Giovanna Nuvoletti è una donna eclettica e molto, davvero molto, si potrebbe dire di lei: ad esempio come scrittrice e anche come direttrice della Rivista Intelligente, quotidiano on-line da lei fondato e diretto. Qui e ora voglio però parlarvi di Giovanna Nuvoletti fotografa, perché tale è stata (e in realtà lo è ancora, dal momento che dalla fotografia – quando la si pratica con professionalità e la si ama profondamente – non ci si dimette, è un modo di essere, un moto dell’animo).

Giovanna è stata fotografa negli anni in cui una fotografia poteva fare la differenza fra una semplice notizia e un reportage approfondito, negli anni insomma in cui la fotografia documentava. E lei ha documentato, e molto: la Milano degli anni ’70, la gente comune, le contestazioni, la vita di tutti i giorni e tanto altro ancora. Lo ha fatto magistralmente e, soprattutto, alla sua maniera: inviata a documentare i funerali delle vittime di piazza Fontana, ha fotografato la gente. I suoi colleghi hanno fotografato i politici, lei invece no, lei si è voltata e ha fotografato il popolo milanese in lacrime: ha documentato il dolore, quello che ti prende alla gola, quello di chi rimane, di chi sopravvive e deve fare i conti con l’ineluttabile. Ha documentato la partecipazione intensa, vera, senza speculazioni politiche di una corrente o di un’altra, ed è stata questa sua scelta che all’epoca le ha fatto guadagnare le prime pagine: perché la vera notizia era mostrare il cuore di Milano, della sua Milano, e lei lo mostrò.

Ora Giovanna conduce una vita appartata perché soffre di una forma di acufene a cui si unisce un’iperacusia che trasforma ogni suono in dolore; ma essendo una persona di un’intelligenza viva e brillante, non si è lasciata abbattere dalla malattia, anzi, la affronta ogni giorno con coraggio e determinazione; è rimasta gioviale e disponibile nei confronti del resto del mondo e il resto del mondo gliene è grato e va volentieri a trovarla nella sua casa romana, per vedere i suoi lavori, per parlare dei suoi progetti, per fare due risate in allegria, perché Giovanna Nuvoletti è una donna malinconicamente allegra e questo tratto traspare anche nelle sue fotografie.

Milano, dicembre 1969: i funerali delle vittime di piazza Fontana

osservatorio digitale: Tu sei stata una fotografa molto brava, ma se dovessi dare di te stessa una definizione (in ambito fotografico intendo), come ti definiresti? Voglio dire: che tipo di fotografa sei stata?

Giovanna Nuvoletti: La fotografia era un lavoro, dovevo viverne. Ho fatto anche molta pubblicità e illustrazione per periodici. Ma la mia fotografia è il reportage, la strada, la gente sorpresa mentre vive. Odiavo mettere le persone in posa.

od: Hai lavorato e fotografato ai tempi in cui ancora non esisteva il digitale: rimpiangi la pellicola?

G.N.: Rimpiango il bianco e nero, la sua grana, le sue sfumature, i suoi colori immaginari. Provavo tutte le pellicole, tutti i tipi di sviluppi e stampe. Avevo un grande rapporto con la coppia di stampatori, marito e moglie, i migliori di Milano, con cui passavo molto tempo a immaginare la pellicola adatte il tipo di sviluppo per il servizio che dovevo fare.

od: Per quali riviste hai lavorato? E in quale ambito lavorativo ti sei trovata meglio?

G.N.: All’inizio ho lavorato per Il Mondo e L’Espresso, paginone in bianco e nero con ricerca estetica e emotiva: mi piaceva da morire, ma è un’epoca finita presto. Poi per Insieme, Due+, Class, Capital: rotocalchi patinati. Per Grazia un periodo ho trovato spazio per un tipo di fotografia riflessiva, di vita vera, è stato bello. Ho fatto un po’ di moda bambini, ma mi faceva orrore come pretendevano si trattassero i piccoli. Vogue non è il mio mondo. Ho amato delle piccole agenzie pubblicitarie intelligenti, dove c’era umanità e cervello e si creavano immagini con significato.

