Gianni Canali

Con il profilo di questo mese dedicato a Gianni Canali raccontiamo una storia nella quale si possono certamente identificare molti suoi colleghi appartenenti a una generazione che, nata in camera oscura e mossi i primi passi in analogico, ha intrapreso il cammino verso il digitale senza farsi sviare dalla rincorsa alla tecnologia fine a se stessa, bensì mantenendo sempre l'approccio concreto di chi semplicemente cerca di ampliare la propria ideale cassetta degli attrezzi per giungere nella maniera migliore al risultato che si ha in mente. Quando la creatività è l'unica, vera bussola, il viaggiatore non è più un semplice turista bensì un conoscitore di luoghi e di persone.

Ho conosciuto Gianni su un set fotografico dove, insieme alla sua équipe, stava svolgendo un lavoro. Mi hanno colpito subito la sua eleganza e tranquillità, doti difficilmente riscontrabili in situazioni ad alto stress come una sfilata, dove sbagliare non è ammesso.

osservatorio digitale: Quali sono stati i tuoi primi passi nel mondo della fotografia?

Gianni Canali: Ho cominciato per piacere, come si fanno tante cose da giovani: uno ama la musica, un altro si appassiona alla fotografia... il mio caso è stato quest’ultimo. Ho iniziato a fare i primi lavori non per la pubblicità, come molti, ma fotografando opere d’arte e il loro restauro. Un lavoro interessante, spesso con la Soprintendenza (delle Belle Arti, ndr), dove mi era richiesto di riprendere pale d’altare, tele del Lotto e così via.

od: Quindi la tua formazione è avvenuta sul campo.

GC: Oltre a quello ho iniziato a frequentare i corsi dell’Istituto Europeo di Design di Milano, dipartimento di fotografia, e in seguito ho aperto uno studio con altre persone che col tempo si sono però allontanate e hanno scelto strade diverse: dal 2004 lo mando avanti da solo. Ho cominciato a lavorare in pubblicità nel 1990 e devo dire che certi aspetti importanti del mio lavoro, come la ricerca continua della qualità e il mantenere costante l’alto livello di professionalità, mi vengono sicuramente dalla formazione ricevuta allo IED: nel nostro settore purtroppo spesso non è così, ma sono contento che, nonostante per la maggior parte del tempo io lavori in provincia, queste sono caratteristiche che mi vengono riconosciute dal mercato.

Ho iniziato a occuparmi subito di post produzione in modo serio, da quando la tecnologia ne ha reso possibile l’impiego a livello professionale; dai primi anni '90 ho acquistato i primi computer con tanta RAM, cosa che allora significava grossi investimenti, per poter lavorare con immagini di un certo tipo. Già da allora facevo riprendere le immagini in fotolito e poi le riacquisivo sul computer per poterci lavorare. Provavo a sovrapporre le immagini e a combinarle tra loro, fino a quando ho raggiunto l’obiettivo di realizzare un certo tipo di immagine. Da allora non ho mai smesso perché da subito ho scoperto che, percorrendo questa strada, si andava incontro a possibilità creative molto interessanti, ovviamente rese più semplici, se così si può dire, dall’arrivo del digitale nel mondo della fotografia, fatto che ha reso tutto il processo almeno più veloce.

od: In quali settori ti sei mosso principalmente?

GC: Diciamo che i settori che ho sempre toccato sono stati quelli della corporate image, l’immagine aziendale, che mi ha dato la possibilità di lavorare a contatto con le persone, soprattutto quelle comuni che non sono abituate a posare per una macchina fotografica e che vanno stimolate affinché possano dare il meglio di sé comunicando la loro professione attraverso lo scatto. In questo devo dire che ho avuto un grande maestro in Edward Rozzo che è stato direttore dell’Accademia di Belle Arti di Bergamo per quattro anni e per nove il direttore del miglior corso di fotografica a livello universitario, proprio quello dello IED di Milano. Io l’ho invitato e incontrato anche a varie mostre e incontri professionali che abbiamo organizzato come SIAF/CNA, di cui sono stato presidente della sezione di Bergamo per diversi anni, oltre che membro del consiglio regionale e dell'assemblea nazionale.

