davide mengacci

Il fotografo di questo mese è un personaggio che moltissimi, direi tutti, conoscono ma identificano con un’altra professione, quella di conduttore televisivo, che lo ha rivelato al grande pubblico. La sua voce, oltre che il suo volto, è famigliare ed entusiasma sentirlo parlare di esposizioni e bianco e nero, della sua voglia di fotografia con un sapore molto personale e della sua carriera di artista dell’immagine, così lontana dall’idea che il mondo virtuale dell’audience radiotelevisiva si è creata nel tempo ignorando che la sua prima professione è proprio quella di fotografo: Signore e Signori, Davide Mengacci.

osservatorio digitale: Parliamo un po’ del Mengacci fotografo?

Davide Mengacci: Fotografo ormai da più di quarant'anni: sono nato nel 1948 ed ho iniziato a undici anni con una Comet S Bencini. Nato come fotografo, in seguito sono diventato conduttore televisivo ma non ho mai parlato pubblicamente di questa mia prima attività perché sono sempre stato convinto che questa esperienza appartenesse solo alla mia sfera personale e che non interessasse minimamente il pubblico televisivo; una sensazione che si è rivelata sbagliata, contraddetta dal grande successo che ho ottenuto, anche recentemente, con le mie mostre e con la pubblicazione dei miei libri di fotografie. Dal 1965 al 1986 ho fotografato la realtà che mi circondava (a Parigi e in molte altre città ma soprattutto nella mia Milano), inizialmente per un piacere personale poi per la cronaca milanese de Il Giorno e de La Repubblica continuando la carriera con il reportage geografico per il mensile QuiTouring (la bella pubblicazione del Touring Club Italiano, ndr).

Notre Dame – Parigi – 1978

Nel 1986 l’inizio dell’attività televisiva – fin da subito molto intensa e coinvolgente – mi ha costretto ad accantonare quella fotografica che ho ripreso solo vent’anni dopo, all’inizio del 2006, quando la televisione mi ha lasciato di nuovo un po’ di tempo libero. In quel periodo ho esposto alcuni dei miei vecchi scatti al “Centro Italiano della Fotografia d’Autore” di Bibbiena (Arezzo) in occasione della mostra “Fotoamatori insospettabili”, ottenendo un grandissimo interesse del pubblico e dei media.

Villa Reati – Lissone – 2006

od: Ma perché attratto proprio dalla fotografia?

DM: Come la maggior parte di quelli della mia generazione io sono nato con la macchina fotografica in mano, un po’ come oggi i ragazzi nascono con il mouse del computer fra le dita. Ci sono, tuttavia, anche dei motivi personali che mi hanno avvicinato alla fotografia in modo deciso, uno di questi è stata l’attività che mia madre, costumista al Piccolo Teatro e alla Scala, svolgeva nel 1966: era diventata anche redattrice di moda a Vogue Italia e frequentava, per lavoro, i più importanti fotografi di moda dell’epoca come Alfa Castaldi e Ugo Mulas. Queste conoscenze, delle quali godevo anch’io diciottenne, mi affascinavano e mi hanno segnato a tal punto da spingermi ad iscrivermi al corso serale di fotografia dell’Umanitaria di Milano, pur frequentando l’ultimo anno di Liceo. In quelle aule ho imparato le tecniche del mestiere di fotografo che - avevo deciso - sarebbe stato il mio lavoro.

Qualche anno dopo, purtroppo, scomparve mio padre, che aveva un’agenzia di pubblicità internazionale e io, giocoforza, mi sono dovuto occupare dell’azienda di famiglia accantonando forzatamente, per la prima volta, la fotografia. La seconda interruzione accadde, come ho già detto, a causa del mio lavoro in televisione: i meccanismi dello spettacolo sono così accentratori che non ti permettono di fare altro.

od: Quali sono stati i suoi principali strumenti di lavoro?

