Alzi la mano chi non si è mai domandato, almeno una volta, “Ma perché scatto? Perché fotografo? Per chi? Per cosa?". Insomma, appunto, perché? Personalmente me lo sono chiesta spesso, me lo chiedo spesso.  La risposta alla fine ce l’ho, ma la domanda ogni tanto mi rimbalza comunque nella mente e nell’anima. Non parlo di quando fotografiamo perché abbiamo un lavoro commissionato, né di quando scattiamo foto in occasioni più o meno ufficiali; parlo di quando siamo in giro con la nostra macchina fotografica e d’improvviso vediamo qualcuno - o più spesso qualcosa - e scattiamo, d’impulso, senza rifletterci troppo. Parlo di quando ci alziamo la mattina e decidiamo di uscire e di fotografare, o di quando sacrifichiamo una serata perché ci diciamo, “Ora esco e  fotografo”; o di quando siamo a casa e componiamo qualcosa, una situazione, uno still life e scattiamo per il puro gusto di farlo. Siamo sommersi da immagini, il Web ne è pieno come un uovo: non c’è sito, non c’è giornale on-line che non abbia foto, molti hanno addirittura sezioni apposta per fotografi della domenica oltre che per i cosiddetti professionisti dell’immagine, eppure noi continuiamo a fare le nostre fotografie, a riempire e rimpinzare i siti Internet e a rimpinzarci  noi stessi di foto, di scatti, come dei bulimici. Perché? Io sono profondamente convinta che, fra i mille motivi, ce n’è sicuramente uno, ed è che vogliamo comunicare qualcosa, prima di tutto a noi stessi e poi agli altri, al resto del mondo o del nostro microcosmo-mondo. Lo vogliamo, consciamente o inconsciamente, lo vogliamo.

La fotografia però cosa comunica? Al di là del bello o del brutto immediati, cosa comunica? Questa forse, più che l’interrogativo da cui sono partita, è  la domanda delle domande. Perché che una foto comunichi qualcosa è fuori di dubbio, ma che cosa?  Ultimamente ho letto “Lezioni di Fotografia” di Stephen Shore (pubblicato da Phaidon); è un libro che si legge molto velocemente, si sfoglia con attenzione perché corredato da foto molto belle ma si legge d’un fiato in quanto scorrevole come sono scorrevoli i testi di chi sa insegnare (e Stephen Shore, oltre che uno dei più grandi fotografi dei nostri tempi, è anche un ottimo professore).  Shore sostiene che la fotografia è innanzitutto un oggetto materiale, una stampa e su questa stampa appare un’immagine, un’illusione di una finestra sul mondo. È a partire da questo piano che normalmente “leggiamo” una fotografia e ne scopriamo il contenuto: un ricordo di un viaggio esotico, il volto di un amante, uno scoglio bagnato, un paesaggio notturno… si potrebbe continuare con un elenco infinito. Stephen Shore, ed è questo secondo me il fulcro del discorso, afferma però che “racchiuso in questo livello ne troviamo un altro, che contiene i segnali rivolti all’apparato percettivo della nostra mente, che dà un significato diverso a quello che l’immagine raffigura e alla modalità con la quale è organizzata”. Ritengo che abbia perfettamente ragione, ne condivido il punto di vista (scusate il gioco di parole e anche il doppio senso).

Ho appurato la verità di questa affermazione su me stessa sia come fotografa, sia come fruitrice di fotografie altrui. Lo spunto per il pezzo che sto scrivendo mi è venuto alla mente proprio perché di recente, su una mia foto, ho visto messo in pratica il concetto espresso da Shore. Qualche giorno fa, sulla mia pagina di Facebook ho voluto fare un piccolo esperimento usando come "cavie" i miei amici nonché me stessa. Ho pubblicato un mio scatto, uno di quelli fatti in un momento di cui accennavo sopra, ossia quando usciamo perché abbiamo voglia di fotografare, senza sapere bene né cosa né per quale motivo, ma semplicemente varchiamo la porta di casa con la nostra macchina fotografica per l'impulso di scattare. È una foto che ho fatto recentemente durante una mia uscita in giro per Roma, in un momento di otium, con lo stato d'animo sospeso in quello spleen che ogni tanto fa capolino in molti di noi.