Nei primi anni '90 Rozzo è stato la persona che mi ha dato davvero molto, mi ha insegnato molto sul rapporto da tenere con le aziende, sul modo di porsi davanti agli incarichi dove ci si occupava di immagine aziendale. Lui è di origine canadese ma, per sua stessa ammissione, ha preferito trasferirsi per diventare un numero uno piuttosto che rimanere uno dei tanti nel suo paese d’origine. Quando negli anni '60 è arrivato in Italia la sua preparazione ad altissimo livello e la sua sensibilità lo hanno fatto diventare subito un personaggio importante nel suo campo, dando il segno e l’indirizzo a tanti altri fotografi. Questo è stato un mondo in cui mi sono sempre mosso con naturalezza, perché mi piace e dal quale ho avuto molti riconoscimenti, forse anche perché cerco sempre immagini con una certa naturalezza, per esempio non quelle con luci fredde e innaturali tipiche del mondo giapponese. Cerco sempre di reinterpretare l’ambiente da fotografare utilizzando quello che trovo, anche quando mi capita di lavorare in uffici davvero brutti o in situazioni davvero povere dal punto di vista visivo: lo scopo è sempre quello di comunicare qualità, efficienza, servizio e produttività partendo da ambienti che sono tutt’altro che utilizzabili, almeno a prima vista. Lavorare negli showroom o negli studi è ovviamente tutta un’altra cosa, anche se trovarsi a lavorare in ambienti “difficili” è molto stimolante, ti spinge a trovare e provare soluzioni diverse. Confesso che questo tipo di lavoro mi piace davvero molto.

od: Altri mondi?

GC: Still life e pubblicità e tanto lavoro di post produzione. Ho realizzato foto anche per calendari particolari o, sempre nell’ambito dell’arte, ho lavorato alla preparazione di immagini che hanno ricoperto Palazzo Ducale a Venezia durante il suo restauro oppure a una gigantografia con la rielaborazione di un dipinto del Canaletto che, per conto del Credito Bergamasco e della Fondazione San Marco, è stata esposta a lungo sul Palazzo Ducale. Questi lavori mi hanno permesso di crearmi un nome e di diventare un po’ un riferimento. Oggi agenzie di pubblicità o clienti diretti si avvalgono della mia struttura per realizzare un certo tipo di lavoro, ad esempio anche la sola post produzione di immagini già esistenti o elaborazioni particolari che comportano sia ripresa che elaborazione digitale. Questa struttura, che ho costruito nel tempo insieme a un gruppo di collaboratori, è in grado di seguire tutto il ciclo dell’immagine, dalla ripresa digitale alla sua forma finale.

od: Ma quanto conta la formazione fotografica nel mondo della post produzione?

GC: Credo che conti davvero molto: ti aiuta soprattutto quando si trattano luci e ombre, un mondo tipico dei fotografi. Se le conosci puoi facilmente riprodurle in maniera corretta, naturale. Certo le tecniche le puoi apprendere attraverso corsi ed esperienza, la sensibilità invece è una dote personale che possiedi oppure no. Negli anni, comunque, l’insieme delle due cose mi ha dato la possibilità di raggiungere risultati importanti. Per un grosso cliente che produce distributori automatici, Zanussi (poi diventata N&W Globalvending), da circa cinque anni realizziamo le immagini dei calendari per campagne promozionali a livello mondiale. Ogni volta è una nuova sfida: l’anno scorso abbiamo lavorato sul loro pay-off “The art of break” per realizzare immagini che, partendo da sei quadri famosi, vedevano il personaggio principale del quadro esposto in un museo lasciare la tela per godersi una pausa con un caffè o uno snack. Inizialmente sono state acquistate delle immagini di stock di un museo, così come quelle di alcuni dipinti famosi, come la Primavera del Botticelli o il Baro del Caravaggio. Poi in studio sono state scattate le immagini degli attori in abiti di scena e dei distributori automatici. In post produzione è stata costruita la scena e composta l’immagine finale: una bella sfida anche questa che, pare, abbiamo vinto molto bene.

od: Molti tuoi colleghi demonizzano la post produzione perché, dicono, porta alla generazione di immagini finte, sintetiche, mentre mi sembra di capire che tu ne sia un profondo estimatore, che tu la consideri come uno strumento creativo a tua disposizione.

