Quella che segue non è un'intervista vera e propria, non ne ha la pretesa, anche perché non si può circoscrivere un tema come questo a una mera, appunto, intervista, né lo si può risolvere in un semplice articolo; ciononostante si può tentare di parlarne in modo discorsivo al fine di avvicinare un pubblico più vasto, composto anche di non addetti ai lavori, questo almeno è il mio intento; a tal fine mi sono limitata a fare molto semplicemente una "conversazione" con Bonito Oliva, per introdurre chi leggerà in un mondo che poi potrà esplorare per conto proprio, con una propria cartina, con modi e tempi propri, decidendo di approfondire un tema piuttosto che un altro. La scelta di riportare il tutto in forma di domanda e risposta è dettata semplicemente dall'esigenza di renderne più agevole la lettura, che mi auguro piacevole. 

All'inizio dell'anno 2010 si è tenuta una mostra che purtroppo mi sono persa. Sto parlando de "La camera dello sguardo. Fotografi Italiani", curata da Achille Bonito Oliva, su un progetto di "Incontri Internazionali d'Arte", ospitata a Palazzo Sant'Elia, a Palermo. Il termine "camera", nell'intento dei curatori, richiama "La camera chiara" di Roland Barthes, testo indimenticabile e fondamentale per chiunque voglia avvicinarsi alla fotografia in modo non superficiale. La mostra, come dicevo, mi è sfuggita; però sono riuscita a trovare il catalogo e sfogliandolo mi è venuta la voglia di scrivere di fotografia dal punto di vista della critica d'arte. Chi dunque meglio di Achille Bonito Oliva per parlarne? Il discorso sulla fotografia, e in particolare sulla fotografia nell'arte, è molto vasto, articolato, talvolta persino tortuoso, ma è indubbiamente affascinante.

Achille Bonito  Oliva nel suo studiood: Cos'è la fotografia in senso assoluto?

Achille Bonito Oliva: È uno strappo della realtà, così come il restauratore fa uno strappo dell'affresco, e nello stesso tempo è una parentesi, è un sottrarre la realtà dal suo sistema di insieme per stabilire uno sguardo privilegiato, volutamente concentrato; non esiste uno sguardo a 360° nella fotografia in quanto il mezzo lo impedisce, in qualche modo esiste lo sguardo del fotografo, come quello dell'artista; allora è interessante vedere come la fotografia, all'inizio, potenziata dalla sua virtuale moltiplicazione, ha scosso il privilegio dell'unicum artistico, ha trovato una diffusione e nuovi modelli, che non erano quelli della pittura dove c'era il principe, il committente. La fotografia ha cominciato a portare l'occhio, direi un occhio quasi ciclopico, unico, armato anche di pietas: ha iniziato a fotografare gli emigranti, i contadini, niente si sottraeva all'attenzione dell'occhio fotografico e quindi la fotografia ha fondato una democrazia dello sguardo, assecondata dall'aristocrazia del fotografo, che è data dalla sua capacità di produrre, fondare, una sua iconografia personale.

od: A questo proposito, col fatto che la fotografia comunque permette una riproducibilità, mi viene in mente la perdita dell'aura. Mi spiego: prima si poteva vedere La Gioconda al Louvre, La Gioconda era lì, punto. Adesso invece io posso avere in casa mia, non "La Gioconda", certo, però una sua riproduzione sì e quindi mi viene in mente il discorso di Walter Benjamin e, appunto, della perdita dell'aura...

A.B.O.: La fotografia ha sottratto, come dice Benjamin, aura all'arte (il riferimento è al testo: "L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica", ndr), nel senso che per diffondersi la fotografia ha dovuto pagare per molto tempo lo scotto di essere considerata ancillare rispetto alla pittura; adesso non c'è più questo problema, la fotografia è diventata un linguaggio a sé, si è emancipata, non ha complessi di inferiorità, quindi alla fotografia non interessa più il problema dell'aura o meno.

od: Si può dire che la fotografia sia arte tout court o no?

A.B.O.: Sì, per me è arte, è un'arte che lavora sull'istante, su un tempo concentrato, che è quello dello scatto fotografico.

Monica Cillario fotografa Bonito Olivaod: Ma è arte anche quando fa documentazione? Intendo dire, ad esempio, un fotoreporter, che va e documenta... è arte anche quella?

A.B.O.: Dipende. Eugene Smith, ad esempio, questo grande fotografo americano, un prepaparazzo che arriva sul luogo del delitto sempre un momento prima dei poliziotti, ha lasciato delle fotografie che sono straordinarie; quindi quello che è importante è che nella metodologia contemporanea sono saltati i parametri, non esistono più i generi e dunque si può fare un capolavoro anche attraverso un documentario; al cinema, per esempio, se noi guardiamo "La nave bianca" di Fellini, il suo primo film, è un documentario su una nave ospedaliera, ma è un'opera d'arte, anche.

od: Prendiamo l'esempio di Luigi Ghirri: è un grande fotografo, indubbiamente, ma che cosa fa di Ghirri un artista? Perché le sue fotografie sono arte?