Ero a Trastevere, era appena finito il mercato di Piazza San Cosimato, le bancarelle erano ormai state ritirate quasi tutte, rimaneva solo l'immondizia accatastata in attesa dell'arrivo degli operatori ecologici. In quel mercato c'è anche un venditore di libri usati e d'occasione che quel giorno, quando sono arrivata io, stava ammassando tutta la sua merce nel magazzino che possiede sulla medesima piazza. La saracinesca era aperta, ho alzato lo sguardo, ho visto l'immagine di tutti quei volumi ammassati alla rinfusa e la vista mi ha richiamato alla mente il mucchio di immondizia che faceva capolino pochi metri più in là; ho messo a fuoco e ho scattato, una, due, tre volte, ma cambiando di poco l'inquadratura. Poi ho preso la foto e l'ho lavorata con il programma incluso in iPhoto aumentando l'esposizione, il contrasto e la saturazione; ma ciò che ha modificato l'immagine è stata l'eliminazione totale delle ombre, aspetto che ho accentuato perché togliere le ombre metteva in maggior risalto i rossi e i gialli che in questa foto, a livello di immagine in senso stretto, mi interessava mettere in evidenza per una mia scelta stilistica di quel momento; inoltre concettualmente, a livello del tutto personale, togliere le ombre dava un senso di leggerezza e serviva a mettere in evidenza ciò che l'inconscio mi trasmetteva con quell'immagine. Tento di spiegare meglio: vedere quei libri buttati così, ammassati quasi come su un treno merci o, peggio, un carro bestiame, mi ha dato un senso di malessere e di sicuro ha ingrigito una giornata che era già partita sui toni dell'umore nero. Amo i libri, anche come oggetti (sono una bibliofila molto dilettante ma comunque una bibliofila e colleziono libri, dunque vedere quei tomi ammassati senza nessuna cura, schiacciati dalla bicicletta mi ha provocato un vero e proprio senso di fastidio); quella vista mi ha creato uno stato di pesantezza che mi è piombata addosso con tutta la sua gravità e che ho risentito anche durante il lavoro di post produzione della foto: l'osservazione di quanto avevo appena fermato nel tempo mi ha appesantito l'anima e ha inciso sulla lavorazione. Ho inconsciamente alleggerito la realtà togliendo il peso dato dall'ombra; le ombre però servono ad un'immagine, la rendono a volte più reale, come sarebbe stato in questo caso ad esempio, ma io volevo che questa visione rimanesse confinata più nell'onirico, saperla vera mi infastidiva e, me ne sono appunto resa conto dopo, anche per questo motivo ho completamente tolto le ombrature: per cercare di renderla meno reale, è stato un gioco dettato dall'inconscio mentre mi occupavo della lavorazione.

Il taglio che ho dato, completamente concentrato sull'immagine, senza fornire alcun riferimento spazio temporale di dove provenga lo scatto è stata un'ulteriore riprova che desideravo rendere quella foto il più astratta possibile, scorporandola da una possibile realtà: e questo sempre per il discorso di prima, cioè perché  era una "verità" che avrei preferito non ci fosse. L'apparato percettivo della mia mente ha agito così di fronte a una visione che per me, in quel momento, aveva un impatto emotivo troppo forte per accettarlo così come lo avevo visto nel mondo del reale, nella piazza del mercato di San Cosimato, a Roma, la città dove vivo per buona parte dell'anno, che è un po' casa mia. Poi mi sono domandata che effetto potesse esercitare sugli altri quella stessa immagine e così ho approfittato dei numerosi contatti che ho su Facebook: ho pubblicato la foto sul mio profilo e ho scritto "Le date un titolo?". Questo perché ritenevo  che darle un titolo fosse il modo più immediato per sapere cosa pensasse di primo acchito chi guardava quella fotografia. "La bicicletta", "Cross Booking", "Raccolta indifferenziata", "BookmarkBike", "Domani, giuro, farò ordine in biblioteca", "Trash", "Grattacieli di libri" , "11 Settembre", "Cultura ri-ciclabile", "Pedalate tra le parole", "Circuiti interrotti", "Quel petit vélo à guidon chromé au fond de la cour?", "Bici-colta"... questi sono i titoli che hanno proposto i miei amici. Così, per la cronaca, il titolo della mia foto è "L'insostenibile leggerezza della cultura".

Cosa ho voluto dire con tutte queste parole? Che la convinzione di Shore (e di altri) secondo cui una foto colpisce il sistema visivo ma soprattutto quello percettivo di ognuno di noi è verissimo e vale per tutte le fotografie: belle brutte, artistiche, documentaristiche, non importa. La forza dell'immagine risiede nell'immagine stessa ma anche e soprattutto nel sottotesto, e quello appartiene a ognuno di noi, è individuale, è singolo, è nella nostra libertà di sentire. C'è però  anche un sentire collettivo e il mio piccolo esperimento ne ha dato la riprova: la maggioranza dei titoli racchiude un rimando a un senso di inadeguatezza se non proprio di fastidio alla vista di come sono buttati quei volumi; chiamatelo "inconscio collettivo" se volete scomodare Jung, chiamatelo come vi pare, ma c'è. E, per rispondere alla domanda del perché scatto, è proprio a questo comune sentire che mi rifaccio quando fotografo: misurare se il mio modo di percepire si avvicina a quello del mio "microcosmomondo", fatto di amici ma anche di persone che non conosco e a cui riesco comunque a comunicare qualcosa di mio. In fondo è per questo che scatto, per comunicare, per null'altro che per questo: per comunicare con me stessa - prima di tutto - e con gli altri. Non mi importa se la mia comunicazione sia condivisa in toto, mi basta che comunichi un qualcosa, che smuova un sentimento: "l'essentiel est que je communique", tanto per citare Ben Vautier, l'essenziale è che comunichi.