Paolo BarbuioPaolo Barbuio è un fotografo che vive tra Venezia e Portogruaro, in provincia, lontano dalle luci della metropoli e dai suoi fantasmi, quelli che ti spingono a cercare la via del successo e della ribalta a tutti i costi. Ma non per questo è un uomo provinciale, anzi, ha girato il mondo con i suoi reportage e con la sua voglia di conoscere l'uomo attraverso la luce che passa negli obiettivi della sua macchina fotografica. Tra un set teatrale e uno spot pubblicitario lo intercettiamo per farci raccontare la sua idea di fotografia, nata da una forte passione e perseguita con tutta la forza di un carattere tipico del nord-est, determinato a raggiungere l'obiettivo che si è prefissato. Per capire meglio di chi stiamo parlando diremo solo che è uno dei pochissimi italiani che, nel 2011, si è aggiudicato il titolo di Qualified European Photographer conferitogli dalla FEP, la Federazione Europe dei Fotografi Professionisti.

osservatoriodigitale: Paolo, come sei diventato fotografo?

Paolo Barbuio: Direi con il tempo. Nel senso che non ho intrapreso questa carriera professionale da subito, appena terminati gli studi superiori come probabilmente la maggior parte dei miei colleghi. Finito il servizio militare ho cominciato a lavorare nell'ambiente ma dalla parte commerciale, quella dei fotonegozianti, dopo aver lavorato però come tecnico in un paio di laboratori fotografici che, all'epoca, erano delle vere e proprie palestre professionali, dove ti formavi davvero sul "backstage" della fotografia, su quello che avveniva dopo lo scatto per arrivare all'inversione o alla stampa.

Avevo raggiunto un buon livello nell'azienda per cui lavoravo, ero responsabile d'area con decine di clienti sparse nel mio territorio, quando mi prese la consapevolezza di volere qualcosa di diverso, di entrare davvero nel mondo della fotografia direttamente dalla porta principale. La passione mi aveva sempre accompagnato sin da ragazzo ma ora, sentivo, era giunto il momento di fare sul serio.

Fu così che presi la decisione di iscrivermi a una scuola di Milano, la John Kaverdash, e da li è cominciato tutto. Erano i primissimi anni 90, tutto sembrava leggero e semplice, tutto a portata di mano.

Al contrario, non è stato facile, anzi, devo ammettere che è stata proprio dura: di giorno lavoravo come area manager e il tardo pomeriggio prendevo il treno per andare a Milano a scuola per poi tornare la notte. Se ripenso alla vita che ho fatto in quegli anni, spesso ripeto a me stesso che non so se oggi avrei la forza di rifarla, tanto è stata pesante ma sono contento delle basi che mi ha dato quel tipo di formazione, basi che hanno contribuito decisamente allo sviluppo della mia professione; la scuola ti da una cultura di base e gli strumenti per poterla poi sviluppare da te.

od: Oggi hai un campo d'azione preciso, ben definito, come professionista?

PB: Sì e no. Diciamo che divido principalmente il mio tempo in due attività: il lavoro in studio, prevalentemente fotografia di still life, e quello di reportage. Vista la natura della mia zona territoriale e i tempi che corrono mi capita di frequentare anche altre attività di ripresa che coprono aree molto diverse tra loro, dal ritratto al servizio commerciale fino ad alcuni episodi di wedding. A me fotografare piace davvero quindi non ho timore a dire che mi presto anche a lavori che solitamente non rientrano nel mio quotidiano. C'è sempre da scoprire e da imparare. Pensa che qualche tempo fa, proprio durante un servizio fotografico per un matrimonio, ho conosciuto un amatore che si è avvicinato con la sua Yashica a pellicola, proprio come quella che avevo io da ragazzo. Dopo i soliti convenevoli abbiamo cominciato a parlare di fotografia e abbiamo finito per passare quasi tutto il tempo insieme parlando di questa passione comune: sono riuscito a unire il lavoro con il piacere di scattare, un privilegio che non è consentito a tutti i professionisti che lavorano, indipendentemente dalla professione che svolgono.

