove dinamiche declinate all'insegna di fluidità, trasversalità, globalizzazione e innovazione. Uno scenario indubbiamente stimolante ma certo non facile: per questo motivo Giuseppe, ancora alle prese con un dottorato di specializzazione, non ha perso tempo e può già vantare al suo attivo due particolarissime produzioni girate in luoghi certamente non "facili" come Africa occidentale e India. La sua esperienza anticipatrice, cui è dedicata la puntata di Fuori Fuoco di questo mese, ci offre interessanti spunti di riflessione.

Giuseppe Carrieri in Senegal sul set di La voce del sangueAlla ventesima edizione del Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina di Milano, lo scorso marzo, Giuseppe Carrieri ha esordito fuori concorso con il documentario "La voce del sangue", una ricerca su particolari figure di poeti-cantori dell'Africa occidentale - i griot - noti in passato per il grande potere esercitato in qualità di consiglieri di re e nobili, e oggi ancora presenti con ruoli di grande visibilità nei media e nella cultura, talvolta anche a livello internazionale. Non a caso il primo lavoro di Giuseppe riguarda veri e propri cantastorie, a riaffermare la centralità della capacità di raccontare in un mondo nel quale l'accelerazione del progresso tecnologico ha spesso spostato il focus dal contenuto alla forma; e non a caso questo stesso lavoro si sviluppa dalle foreste svedesi e attraverso la Calabria prima di giungere ad aree remote del Senegal e dell'antico impero mandingo, a indicare come anche la tradizione vada ormai spesso in scena su un palcoscenico globale.

Un'altra esperienza inusuale Giuseppe l'ha vissuta producendo "La polvere", cortometraggio ancora inedito che conquista per la delicatezza con cui affronta un tema difficile come quello dei bambini di strada di Calcutta.

od: Da dove arriva la tua decisione di andare a girare in location così esotiche e "difficili"? Quale preparazione occorre seguire per riuscire a produrre in luoghi tanto lontani, non solo geograficamente parlando?

GC: La decisione nasce principalmente da una mia personale reazione alla generale carenza di intraprendenza che si avverte in questo nostro Paese. Volevo fare esperienze davvero uniche, creare qualcosa di nuovo senza ripercorrere le solite strade. Per quanto riguarda l'Africa si è trattato di un lavoro di tesi, e qui devo ringraziare anche l'università IULM che ha accettato di finanziare il progetto. Volevo capire chi fossero i griot, questi cantastorie che incarnano la memoria di un popolo che non ha lasciato nulla di scritto. Sono personaggi dotati di grande forza, godono di uno status sociale di tutto rispetto e la loro poliedricità è tale che alcuni hanno trovato persino fama internazionale come attori o musicisti - per esempio gli appassionati di jazz conosceranno Baba Sissoko, un griot del Mali che vive in un piccolo paesino calabrese e che non a caso appare nel mio documentario. Ho lavorato per un anno per organizzare tutto, trovare le persone che potessero aiutarmi sul posto, preparare un viaggio che ha portato la mia troupe a toccare villaggi remoti del Senegal non segnati sulle mappe. E una volta là abbiamo dovuto imparare a confrontarci con le infinite contraddizioni dell'Africa, adattarci ai tempi e ai modi di persone che non sono semplicemente "intervistabili" come siamo abituati qui.

Sul set de "La voce del sangue" in Senegal"La polvere" ha invece una genesi diversa: lì è stata una decisione più improvvisa, tanto che sono partito per l'India senza un progetto preciso in mente. Solo dopo alcuni giorni di permanenza, entrato in sintonia con quei luoghi, mi sono trovato a scrivere il film di getto durante una notte insonne. A Calcutta ho avuto la fortuna di potermi appoggiare a un gruppo di giovani cineasti che avevo conosciuto e con cui avevo collaborato tempo prima in occasione di un loro viaggio a Milano. Grazie a loro la produzione è stata un po' più "strutturata" rispetto all'esperienza africana, assai più avventurosa, tanto che ho potuto seguire il montaggio direttamente sul posto e tornare in Italia con il cortometraggio completato.

od: Produzioni così insolite, tanto più in quanto d'esordio, devono essere preziose per il patrimonio di esperienze che permettono di accumulare. Qual è stata la sensazione più forte che ti hanno restituito questi lavori?

GC: Senz'altro rendersi conto che luoghi come l'India o l'Africa sono innanzitutto luoghi della discrezione, luoghi che ci impongono di muoverci in un certo modo rispettando le sensibilità locali: lì le persone sanno benissimo chi siamo noi, cosa rappresentiamo e cosa vogliamo quando ci muoviamo tra loro con una telecamera in mano. Pagando la frequente insensibilità di molti che ci hanno preceduto, facilmente acquisiamo l'ostilità della popolazione; e questo accade tanto più ingombrante è la "macchina" di attrezzature e persone con la quale ci muoviamo.

In qGiuseppe Carrieri a Calcutta sul set di "La Polvere"uesto la tecnologia digitale, con le sue dimensioni compatte, ci aiuta tantissimo: per esempio io ho potuto arrivare all'aeroporto di Calcutta come un normale turista e aggirarmi per la città con uno zaino identico a tanti altri confondendomi nell'ambiente circostante, potendo osservare inosservato. È chiaro che quando si tirava fuori la telecamera la gente capiva che stava accadendo qualcosa; in India, in particolare, ho notato una maggior curiosità nei confronti del nostro lavoro, mentre in Africa era più facile che suscitasse sentimenti meno amichevoli.

od: Vi sono stati altri vantaggi, oltre alla maggior discrezione?