DM: Parecchi, molti dei quali, ben mantenuti, fanno bella mostra in una teca in casa mia. Dopo la Comet S che mi regalarono i miei genitori, mio padre mi lasciò utilizzare la sua Kodak Retina I. Possiedo ancora entrambe e le conservo gelosamente. Ai tempi della scuola all’Umanitaria possedevo una Rolleiflex 3.5 f. mentre, con i primi guadagni da fotografo mi sono comprato quella che era la fotocamera più ambita dell’epoca: una Nikon F Photomic nera. In studio ho utilizzato anche Hasselblad e Linhof a banco ottico. Per il reportage ho incominciato ad usare le Leica; dapprima una R4 che vendetti ad un amico professionista: Nando Mutarelli per acquistare una Leica a telemetro, la M4P. Stiamo parlando del 1974. Due anni fa (nel 2006, ndr), a più di trent’anni di distanza, ho ricomprato da Mutarelli la mia vecchia Leica R4 che lui aveva usato poco ma conservato con cura. Adesso sonnecchia nel mio studio insieme alle altre mie fotocamere analogiche. Quando, due anni fa, ho ripreso a fotografare mi è venuto naturale farlo usando le tradizionali tecniche e le apparecchiature della fotografia tradizionale; guardavo al digitale con diffidenza e un atteggiamento fortemente critico. Quel tipo di tecnologia non mi piaceva proprio! Per quasi due anni ho sovrapposto le due tecniche ricomprandomi tutte le fotocamere analogiche che conoscevo (Leica compatte, Hasselblad X-Pan, Mamyia, Contax…) e ho avuto anche due tipi di Canon EOS (una coppia di EOS 3 ovviamente analogiche e una coppia di EOS 5D digitali con un corredo completo di ottiche che andavano dal Fish Eye fino al 400mm. Mi sono convertito definitivamente e con entusiasmo al digitale solo nel luglio del 2007 ritornando al primitivo amore per Leica: oggi uso una Leica M8 con tre obiettivi che costituiscono gli strumenti ideali per il mio tipo di fotografia che è quasi esclusivamente di contenuto, in bianco e nero e profondamente riflessiva, una fotografia che necessita di un corpo macchina leggero e maneggevole ma che mi permetta di controllare completamente il lavoro a cominciare dall’esposizione e dalla messa a fuoco manuali fino all’osservazione –attraverso il mirino ottico a telemetro – di una porzione più ampia di quella che abbraccia l’obiettivo. Possiedo anche una Leica Digilux 2 e una Leica C-Lux, che utilizzo per gli appunti fotografici e che porto sempre con me. Non c’è dubbio che il mio modo di lavorare sia stato molto influenzato dalla mia antica amicizia con Gianni Berengo Gardin. All’inizio lui faceva dei lavori per la mia agenzia di pubblicità – quella che avevo ereditato da mio padre – poi, poco a poco abbiamo stretto un sodalizio che ci ha fatto persino pubblicare un libro: “Viva gli Sposi” (1992, Mondadori). In questo libro raccontavo le esperienze e gli aneddoti curiosi di una delle mie trasmissioni televisive più fortunate: “Scene da un matrimonio” libro nel quale io ho scritto il testo e Gianni ha fatto le foto.

Piazza Duomo – Milano – 1984od: Questa convivenza dell’analogico con il tradizionale continua?

DM: No, dallo scorso luglio (2007, ndr), come dicevo, sono passato in esclusiva al digitale. La diffidenza iniziale era dovuta a una scarsa conoscenza dell’argomento e delle sue tecniche. Avevo bisogno di imparare e sperimentare per ritrovare i punti cardinali della fotografia tradizionale ad esempio attraverso le stampe. Grazie alla fotografia digitale mi sono potuto riappropriare dell’intero processo fotografico, dalla ripresa alla stampa. Adesso faccio di nuovo tutto io come facevo un tempo in camera oscura; ho due stampanti Epson di qualità, una caricata con inchiostri K3 Ultrachrome e l’altra con inchiostri Piezography K7.

od: Il gusto di lavorare in camera oscura?

