Ilvio GalloApriamo questa rubrica dedicata ai professionisti con un personaggio "particolare": Ilvio Gallo, fotografo, sceneggiatore e regista, che seguirà nel tempo come anima tecnica e spirito guida (e libero) l’evolversi di Osservatorio Digitale. Lo incontriamo nel suo studio in centro a Milano, dove si respira sempre un’aria di grande fermento. Da quanto ci ha raccontato potrete capire perché lo abbiamo definito "particolare".

Osservatorio Digitale: Come nasce l’idea di fotografare per professione?

Ilvio Gallo: Facciamo innanzitutto una premessa fondamentale: un’immagine prescinde dal percorso della luce, si forma nella mente di chi la fotografa non per lo strumento che si usa. Detto questo penso che il motore principale del mio lavoro è la ricerca attraverso le immagini, quindi il supporto utilizzato per sviluppare questi percorsi narrativi è una scelta secondaria che definisce solo il modo con cui registri queste fantasie; mi piace ancora considerare questo come un lavoro di fantasia.

Credo che senza una passione viscerale questo lavoro non ha senso, visto che il lato commerciale è gestito dagli agenti, che si occupano del vero rapporto col mercato. Se si comincia questa attività come business puro si devono cercare subito altri canali, perché, anche se è un’attività artistica, per avere successo contano molto anche le relazioni e i contatti. Al contrario, all’inizio della carriera, ho pensato ad approfondire gli aspetti della ricerca, sullo sviluppo tecnologico, sul percorso della luce, sul tipo di lampade da usare, il valore dell’illuminazione, tutto questo per arrivare a oggi, che so, in base alla mia sensibilità, al mio stato d’animo, senza dubbio quale luce impiegare per ottenere un certo effetto. Fermo restando che faccio ancora questo mestiere per passione, per spirito innovativo, la ricerca è stata la molla che ha generato il mio percorso. Partendo dalla musica.

od: Dalla musica?

IG: Si perché facevo il musicista, suonavo il basso, prima ne Le Anime poi ne I ragazzi della Via Gluck, ma quando ho capito che non sarei mai diventato un vero professionista, capace di esprimere qualcosa di valore superiore allora decisi di entrare in uno studio fotografico. Da subito mi è piaciuto l’odore, l’ambiente, mi è piaciuta la libertà di pensiero, l’assenza di orari precisi, il fatto che si potesse lavorare di notte come di giorno. Poi sono rimasto folgorato da “Blow Up” di Antonioni, che mi ha fatto decidere di andare avanti su quella strada per capire se poteva essere il mio futuro e così è stato, almeno per gli ultimi trent’anni (ride).

od: Verso quali direzioni della fotografia ti sei mosso, quali sono stati gli esempi che hai seguito?

IG: Tanti ma devo fare delle considerazioni: mi sono subito reso conto che la fotografia si era già sviluppata nella sua parte creativa quando è nata; se si vogliono vedere le migliori forme espressive artistiche si vedono quando l’espressione artistica nasce; quando la fotografia è nata i pionieri di quest’arte si sono buttati a capofitto e hanno inventato tutto quello che si poteva inventare. Prendiamo Ansel Adams che si è portato in cima ai canyon una grande macchina per fotografarli, oppure Cartier-Bresson che girava per strada e, quando qualcosa lo emozionava, faceva click; come si fa a superare questi maestri quando ormai non c’è più la stessa energia? A quel punto nasce l’esigenza di guardarsi intorno e scoprire che sta nascendo un nuovo media, il video. Così, da una parte continuavo come fotografo puro mentre cominciavo a sperimentare con le immagini in movimento, stiamo parlando del 1974 e del Super 8. A quei tempi giravo videoclip che non avevano un valore commerciale, perché le tv private non esistevano ma le case discografiche intuivano già la grande potenzialità di sviluppo di questo mezzo ed è per questo che abbiamo dedicato gli anni fino al ’78, per approfondire il linguaggio video; ci siamo inventati un modo per fare le dissolvenze incrociate, cose pazzesche a pensarci adesso, e la sintesi di tutto si può vedere nel video de Le Orme (visibile sul sito di Ilvio ndr) che si conclude con un’inquadratura panoramica che parte da piazza San Marco, si alza fino a scoprire tutta la città di Venezia; abbiamo gonfiato duecento palloncini ai quali era legata una cinepresa super 8: l’abbiamo fatta partire e fatta salire per poi recuperarla con un cavo. Tutte queste esperienze ti emozionano, ti appassionano al punto di spingerti a studiare e provare sempre altre soluzioni.

od: Tutto questo non portava a uno spreco di forze, visto che non ti concentravi solo sulla fotografia?