A.B.O.: Perché diventano riconoscibili; c'è una poetica sua, tanto è vero che io se vedo una foto, riesco a riconoscere Ghirri. Mentre prima la neutralità, oggettività e impersonalità della fotografia sembrava frutto di una mano impersonale - chiunque poteva fotografare -, poi, man mano, con l'approfondimento, sono uscite delle personalità di fotografi, tipo Ghirri, che hanno personalizzato la ricerca rendendo il proprio linguaggio riconoscibile in quanto portatore di una poetica personale.

od: E la poetica di Ghirri, nella fattispecie?

A.B.O.: È legata alla memoria, è legata diciamo così a una sorta di ossimoro. Ghirri è un inviato speciale nella realtà, è come se avesse alle spalle un viaggio che avviene da lontano.

od: E l'uso del colore che fa non incide minimamente?

A.B.O.: Come no, incide positivamente.

od: Io personalmente sono innamorata delle sue fotografie soprattutto per l'uso che fa del colore.

A.B.O.: Il colore è l'elemento che sottrae la sua foto al reportage.

od: Sempre rimanendo nel discorso della fotografia d'autore, Cecil Beaton che fotografa Marlene Dietrich, quella è foto d'autore?

A.B.O.: Certo che è foto d'autore, è come "Carlo V a cavallo" di Tiziano.

od: Ma allora tutta la fotografia è arte?

A.B.O.: No! Molti sono i fotografi, pochi son gli artisti, ma in ogni campo è così: ad esempio, molti fanno i critici ma sono pochi i grandi critici. In ogni ambito esiste spietatamente una selezione e, nel caso del fotografo, la selezione è data dal quel quid che rende indispensabile, o irripetibile, quello sguardo.

od: La qualità tecnica è indispensabile? Penso a Christian Boltanski, che dal punto di vista tecnico non è perfetto, eppure le sue foto sono opere d'arte, al di là della "qualità". Perché?

A.B.O.: Quella di Boltanski è opera d'arte per il fatto che lui introduce negli anni '70, in anni dominati da forti modelli nordamericani (arte concettuale duchampiana), il tema dell'identità e quindi il problema non è tanto la qualità della foto; anzi, la goffaggine tecnica della foto rafforza la poetica di una soggettività o di una identità tremolante, forse già scomparsa: evoca campi di sterminio, il nazismo, temi comunque forti; quindi possiamo dire che quell'imperizia tecnica è frutto di una grande perizia poetica e artistica.

Catalogo A. Bonito Olivaod: Lei ha curato il catalogo e anche la mostra "La camera dello sguardo" in cui erano esposte foto di alcuni dei maggiori fotografi italiani. Se dovesse riassumere la fotografia italiana?

A.B.O.: Il catalogo è solo la documentazione della mostra in ordine alfabetico perché a mio avviso la foto italiana si caratterizza più per un'identità collettiva legata a un'idea di forma che proviene dalla storia dell'arte (ma storia dell'arte nel senso di memoria rinascimentale); ha sempre una struttura armonica, ha sempre una coscienza dell'occhio fotografico che non improvvisa mai, c'è sempre una messa in posa nella fotografia italiana.

od: E invece nella fotografia francese?

A.B.O.: Lì c'è più il senso del reportage, leggermente, del reportage urbano; come d'altra parte anche nell'Est europeo, con Robert Capa: quando lui va in Spagna e scatta la foto del partigiano che muore, ecco, lì c'è l'inviato speciale che va sulla scena di guerra ed è una tradizione nordeuropea che non a caso si trasferisce anche in America, dove c'è tutto un cinema documentaristico fatto da cineasti che seguivano le truppe americane e gli sbarchi in guerra. E questo perché c'è un'ottica, una visione del mondo che si confà anche alla fotografia, non a caso fotografia e cinema si sviluppano in Francia e in America.

od: Uno dei suoi fotografi preferiti?

A.B.O.: Oliviero Toscani

od: Perché?

A.B.O.: Perché è un artista ed è un artista in quanto ha saputo piegare la pubblicità a fini espressivi, in quanto ha avuto l'onestà di non far scomparire la realtà sottostante al prodotto da pubblicizzare ma ha creato un'associazione, una sovrapposizione.

od: La sua è una scelta estetica o ideologica?

A.B.O.: La mia è una scelta estetica, cioè, l'estetica è così risolta che mi permette di rispettare l'ideologia.

od: "La Camera dello sguardo" è un richiamo a Roland Barthes e al suo libro "La Camera Bianca", fondamentale il testo, fondamentale Barthes per chiudere un discorso sulla fotografia e l'arte: può dirmi qualcosa in proposito?

A.B.O.: Io ho conosciuto bene Roland Barthes, abbiamo realizzato un libro insieme. Sicuramente condivido con Barthes (io condivido, più che lui poter condividere con me) questa idea che è struggente in lui: la fotografia produce linguaggio proprio nella sua parzialità, per la sua inquadratura, per l'ottica, perché seziona la realtà. Io andrei oltre e direi che l'identità della fotografia è quella di tramutare tutto in natura morta, in quanto la natura morta è sempre l'estrapolazione di un frutto da un sistema d'insieme che è l'albero, o di un fiore da una pianta, la fotografia seziona la realtà che si deposita in un'inquadratura.

Terminare questo pezzo senza una chiusa è una scelta voluta, perché è un invito all'approfondimento che ciascuno individualmente potrà fare per conto suo, magari partendo proprio da questa piacevole "chiacchierata" con uno dei massimi esponenti della critica d'arte italiana.

Tutte le foto dell'articolo sono di Monica Cillario.