DM: Si, quello l’ho ricreato con Photoshop, che uso come strumento da camera oscura (Adobe, la software house di Photoshop, un tempo ne aveva tratto una versione più agile e specializzata dedicata al trattamento delle fotografie chiamata Digital Darkroom – camera oscura digitale – in seguito non più prodotto, ndr) ma solo con pochi interventi mirati. Non sono un purista e non desidero orientarmi in quella direzione, voglio dire che gli unici interventi che faccio sono quelli che facevo, appunto, in camera oscura. Lavoro solo sul contrasto, sull’esposizione, sulle mascherature e, come ultimo intervento, la spuntinatura; tutte pratiche come quelle che ho usato per quarant’anni. Come dicevo, le mie sono foto di contenuto, il loro aspetto formale è in secondo piano quindi penso che non abbiano bisogno di modifiche creative, ricostruttive o di trasfigurazioni dopo lo scatto. Anche per questo motivo scatto solo in bianco e nero che mi aiuta ad evidenziare l’essenza dell’immagine. Ripeto, però, che non sono contrario alla post-produzione che può aiutare a rendere migliore una fotografia e chi la sa usare veramente bene può trarne grande vantaggio anche ai fini della comunicazione. Mi spiego meglio: io penso che ogni foto racconti una storia e una storia non deve essere vera, deve essere bella!

od: Lei parlava prima del suo rifiuto del digitale, è ancora così diffidente?

DM: Certamente no. Oggi che uso quotidianamente la fotografia digitale ne ho scoperto i rivoluzionari vantaggi ma questo non mi impedisce di riconoscerne il principale difetto rispetto alla fotografia argentica: la fotografia digitale è molto lenta. Può sembrare un controsenso ma se è vero che la fase di ripresa può essere velocissima, la fase di “sviluppo” del file può diventare estremamente lunga e laboriosa e pretendere dei tempi che diventano inaccettabili per un professionista che deve consegnare il lavoro puntualmente. Teoricamente si potrebbe continuare all’infinito a ritoccare ed elaborare una foto digitale dopo che questa è stata scattata e questo, secondo me, è un limite.

od: Come fotografa, a caso o con un’idea precisa?

DM: Il mio atteggiamento nei confronti della fotografia è condizionato dal mio originale approccio professionale, maturato quando ho iniziato a lavorare. Così, ancora oggi, fotografo solo se ho uno scopo concreto per farlo, non esco di casa con la macchina fotografica “a caccia di belle immagini”;

Isola Garibaldi – Milano – 1969

fotografo solo per uno scopo preciso, che può essere di tipo economico, come nel caso del libro e della mostra sulla città di Lissone (“Davide Mengacci a Lissone e Altrove”, 2007, Edizioni Museo d’Arte Contemporanea – Lissone) oppure per preparare il materiale per una mostra. In ogni caso non fotografo mai a caso. Tra l’inizio del 2006, anno che ha segnato il ritorno attivo di Mengacci alla fotografia e fino ad oggi sono state numerose le opportunità di vedere e conoscere la sua opera, attraverso libri e mostre in diverse città d’Italia. Lo scorso novembre è stato pubblicato il suo libro più recente: “La Milano di Davide Mengacci 1965-1985 Da capitale morale a capitale da bere” (Carte Scoperte Editore – Milano) presentato con una importante mostra al Palazzo Affari ai Giureconsulti nel centro di Milano, patrocinata dal Comune di Milano che ne ha riconosciuto il valore storico per la Città.

In quell’occasione ancora più pubblico ha avuto modo di scoprire la sensibilità e la bravura di questo fotografo-conduttore televisivo che ha dimostrato di poter stare con eguale eleganza e signorilità da entrambe le parti dell’obiettivo.

www.davidemengacci.it