IG: Certo, questo mi ha portato a fare una scelta precisa, quella della “non specializzazione”, che mi ha fatto capire che l’energia del momento si poteva catturare attraverso vari media. Così ho cominciato a utilizzare anche il grande formato, perché sentivo la curiosità di conoscere tutti gli strumenti e le tecniche a disposizione per poi decidere quale scegliere. La scelta di non specializzarmi, che in seguito ho pagato caro e spesso mi ha penalizzato mi ha fatto capire tuttavia che solo in quel modo sarei cresciuto. Per essere chiaro: la maggior parte del mercato viene data dalla specializzazione poiché se tu devi fotografare food vai da uno che fa solo food ma a me, personalmente, di fotografare solo food nella vita non è mai interessato.

Foto per Romeo Gigli 2001 - (C) Ilvio GalloIo ho approfondito tanti settori che non avevano nulla a che fare uno con l’altro; parlando di moda, con Romeo Gigli, in quattro anni, abbiamo realizzato le più belle immagini di moda di quel periodo (premiate e pubblicate sugli annali della moda mondiale, ndr) però dopo ho smesso perché si era chiuso un periodo. Con l’invenzione della videograph (ripresa video con tecnica fotografica, ndr) avevo trovato in Carla Sozzani un’interlocutrice che aveva accettato questo mio nuovo linguaggio da utilizzare nelle campagne d’immagine e in quell’occasione ho fatto una grande esperienza e delle cose meravigliose, al punto da non volerle più riproporre nello stesso ambito. Questo per spiegare che, ancora una volta, il mio approccio alla comunicazione è quello della sperimentazione. Se mi viene proposto un assignment in cui posso sperimentare io rendo il 200%.

od: Adesso che cosa stai facendo di nuovo?

IG: Sto collaborando con una rivista, Notebook. Mi hanno affidato la parte di Community dove io incontro persone che non sono ancora personaggi; la scommessa è rendere affascinante l’immagine di persone che non hanno mai posato di fronte a una macchina fotografica e, proprio perché era tale, ho accettato. Mi trovo spesso a improvvisare quasi tutto dato che lo scenario tipico è questo: entro in una casa sconosciuta, incontro la persona, la faccio parlare e decido dove posizionare la macchina, rischiando anche il mosso o la luce combinata dell’ambiente con il flash. In questi casi la tecnologia digitale ti viene in aiuto e, se ti distrai un po’ sotto l’aspetto tecnico, certi particolari li puoi aggiustare in seguito però il principio base resta sempre valido: a prescindere da quello che utilizzi “dietro”, l’importante rimane il soggetto inquadrato.

od: Quanto dura un tuo periodo di sperimentazione?

IG: Di solito da due a tre anni perché in questo lasso di tempo riesco ad approfondire l’argomento; dopo mi sembra di non avere più niente da dire. Come nel design dove ho lavorato per Alias Design, inventando un’immagine innovativa, che è ancora oggi molto copiata, quella del personaggio mosso in contrapposizione al soggetto, i mobili, che sono statici. A un certo punto, si è esaurita la vena e sono stato io il primo ad abbandonare la scena perché non volevo cominciare a ripetermi, sentivo di non aver più nulla da aggiungere. Per mia natura devo sempre trovare qualcosa di nuovo che alimenti questa mia passione. A differenza della musica, che è rimasta sempre il comune denominatore di tutta la mia vita artistica. Ancora oggi ho voglia di provare cose nuove, come nell’ultimo video di Carlo Marrale dove mi sono inventato tutto, ho girato senza un Art Director che mi dice cosa fare, dove mi sono divertito a utilizzare vari media come avevo già fatto per i video di Antonella Ruggiero o per quello di Zucchero, dove la cinepresa viene impiegata come una macchina fotografica e viceversa.

od: Come ti vede il mercato?

