Paolo PellegrinI grandi fotografi non sono solo quelli del passato e non sono solo stranieri. Paolo Pellegrin ne è un esempio: è un fotografo contemporaneo (classe 1964) ed è italiano. Romano, ha studiato architettura ma poi un bel giorno ha trovato il coraggio di dire al padre che quella non era la sua vocazione perché strada facendo si era reso conto di voler fare altro nella vita, di volersi dedicare alla fotografia. Ha seguito il richiamo del cuore, perché in lui la fotografia è davvero una passione, come le sue foto dimostrano.

Per anni è stato presente in tutte le scene di guerra e di catastrofi ma i suoi non sono mai stati solo dei reportage, anche perché è stato fra i primi a capire che quel genere di documentazione, quello sullo stile di Capra per intenderci, era ormai tramontato, sorpassato dal nuovo modo di fare notizia usato dai media, un modo veloce, che tende a privilegiare il video o le foto scattate con i telefonini.

E così Paolo Pellegrin si è inventato un modo tutto suo di fare documentazione fotografica. Tenendo comunque ben presente la lezione di Frank Capra, suo mentore assoluto, che dice che se una foto non è venuta bene vuol dire che non eri abbastanza vicino, lui si è sempre avvicinato non solo alla notizia, ma anche proprio all’idea e al sentimento di ciò che c’era nella notizia, nel fatto che andava documentando; ha cioè aperto la strada a un genere nuovo di reportage, nuovo e molto personale: le sue fotografie sono specifiche e universali al contempo.

Ne è uno splendido esempio la foto che scattò nel 2006, quella che ritrae una bambina dietro il vetro di un automobile, mentre fugge da un villaggio del Sud del Libano, cogliendone lo sguardo quasi perso nel vuoto. È una foto puntuale nella documentazione di un fatto, quello della fuga da un paese stravolto dalla guerra, ma anche universale, perché attraverso lo sguardo della bimba e di sua madre si coglie una condizione umana comune ai profughi di guerra di ogni tempo e paese.

Come ha raccontato lui stesso, quella bambina “è in fuga dal suo mondo, ha perso la casa, ci guarda e non ci guarda, e questo sguardo ci sconvolge e ci ammonisce” e, aggiungo io, nel suo sguardo è racchiuso lo sgomento che si può trovare negli occhi di tutte le vittime di guerra.

Pellegrin ha lavorato per Magnum Photo ed è stato presente in Palestina, in Libano, in Iraq, nelle periferie degli Stati Uniti e nel Giappone sconvolto dallo tsunami. Ha vinto diversi premi prestigiosi, quali il W. Eugene Smith Memorial Found e il Dr. Eric Salomon Award, un premio dedicato al pioniere del fotogiornalismo che viene assegnato ogni anno a chi si è distinto in questo campo. Questi premi li ha vinti documentando la condizione umana e servendosi delle sue immagini per suscitare dubbi e domande, non per dare risposte. Anche perché di risposte lui, per sua stessa ammissione, non ne ha; si sente un catalogatore, ha l’esigenza di creare documenti di quello che accade.

Per documentare ha rischiato più volte la vita, è anche stato ferito ed è giustamente convinto che quello del fotografo è un mestiere dove la tenuta fisica è un valore, poiché “bisogna essere capaci di resistere e di non crollare”. Bisogna anche essere capaci di soffrire e di assorbire la sofferenza che ci circonda e trasmetterla nei propri scatti, come appunto sa fare lui.

Recentemente ho letto diverse sue interviste e ho letto che è sempre stato un cane sciolto, uno che ogni volta ha rischiato sulla propria pelle, correndo in prima linea in diversi fronti di guerra, ma ultimamente si è un po’ calmato e questo perché ha avuto una bambina e per lei ha deciso di stare più attento, perché una figlia è un valido motivo per voler tornare a casa ed è la dimostrazione che anche i grandi fotografi sono – fortunatamente – umani.