GC: Il digitale ci ha permesso di arrivare con una sola apparecchiatura di base, effettuare le riprese in soli cinque giorni, quindi collegarci a una postazione di montaggio disponibile nell'istituto al quale eravamo appoggiati, e infine montare il tutto in altri cinque giorni. Dieci giorni di produzione è qualcosa di assolutamente antitetico rispetto al cinema tradizionale, qualcosa che ha in sé le potenzialità per cambiare le regole del gioco.

od: Un film però non è solo questione di ripresa e montaggio...

GC: No, un film si deve pensare, scrivere, poi in qualche modo si deve andare a "cercare": non puoi avere solamente la storia, ma devi avere anche le facce, i luoghi, l'atmosfera. E poi, per quanto tu abbia scritto e qualunque cosa ti sia immaginato, la realtà delle riprese ti restituisce qualcosa di diverso. Ecco, qui il digitale aiuta tantissimo: proprio il fatto di essere poco ingombranti ti permette di catturare meglio l'essenza di quello che riprendi. Il digitale mi ha consentito di essere un po' più pratico, un po' più sicuro, un po' più efficace rispetto a quanto volevo raccontare.

Riprese de "La polvere" a Calcuttaod: Trovi che il digitale abbia solamente vantaggi rispetto alla pellicola?

GC: Direi che ogni mezzo possiede la sua specificità. Quando vedi un film riconosci subito con cosa è stato girato: non tanto per la grana dei pixel che è diversa dalla grana della celluloide, quanto perché i due mezzi rappresentano due modalità espressive differenti. La pellicola ti offre la capacità di osservare e di ricavare tutto un mondo da quello che vedi, mentre il digitale ha ancora una sua essenza legata alla cronaca, alla presa diretta. Con il digitale si finisce spesso per ricorrere allo zoom sparato: sembra quasi che i videomaker amino amplificare il senso di irruzione, approfittare di queste focali lunghissime per entrare completamente nella scena anche se così facendo l'immagine perde di qualità e si introduce il rischio di una eccessiva identificazione con la scena stessa.

Ti faccio l'esempio della scena iniziale de "La polvere": dovevamo riprendere l'inquadratura muovendoci in un varco molto stretto tra alcuni bungalow per arrivare poi al nostro soggetto seduto all'interno di una capanna. In una situazione del genere il digitale ti porta a entrare direttamente nel nuovo ambiente con una semplice zoomata, mentre io ho preferito costruire un carrello con dei binari di legno mascherando poi da imprecisione il dislivello - inevitabilmente percepibile - creato dall'uscio rialzato. Il risultato è un effetto molto più cinematografico di quanto si è abituati a vedere di solito col digitale.

od: Una critica che si ascolta frequentemente è che il digitale, con la sua immediatezza, permette di produrre (qualcuno direbbe "lascia l'illusione di poter produrre") anche tralasciando il lavoro preparatorio, e le conseguenze si notano.

GC: Preparazione e background sono essenziali. Guarda quante belle foto che vengono pubblicate su Facebook o su Flickr come fossero capolavori, quando in realtà sono solo riprese tecnicamente buone di bei soggetti - in altre parole, belle illustrazioni. La fotografia vera è quella che riesce a indovinare qualcosa, quella che ti racconta una storia, e allora non presuppone che l'immagine sia implicitamente bella. Con il cinema devi fare ancora di più, devi capire come orientare l'occhio dello spettatore portandolo a scoprire man mano il soggetto della scena, cambiando la sua attenzione a seconda di quello che intendi trasmettere.

Poi, d'altra parte, la "democratizzazione" consentita dal digitale ha portato a realizzare esperimenti molto interessanti che senza questa immediatezza non sarebbero stati possibili. A Calcutta hanno dato delle piccole macchine fotografiche digitali alle ragazzine dei bordelli della città, che hanno ripreso il loro mondo in maniera assolutamente geniale. Ne è uscita una mostra di grande suggestione di cui ricordo soprattutto lo scatto di una scena davanti alla quale una bambina ha messo la sua mano aperta: è una foto negata, il panorama è la mano anche se dietro ci poteva essere una scena bellissima, ma la forza di quel gesto racconta più di quanto la tecnica e la preparazione potrebbero mai fare.

Sul set de "La polvere" a Calcuttaod: Qualche altra produzione esotica in vista?

GC: In realtà ho un progetto al quale tengo moltissimo e che riguarda proprio l'Italia. Il mio punto di partenza è sempre la storia, e questa volta sono convinto di averne trovata una di grande forza proprio qui. Sarà un'altra occasione per sperimentare, e un altro merito del digitale è che lo si può fare mantenendo i costi all'osso - un requisito imprescindibile se non hai alle spalle un committente, cosa difficilissima a meno che tu non sia già affermato.

Giuseppe Carrieri ha molte altre storie da raccontare e presto sentiremo ancora parlare di lui. Il motto che lo muove, come ci ha confermato mentre ci apprestavamo a iniziare l'intervista, è "think different": un approccio che promette di sorprenderci ancora. Lo aspettiamo.