Peperoncini Verdi ©Paolo Barbuio 2013

od: Quindi hai un'idea della fotografia molto ampia…

PB: Non proprio, direi che io ho una mia idea di che cosa sia la fotografia e cerco di seguirla. Attraverso il mio lavoro cerco di portare avanti dei valori che, talvolta, la vita riesce a nascondere molto bene. Credo che una cosa siano le opportunità di lavoro e un'altra la coscienza della propria professionalità. Ad esempio, dalle mie parti, ma accade in ogni "provincia", si tende a pensare che la fotografia si riduca tutta a un semplice click. Che cosa ci vuole, basta guardare e scattare, semplice no? Il fotografo, la sua identità professionale viene fatta coincidere con la persona che sta dietro al banco del negozio per stamparti le foto delle vacanze oppure a scattarti le fototessera per i documenti. Anche i committenti dei lavori, spesso, pensano che il tuo lavoro non abbia una vera e propria consistenza. Mi spiego: se un muratore arriva in un'azienda e scarica i suoi sacchi di cemento e le sue pile di mattoni, puoi materialmente intuire quale sarà la portata della sua opera; per un fotografo non è così, arrivi con la tua borsa, metti le luci e scatti, sembra un gioco da ragazzi. Nella fotografia industriale ad esempio, che nel Veneto ha una certa rilevanza, ti puoi trovare a fotografare un nuovo macchinario o un impianto produttivo alti una decina di metri, dentro a spazi limitati nei quali è un problema muoversi. In quel caso il mio lavoro consiste prima di tutto nel sopralluogo, nello studio dello spazio per capire e decidere da quale angolazione riprendere per poter offrire la miglior "rappresentazione" del soggetto. È capitato che qualcuno si interrogasse sul tempo che perdevo a girare di qua e di là senza nemmeno la macchina in mano. Alla fine, quando il risultato c'è, si fatica sempre un po' a far capire che il nostro lavoro è fatto anche di tempo che sembra apparentemente perso. Anche in questo la scuola è stata di aiuto: ho conosciuto professori e professionisti che ci hanno trasmesso idee e suggerimenti importanti. Quello che studiare ti dà sono le basi e gli stimoli a fare poi è importante avere una gran voglia di imparare, di fare e sbagliare, avere gli stimoli e fare proprie le motivazioni che ti spingono a questa professione. Ricordo che quando ho iniziato, una volta preso il diploma, mi sono trovato calato in una realtà molto particolare, quella della fotografia di arredamento. Come è noto in Italia oltre alla Brianza c'è tutta un'area di eccellenza nella produzione di mobili che sta nell'area tra Udine, Pordenone e Treviso e, proprio in quelle aziende, ho cominciato come assistente di un fotografo di arredamento. Il mio lavoro non era solo quello di posizionare le luci e preparare gli scatti: si trattava di fare un lavoro di carpenteria e falegnameria nel senso proprio del termine. Il set andava costruito per intero e non era un lavoro leggero: ancora oggi quell'esperienza mi aiuta molto proprio perché, avendo svolto certe mansioni in prima persona, sono in grado di valutare il lavoro degli allestitori e degli installatori che preparano i set per le riprese in studio o per le manifestazioni fieristiche.

Flamenco ©Paolo Barbuio 2013

od: È stato quello il tuo primo ambito lavorativo?

PB: In modo indiretto perché per fotografare l'arredamento ci vogliono spazi enormi e investimenti iniziali importanti, basti pensare allo studio – che di solito è un capannone industriale – e alle luci necessarie, quindi a quel tempo, quando stavo per fare il passo per diventare professionista, ho preferito dedicarmi ad altri settori. Decisi allora di aprire uno studio piccolo, inizialmente con un collega, poi rilevandolo interamente: è lo studio dove lavoro ancora oggi, senza insegne, senza grandi mezzi ma uno spazio, cresciuto col tempo, dove poter esprimere la fotografia di Paolo Barbuio. I tempi sono sempre stati difficili, fatti di grande concorrenza allora e di poco lavoro oggi ma la voglia e la perseveranza, l'assoluta fiducia in quello che stai facendo e nella qualità delle idee che proponi mi hanno sempre premiato portandomi ad ottenere riconoscimenti importanti da parte di clienti e pubblico, sempre restando però il Paolo di sempre. (Barbuio ha collezionato una serie di premi e riconoscimenti a livello anche internazionale attraverso mostre e concorsi con giurie prestigiose. Lui non ne parla volentieri perché, da buon veneto, dà più valore alle immagini che alle parole: ma sul suo sito è possibile ripercorrere l'intero "palmares" di premi, ndr).