IG: Sicuramente in modo strano, per la mia mancanza di specializzazione; è difficile collocarmi anche perché io amo parlare direttamente con il cliente per capire esattamente quali sono le sue esigenze: anche per questo è difficile che, in Italia, un Art Director mi chiami. L’unica volta che è capitato è stato quando mi ha chiamato l’Art dell’agenzia della Nike che mi ha cercato per una campagna mondiale ma il discorso all’estero è diverso. In Italia il pubblicitario italiano non ha alcun potere, può solo suggerire qualcosa al cliente, il più delle volte non vuole rischiare il posto e questo è anche comprensibile. Questa è la ragione per cui è sempre il cliente che decide, per via di una mentalità retrograda dove chi decide è chi paga: che cosa vuoi che capisca uno che fa produzione industriale di comunicazione? A parte il patron della Diesel che, da questo punto di vista è un illuminato, e pochi altri, la maggior parte non capisce molto poi si vede una serie di campagne orrende. La peggior comunicazione pubblicitaria del pianeta è quella italiana. Basta guardare la tv francese per rendersi conto che la pubblicità è di gran lunga più intelligente. Ma questo è un atteggiamento che ritroviamo anche nel cinema con i film di Natale: mi meraviglio del seguito che hanno e deduco che l’italiano è un popolo di pecore che si accontenta di poco: dalla pubblicità al cinema. Io non sono certo un rivoluzionario ma non mi sento compatibile con questo genere di prodotti perciò non mi adeguo e cerco di vivere bene, magari alternando periodi di intenso lavoro e relativo guadagno a periodi di relativa calma. Voglio soprattutto sentirmi libero.

od: Parliamo ora dell’aspetto tecnico del tuo lavoro. Il tuo passaggio al digitale.

IG: All’inizio, per curiosità, mi ero avvicinato al digitale con una Minolta che, oltre a essere piacevole da vedere, aveva un’ottica molto buona ma tutto era rimasto a livello di piacere.

Immagine per Alias 2004 - (C) Ilvio GalloNella professione ho sempre utilizzato Nikon, poi Canon e Hasselblad con ottiche Schneider per il grande formato, un piacere da utilizzare e nulla mi dava ancora lo stesso piacere e gli stessi risultati. Improvvisamente, circa tre anni fa, concluso il lavoro con Alias, dove avevo richiesto specificatamente di lavorare in pellicola, nessuno ha più richiesto l’impiego di questi strumenti, nessuno mi ha chiesto di superare certi limiti (perché allora il digitale aveva dei limiti, non si poteva usare agilmente la posa B e non c’era la posa T, che mi permetteva certi effetti). Allora mi sono adattato e, dato che avevo un buon parco ottiche Canon, quando è uscita la prima macchina digitale Full Frame l’ho acquistata e oggi lavoro con una 5D con cui faccio tutti i lavori. In pellicola ormai riprendo solo l’arte; lavoro da sempre con alcuni pittori che mi richiedono il grande formato 10 x 12 sul banco ottico, che mi fa ancora molto piacere utilizzare, qui in studio, con una luce già pronta, lavori belli e semplici ma che sono il passato. Oggi tutto è diverso: un mio collaboratore, ad esempio, stava facendo un lavoro per un’azienda di occhiali e aveva in diretta, via internet, l’Art Director da New York che gli chiedeva di modificare una luce o di cambiare l’inquadratura. Io ero allibito ma capisco che si lavori così perché forse l’emozione sta nel fatto che tu da New York guardi lavorare uno a Milano. Così va il mondo e anch’io navigo altri mari, è cambiata la struttura del vascello e io mi adeguo anzi devo dire che dedico molto più tempo alla post-produzione rispetto a prima anche se desidero sottolineare che un professionista quando fa click fa sempre un definitivo, a prescindere dal mezzo con cui scatta perché, come dicevo all’inizio, è sempre nella tua testa che si forma l’immagine.

od: Quando il digitale è apparso molti professionisti dicevano che non valeva l’analogico. Per paura del nuovo o era verità?