GC: Assolutamente sì, perché io parto da un concetto che è quello dell’immagine finale: poi, come ci si arrivi, mi è del tutto indifferente. Recentemente ho fatto un lavoro per la campagna stampa per il nuovo sito Web de L’Eco di Bergamo, dove si ritraevano personaggi curiosi e, in quel caso, tutto è stato frutto della ripresa originale al di là dei soliti ritocchi alla cromia o della luminosità: post produzione ai minimi livelli. Sono d’accordo sul fatto per cui è possibile e facile arrivare ad abusare degli interventi correttivi sulle immagini, soprattutto quando si tende ad aggiungere qualcosa di più, mentre io sostengo che sia meglio cercare di andare a levare, al fine di mettere in risalto il punto principale dell’immagine, il vero punto focale. È nella sintesi che trovi l’elemento vero e peculiare di un’immagine.

Faccio un esempio che parte da qualcosa di diverso ma che ha uno svolgimento parallelo: prendiamo le immagini del miliziano caduto di Robert Capa o degli amanti di Robert Doisnau, che molte fonti danno ormai per assodato che siano falsi, delle opere costruite perché gli attori hanno provato e riprovato la scena. Eppure, quando queste immagini sono arrivate al mondo attraverso le pagine di Life Magazine, tutti pensavano che fossero vere perché rappresentavano in modo realistico ciò che accadeva nel mondo a quel tempo.

Nel primo caso fu il fratello di Capa che scoprì casualmente tutti i negativi con il miliziano della guerra civile che cade, e si accorse che questo veniva fatto cadere molte volte prima di raggiungere quell’idea che ha portato alla foto finale. I puristi penseranno che questo è inammissibile, che l’immagine dev’essere una sola ma, secondo me, non sarà mai realtà perché la realtà la vivi solo se sei presente in quel momento, la fotografia invece ne è sempre una rappresentazione oggettiva.

Oggi, tuttavia, se prendi un auto e la posizioni in Canada, per dire, in modo realistico e la ambienti in maniera perfetta, tutti plaudono a questo tipo di immagine. Parlando di auto in particolare, per realizzare delle immagini oggi si ricorre alla computer grafica più evoluta dove, spesso, anche le stesse auto vengono costruite virtualmente. Anche io ho seguito e tenuto dei corsi sulla CGI e su Cinema 4D (software di modellazione e animazione tridimensionale, ndr) e da poco li sto introducendo anche nel mio flusso di lavoro di studio. Sono dell’idea che col tempo si fotograferà di meno anche se un certo tipo di soggetti, come la moda e le situazioni emozionali, rimarranno sempre appannaggio di chi scatta.

od: Mi dicevi che hai cominciato per passione. Quali sono stati i tuoi primi strumenti di lavoro?

GC: Si, ho cominciato intorno ai vent’anni, per passione. Insieme a degli amici avevamo seguito dei corsi e poi costruito una camera oscura per sviluppare in bianco e nero. Ricordo che ero partito con una Yashica per passare quasi subito a Contax con gli obiettivi Zeiss. Poi sono giunto alla prima Hasselblad, passando anche da una biottica Rollei che era ideale per fotografare i quadri per la qualità e per il formato 6x6 che veniva richiesto dalla Soprintendenza che mi affidava i lavori.

A un certo punto sono passato al banco ottico Sinar e poi ho cominciato con il digitale utilizzando dei dorsi PhaseOne su Hasselblad HC normale e poi sulla Hasselblad H2D. Come reflex mi sono spostato su Canon perché, oltre alla qualità delle ottiche, anche discutendone con alcuni colleghi sembrava che Canon fosse un po’ più avanti nello sviluppo di questo mondo. Spesso lavoro utilizzando i due sistemi insieme e ne vengono dei risultati molto buoni. Con i dorsi non è possibile lavorare ad alte sensibilità perché le immagini diventano impossibili e la qualità scende visibilmente. Nelle reflex invece i sensori CMOS sono perfetti per fare lavori di ripresa anche a sensibilità elevate, siano esse Nikon, Canon o altre.