Il lavoro sull'arredamento mi è valso la possibilità di realizzare, anni dopo, una campagna, realizzata interamente a Milano, che coprì quasi l'ottanta percento della rete metropolitana della città. Fu una vera invasione di immagini e cartelloni che suscitarono, in alcuni casi, molto scalpore perché erano giocati sul sottile gioco del doppio senso. Ritraevano infatti modelle in atteggiamenti glamour in set dove l'arredamento era il soggetto principale. Fu molto divertente, oltre che un grosso lavoro. Attualmente sono impegnato con la campagna di un grande produttore vinicolo, Santa Cristina, che, oltre a essere famoso in Italia, è uno dei più fervidi esportatori negli USA: è con questo tipo di aziende che realizzo la maggior parte del mio lavoro, sia in studio sia direttamente nei luoghi scelti dalle aziende stesse.

od: Parlaci del tuo lavoro di reportage che ti è valso anche grandi riconoscimenti.

PB: Sì, è una parte del mio lavoro che mi appassiona moltissimo perché mi permette di continuare una ricerca che non ha mai fine. L'ultimo grande lavoro l'ho svolto nel 2010 a Beslan, nell'Ossezia del nord, in Russia, dove nel 2004 avvenne la famigerata strage nella scuola Numero Uno. Sono andato in quei luoghi perché volevo capire, vedere di persona il posto, incontrare la gente. Mi interrogo spesso sul ripetersi di questi fenomeni sociali dettati da problemi di tipo etnico: basti ricordare Londra oppure Madrid, giusto per citare due episodi drammatici occorsi negli ultimi anni.

Arrivato in Ossezia fui subito affiancato da un interprete ufficiale che però, capii subito, voleva farmi vedere quello che il potere desiderava comunicare: un luogo che si era ripreso dallo shock e che viveva in pace e armonia col mondo. Lo lasciai subito per prendere a mie spese un'interprete che aveva vissuto e studiato letteratura in Italia e che mi fu di grande aiuto. La popolazione locale mi accolse in modo inaspettato, calorosamente come se fossi stato uno di loro. Fu proprio grazie a quel tipo di rapporto che instaurai con loro che mi permisero di entrare davvero nelle maglie del dolore che ancora permeava le famiglie colpite dalla tragedia. Mi accompagnarono al cimitero Beslan, così lo hanno chiamato, il luogo dove trovano sepoltura le oltre 300 persone morte nella strage, tra cui 186 erano bambini. Quello che colpisce è l'aspetto di persone giovani, genitori e nonni, consumati dal dolore. A volte sembra inopportuno anche scattare in certe situazioni: per questo sono tornato da solo in certi luoghi per scattare qualche immagine. Giunto alla scuola ho capito di trovarmi di fronte a qualcosa di disumano. Con gli occhi di chi ha tempo di osservare e di riflettere meglio, rispetto a chi ha visto quell'orrore nei giorni immediatamente seguenti al suo accadimento, ho notato particolari che a una prima occhiata potevano sfuggire. Con il senno di poi, riguardando le immagini una volta a casa, sembrava che le forze d'intervento russo avessero come scopo principale quello di sterminare i terroristi anziché liberare gli ostaggi. Nei muri della palestra e dell'area adiacente non c'era uno spazio che non fosse stato crivellato dai proiettili. Sembra impossibile che addirittura ci siano anche stati dei superstiti. Quando ti trovi al cospetto di certi drammi rielabori anche tutto il tuo modo di pensare alla tua vita; certo poi si torna alla propria quotidianità ma, ti assicuro, qualcosa dentro è cambiato. Lo capisco come professionista ma anche come uomo e come genitore.