IG: Con il digitale, intanto, si può sperimentare molto di più e poi bisogna ricordare che anche le pellicole non sono sempre state fantastiche perché, negli anni 60, erano decisamente “rozze”. Se volevi avere una fedeltà cromatica, dovevi utilizzare il Kodachrome, che era l’unica pellicola ad avere uno spettro di frequenze attendibile, tutto il resto era quasi un disastro. In seguito anche le pellicole si sono evolute: negli anni 70 mi ricordo, ad esempio, che le Ektachrome 64 avevano delle dominanti forti; a tutto questo si doveva aggiungere anche l’atteggiamento dello sviluppatore, dalla frequenza con cui cambiava i bagni degli sviluppi, che incideva nel cromatismo, e così via. I nostalgici non dovrebbero dimenticare che cosa erano le pellicole in quegli anni. Allora avevi a disposizione la Kodak, l’Agfa se dovevi usare le luci al neon perché forse sui verdi ti dava qualcosa in più, però pochi erano così evoluti da comprenderne a fondo la differenza. Non dimentichiamo anche che il costruttore dava alle pellicole una sua filosofia cromatica: ad esempio Fuji aveva dei verdi smeraldo e Agfa aveva dei gialli che Kodak non aveva.

Lo stesso vale per il bianco e nero: prima c’erano solo le Ilford, che hanno fatto storia, ma a un certo punto anche Kodak, con la serie T, aveva creato delle pellicole B/N eccellenti, ancora una volta per dimostrare che anche in quel campo c’è stata una grande evoluzione. Adesso col digitale il B/N non è un problema proprio perché il RAW è una serie di informazioni in bianco e nero. L’approccio difficoltoso è stato col colore perché i fotografi “vedono” in bianco e nero, in scala di grigi, perché leggono la luce nelle ombre.

od: Raccontaci come hai imparato.

IG: Osservando quello che facevano gli altri; ho passato anni a sfogliare riviste per cercare di capire quello che aveva fatto il fotografo. Le scuole di fotografia in Italia non esistevano, dovevi andare in Svizzera, come ha fatto Oliviero Toscani, o negli Stati Uniti; ma io, che venivo dal proletariato più basso, figlio di emigranti, mi sono dovuto arrangiare sfogliando le riviste e studiando. Ad esempio per capire come ha operato un fotografo in un ritratto? Dal riflesso negli occhi che, riflettendo tutta la scena, ti danno la possibilità quanto meno di capire la luce frontale.

Una Giornata Uggiosa - foto di Ilvio Gallood: Qual è stato il tuo “maestro” e quale sarà il tuo futuro?

IG: Non ho avuto un vero maestro: ho affiancato un altro musicista votato alla fotografia, Antonio Guccione, che, a sua volta, aveva lavorato con Silvio Nobili. Diciamo che il mio maestro vero è stato il tempo che ho speso a guardare e capire come lavoravano gli altri. Per il futuro sto preparando un film come regista e sceneggiatore. Mi manca questa esperienza e sono molto eccitato all’idea di raccontare una storia, in parte anche autobiografica, che racconti un po’ questi ultimi 35 anni.

od: C’è qualcosa che rimpiangi del passato, anche tecnicamente parlando?

IG: No, direi di no. Non mi sono mai affezionato allo strumento di lavoro; non mi è dispiaciuto passare da Nikon a Canon: avevo letto una ricerca sulle ottiche Canon che mi aveva incuriosito molto. Sono andato in Africa a fare un lavoro e mi sono portato, insieme alla mia attrezzatura Nikon una Canon. Ho scattato tutto allo stesso modo e ho fatto delle valutazioni. Mi è piaciuto molto il risultato che avevo ottenuto con le nuove ottiche così ho venduto tutto e sono passato a Canon. Per l’Hasselblad il discorso è diverso: all’inizio l’ho utilizzata perché il formato quadrato mi aiutava nel realizzare le copertine degli album poi mi ha dato così tante soddisfazioni che possiedo ancora l’intera attrezzatura.

Un aspetto della nuova tecnologia che mi piace moltissimo è che non inquina: per lavorare in pellicola si utilizzava una quantità di materiale inquinante da brivido, tutte cose che mi fanno apprezzare il digitale ancora di più.

od: Che cosa pensi di fare per od?

IG: Mi piacerebbe spaziare di volta in volta su argomenti diversi, confrontandomi anche con quello che avviene all’estero, sentendo un po’ anche il pensiero di amici e colleghi che stanno negli USA o in Australia. È un po’ il mio carattere che mi porta a vagliare diverse situazioni. Anche perché io, devi sapere, sono un Gallo che… vola!

Il sito di Ilvio si trova all'indirizzo www.ilviogallo.it

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