Con i dorsi invece già a 200 ISO hai risultati qualitativamente insufficienti forse proprio per la differenza che c’è tra il sensore CMOS e il CCD dei dorsi. Spesso io utilizzo il dorso quando devo riprendere soggetti le cui foto poi verranno ingrandite anche fino a sei metri di lato ma la quantità di luce che devo impiegare è davvero notevole. Ovviamente la quantità di pixel del dorso digitale paga.

od: Al di là della post produzione quindi conta ancora molto l’esperienza del fotografo?

GC: Certo, indubbiamente. Ricordo in modo particolare un lavoro dove dovevo riprendere una tela del Moroni, un’opera di tre metri per quattro e mezzo in una sala molto piccola: utilizzare la doppia polarizzazione sulle fonti di luce per evitare delle macchie luminose sul quadro, una tecnica che impiegavo un tempo, mi è servita molto anche se ormai gli scatti li facevo tutti in digitale.

od: Parlaci un attimo di questa tua tecnica di doppia polarizzazione che credo interessi moltissimo ai nostri lettori, se non è un segreto…

GC: È semplice perché consiste nel mettere dei filtri polarizzatori alle lampade e uno all’obiettivo e poi incrociarli al fine di ridurre tutti i riflessi che si possono creare sul soggetto. Se utilizzi il filtro solo sull’obiettivo puoi limitare i riflessi solo parzialmente, se lo incroci con i filtri sulle lampade puoi mettere i punti luminosi anche con angolazioni spinte laddove gli spazi per lavorare siano ristretti. Così puoi riprodurre il quadro fedelmente senza disturbi luminosi. Questi accorgimenti li ho appresi quando andavo nelle chiese del Veneto a fotografare i quadri del 700 per Electa Mondadori, e mi trovavo in situazioni limite dove il soggetto era in un angolo e, magari, potevi illuminarlo solo da un lato dato che non era possibile staccare una pala di cinque metri…

Credo che l’esperienza sia sempre un aiuto enorme e sia fondamentale poterla spendere in qualunque modo ci si trovi a lavorare. È necessario non tenere mai atteggiamenti snobistici quando ci si trova davanti a situazioni difficili, come ad esempio dover fotografare in una fabbrica buia e sporca con la gente che, nonostante la tua presenza, deve continuare a lavorare: in quel contesto, anche se ti puoi imporre un po’, devi comunque lavorare entro certi tempi e imparare a muoverti, perché alla fine devi portare a casa delle immagini di qualità se vuoi che il cliente sia contento - e questo è tutto un bagaglio di esperienze che poi utilizzi sempre, a prescindere dalla release del software che utilizzi o del tipo di macchina che usi per scattare.

od: Hai qualche esempio sotto mano?

GC: Per la N&W Globalvending abbiamo curato il calendario del 2005 realizzando un'immagine di ognuna di sei capitali d’Europa sul tema del viaggio. In queste immagini ho voluto inserire una finta comunicazione che riguardasse i prodotti del cliente. Come nel caso del museo avrei potuto acquistare delle immagini da stock e poi lavorarci in post produzione, ma io volevo qualcosa di diverso, di originale, di particolare. Così sono partito, documentatissimo, per andare a scovare delle zone particolari che potessero darmi delle immagini suggestive. Mi ero munito di un piccolo cavalletto che utilizzavo da seduto, scattando di nascosto. Nel metrò di Parigi, alla fermata del Louvre, ho scattato per esempio una foto molto suggestiva al treno in movimento, e in seguito ho inserito sullo sfondo l’immagine di un distributore automatico. Anche in questo caso il problema era quello di trovare l’immagine giusta rimanendo sul posto solo un paio di giorni. In questo mi è servito molto quello che facevo un tempo intorno ai diciotto–vent’anni, quando partivo in auto alla volta di Parigi o per andare a Umbria Jazz, occasioni dove ho imparato a scattare senza essere visto per ottenere il massimo della spontaneità. Questo per dire che nella vita serve tutto quello che hai fatto, ogni cosa ritorna utile, la rimetti in gioco quando meno te lo aspetti perché ti viene spontaneo farlo.

od: E gli archivi?