Remember Beslan ©Barbuio 2010

È vero che questo reportage mi è valso il premio del FEP nel 2011 ma la soddisfazione più grande, al di là dei riconoscimenti pubblici, è quella personale. Tra l'altro il 10 maggio del 2012 sono stato invitato a tenere una conferenza all'Università di Portogruaro proprio sul mio viaggio in Ossezia. Qualche giorno dopo ne parlò Saviano in una trasmissione televisiva: per fortuna lo avevo anticipato, se no sai che figuraccia… A parte gli scherzi, il reportage è quanto di più vicino al mio sentire la professione che ci possa essere ma non sempre si va da qualche parte per conto di qualcuno. Viaggiare per esplorare ha dei costi che spesso sono difficili da sopportare, per questo sono alla costante ricerca di sponsor che mi seguano nelle mie "imprese".

Il mio prossimo progetto riguarda un altro argomento scottante: i malati terminali. Mi sto preparando da tempo perché è complicato raccontare questa realtà senza rischiare di cadere nel falso pietismo o nel voyeurismo. È un mondo che vive una sua complessità e che coinvolge l'uomo in molti aspetti della sua vita e di coloro che gli stanno intorno e vivono il dramma insieme a lui.

Rubinetti ©Paolo Barbuio 2013

od: Sul tuo sito abbiamo scoperto delle immagini interessanti: uomini volanti, oggetti che sono una via di mezzo tra animali e entità aliene… ma non c'è traccia di questo lavoro di reportage.

PB: È vero, ma nulla di così strano. Credo che il sito sia una sorta di vetrina commerciale dove dici chi sei e che cosa fai: le immagini dei reportage fanno parte di un mondo più intimo che, al limite, può trovare spazio in una mostra. A proposito dell'uomo che vola, come lo hai definito tu, è un personaggio locale che fa il ristoratore e che si è prestato ad alcuni miei scatti riuscendoci, a mio avviso, molto bene. Gli altri sono dei "semplici" rubinetti dalla forma un po' singolare che mi sembrava si prestassero a una interpretazione da science-fiction. Tutto fa parte delle mie ricerche. Ad esempio sto portando avanti un progetto in teatro dove sono alla ricerca della "maschera" indossata dall'attore, non del viso della persona più o meno nota. Mi presento in teatro con un semplice ombrellino per modellare la luce e la fotocamera. In questi giorni sto facendo delle foto in costume proprio al teatro di Portogruaro.

Pane ©Paolo Barbuio 2013

od: Per curiosità, che cosa utilizzi per scattare?

PB: Una Nikon D3 che è sempre con me. Molti mi hanno chiesto come mai non sono ancora passato al modello nuovo ma, sinceramente, trovo che questa macchina risponda perfettamente alle mie esigenze attuali. Ho anche una D300 come secondo corpo che utilizzo davvero poco. Per quanto riguarda le ottiche impiego il 24-70mm f/2.8 e un 85mm f/1.8 per il novanta percento del tempo. Poi possiedo anche un 70-200mm f/2.8 e altre ottiche ma, come si suol dire, just in case… Prima ancora utilizzavo una Nikon D2X che possiedo ancora. Mi riprometto di realizzare un progetto solo con il 50mm, come si faceva un tempo, per vedere se sia possibile portare a casa delle immagini belle e interessanti come allora. Mi ricordo ancora gli scatti realizzati in analogico con la Yashica e il 50mm: si riusciva a catturare un momento grazie all'occhio allenato e alla continua ricerca della posizione, del taglio giusto, che potevi trovare solo spostandoti fisicamente.Oggi vedo molti fotografi dotati di attrezzatura incredibile, con un corredo di corpi e ottiche da far invidia ai professionisti: forse è solo frutto del gusto del possesso perché, il più delle volte, quelle attrezzature non corrispondono alla produzione di immagini altrettanto grandi. Credo che gli zoom, come si insegna in ogni corso di fotografia, tendano a rendere pigri e meno creativi i fotografi anche se, bisogna ammetterlo, talvolta alleviano il lavoro di noi professionisti.

www.paolobarbuio.com

(data di pubblicazione: luglio 2013)