GC: Proprio da un po’ di tempo ho creato un vero e proprio archivio di tutti i miei lavori, uno sforzo notevole economico e di tempo dal quale però oggi non puoi prescindere. Se hai un archivio organizzato e valido puoi permetterti anche di metterti sul mercato come fornitore di foto da stock, che è un modo come un altro di lavorare visto che le immagini ci sono ed è sempre meglio venderle in questo modo piuttosto che tenerle in un cassetto, non credi? Per non parlare del fatto che un archivio ben organizzato è essenziale per aiutarci negli inserimenti di post produzione.

od: Posso dirti una mia sensazione? Parlando con te traspare il fatto che tu sia entusiasta del tuo lavoro, comunichi proprio il piacere di essere quello che sei e questo è davvero positivo.

GC: Grazie, è proprio così. Ad esempio amo lavorare con la gente più che con gli oggetti. Penso poi che sia fondamentale, facendo il fotografo, essere positivo e propositivo in quello che si fa; non credo a quelli che dicono che trent’anni fa era più facile fare questa professione: come sempre, anche in passato c’era chi aveva delle vere difficoltà e chi invece raggiungeva il successo. Né più né meno quello che accade oggi. Di solito le passioni portano a fare quello che piace e a me, con la fotografia, è capitato così; alla base c’è un grande entusiasmo e oggi, che ci sono tanti vincoli da rispettare quando si tratta di realizzare un lavoro, è proprio quello che mi fa superare ogni scoglio e ogni difficoltà. Forse è anche una questione di carattere: io, per fare un altro esempio, non mi sono mai specializzato in un particolare settore della fotografia perché, per carattere, mi piace spaziare, provare a fare varie esperienze. Se devo preparare un lavoro che, diciamo, coinvolge il mondo dell’arredamento, una volta portatolo a termine devo dedicarmi a qualcosa di diverso, anche per rigenerarmi, ravvivando così sempre l’entusiasmo in me. Se dovessi sempre fare lo stesso tipo di fotografie, sapendo di dover utilizzare la stessa luce che ho impiegato negli ultimi dieci anni, di certo mi annoierei e perderei tutta la voglia di fare.

od: Non ti ho sentito parlare di crisi, un argomento molto in voga ultimamente… Vuoi dirmi che vivere e lavorare a Bergamo, in provincia, è forse una scelta vincente?

GC: Io sono cresciuto e ho sempre vissuto qui, ed è qui che ho trovato l’opportunità di lavorare con aziende locali o comunque situate a Bergamo o in provincia, come Gewiss o Man. Tuttavia è giunto il momento per me di cercare di provare a lanciare il mio lavoro anche in una dimensione più grande, magari attraverso agenti con cui sto parlando, anche a livello internazionale. Per quanto riguarda lo studio, oggi sarebbe impensabile per me cercare di ricostruirlo altrove, fosse solo per una mera questione economica.

od: Quali sono i tuoi fotografi di riferimento?

GC: Ti stupirò forse per quello che sto per dirti. Sto leggendo in questi giorni un libro sulla vita di un personaggio che per me è diventato un riferimento immediato, ed è per questo che sono interessato alla sua storia oltre alle sue opere: Mario Giacomelli. Come approccio, come spirito, come filosofia, sento di essere molto vicino a lui. Leggevo che ha realizzato la sua prima immagine al mare, nei pressi di Senigallia. Si è guardato in giro e, dopo aver visto che c’erano tutti gli elementi distintivi di una spiaggia, si è chiesto che cosa volesse davvero fotografare, che cosa lo interessasse in modo particolare. Vedendo allora una scarpa fluttuare sull’onda che si frangeva, si è messo dalla parte del mare e, seguendo il movimento delle onde, ha cercato di riprendere la scarpa stessa per fissare quell’immagine. Questo per dirti che cosa intendo come sintesi di ispirazione, proprio per il suo pensiero, anche perché lui era prima di tutto un poeta, un filosofo, e non ha mai fatto il fotografo come professione. È ovvio che anche in Italia ci siano stati dei maestri della fotografia ma, a mio avviso, questo nostro mondo è sempre stato un passo indietro rispetto a quando accadeva in Europa e nel resto del mondo.

od: In questo momento sembra esserci però un grande fermento intorno alla fotografia. Sono nate delle Fondazioni che permettono ad alcune realtà di vivere, come Forma a Milano e, dal punto di vista commerciale, entrare in possesso di una ottima fotocamera è oggi molto più semplice. Poi ci sono molti corsi e opportunità di imparare: i giovani sembrano riavvicinarsi a quest’arte in modo massivo.

GC: È vero, perché la fotografia digitale ti permette quello che prima era vietato per via dei costi, cioè scattare in quantità, oltre a fornirti la possibilità di raggiungere facilmente una buona qualità rispetto all'analogico. Questo porta però a una forte distrazione tra coloro che pensano che tutto si possa poi “aggiustare” in un secondo tempo, con il computer. A volte anche io devo concentrarmi maggiormente per non cadere in questa sorta di tranello dove si delega alla quantità il lavoro che andrebbe dedicato alla qualità. Tornando al discorso del fermento concordo in pieno. Anche a Bergamo sono state aperte molte gallerie che oltre all’arte hanno cominciato a proporre delle foto come materiale artistico, con un ottimo riscontro di pubblico.

od: Mi dicevi di essere passato al digitale in anni in cui la tecnologia non era ancora così affermata e diffusa come oggi. Qual è stata la tua esperienza con i fornitori di allora?

GC: In senso pieno, ovvero con un dorso digitale, ho iniziato a lavorare intorno al 2000; prima avevo acquistato una Nikon Coolpix con cui avevo anche fatto qualche lavoretto. Avevo notato che, ad esempio nella fotografia ravvicinata e macro, con le macchine digitali si ottenevano risultati sorprendenti, magnifici: alcuni lavori li ho ancora in portfolio perché sono davvero fantastici. Nel 1998 avevo acquistato la PhaseOne H10 da DigitalWave; in seguito tutto il resto dell’attrezzatura, compresi i sistemi di archiviazione l’ho preso alla Lead di Masante. Al di là del fatto che Giuseppe (Masante, ndr) è davvero una brava persona dal punto di vista umano, l’ho trovato competente e molto disponibile, come tutto il suo staff che mi ha saputo consigliare e guidare nelle scelte che dovevo fare. Questa è una delle caratteristiche fondamentali che un fornitore deve avere per acquistare la fiducia dei suoi clienti. È un po’ lo stesso discorso che facevamo prima sull’entusiasmo: quando trovo che chi vende ci mette tutta l’anima in quello che sta facendo, capisco di aver trovato un partner, non un semplice fornitore di materiali. Certo ci sono sempre budget da rispettare, ma alla fine è il servizio e il modo in cui ti poni nei confronti dei clienti che fa la differenza. Credo che alla fine ci si scelga, che anche nella relazione clienti/fornitori si determini una sorta di preferenza umana che porta a privilegiare certi rapporti anziché altri.

Gianni Canali è una persona particolare, nel modo di parlare, agire, fotografare: non si risparmia sotto nessun profilo. L’intervista è finita, il registratore è già spento da tempo, eppure è passata un’altra ora e sono ancora in studio che guardo immagini, lavori, progetti e solo per caso scopro che ha vinto il primo premio al concorso nazionale premiofotografico.org nella sezione post produzione digitale dove, tra gli altri, troviamo anche una nostra vecchia conoscenza come Michele Gastl.

La fotografia di copertina e tutte le fotografie a corredo dell’intervista sono di Gianni Canali e l’utilizzo è riservato.

Gianni Canali
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