Roma, bar sotto Natale

od: Il tuo primo incontro con la macchina fotografica, lo ricordi?

G.N.: Da piccola, credo una Ferrania. Poi, sui 20 anni, Leica a telemetro. Passione totale, macchina piccola leggera, invisibile: correvo nel mondo, entravo nei luoghi, rubavo la vita.

od: Quand’è che hai deciso di diventare fotografa?

G.N.: Con la Leica, con il Mondo e L’Espresso d’allora. Studiavo Cartier Bresson e i concerned photographer americani. Ho amato Dorothea Lange e anche Diane Arbus. Ho conosciuto Ugo Mulas e Mario Dondero.

od: E quando hai capito che la fotografia era la tua strada?

G.N.: Molto semplicemente la fotografia è stato il mio primo lavoro.

od: Oggi come oggi consiglieresti ad un giovane di scegliere la fotografia come lavoro?

G.N.: Io credo che consiglierei, sì, a un giovane di intraprendere la carriera del fotografo. L’entrata violenta del digitale non ha ucciso la fotografia, ma ha aperto un enorme ventaglio di possibilità alla creazione. Dal banco ottico con lastre in pellicola, agli agili smartphone, abbiamo in mano strumenti che ci permettono di parlare mille nuovi linguaggi. Consiglierei di studiare molto a fondo la tecnica sia della pellicola che del digitale, e di cercare un proprio stile inconfondibile. Di frequentare le mostre e di entrare fino in fondo nel mondo della fotografia come arte, nelle sue sfaccettature. Per il lato puramente commerciale non saprei, i cartelloni con le “automobilone” e le ragazzone in mutande mi interessano poco.

Milano, stazione Centrale

od: La fotografia è un mestiere e quindi ad un certo punto, come per tutti i lavori, si può lasciarla, andare in pensione… oppure è qualcosa di diverso, qualcosa che ti rimane dentro, un modo di essere che non ci lascia mai?

G.N.: Ad un certo punto, verso metà anni ’80, mi sono allontanata dalla fotografia: la mania delle modelle “steccute”, l’edonismo reaganiano… la fotografia era diventata il luogo del finto lusso, delle immagini finte, delle persone finte. Così sono diventa giornalista per vari periodici e più avanti ho pubblicato due romanzi con Fazi (Dove i gamberi d’acqua dolce non nuotano più e L’era del cinghiale rosso ndr)… ma poi è arrivato il digitale e sono tornata a fare clic.

od: Hai progetti futuri in ambito fotografico?

G.N.: Sì, ho progetti fotografici: la passione della fotografia come la intendevo da ragazza è tornata in pieno. Faccio street photography, di nuovo. Non uso solo le pesanti Canon e Nikon, ma mi confondo tra la folla fotografante con i miei smartphone e tablet – nessuno mi vede – e rubo pezzi di vita. Con i grossi display la composizione diventa più immediata, ora non canno mai un’inquadratura! Però, quando confronto le mie foto di ora, scattate per le strade di Milano e di Roma, con le mie amate foto di Milano e Roma degli anni ’70, ci trovo le stesse intenzioni, lo stesso spirito. Il sentimento della vita. Sto facendo una ricerca, a titolo: “Le piccole felicità”. Sono momenti, sentimenti, costume, persone delle due epoche a confronto. Sto anche ripetendo in digitale e a colori gli scatti di allora, negli stessi luoghi. Le persone sono sempre uguali, in realtà, solo che adesso tutti hanno in mano un telefonino. Ma le facce assorte, gli sguardi perduti o speranzosi, i gesti distratti, li riconosco uguali, dopo 40 anni. Le piccole felicità sarà corredato da brevi testi, perché ora riesco a usare insieme i due linguaggi cui appartengo.

Anni '70: Milano ore 13

od: Di solito termino sempre le mie interviste ai fotografi con questa domanda: cos’è per te la fotografia?

G.N: La fotografia è tante cose, per tante diverse intenzioni. Può imitare la pittura, può essere concettuale, decorativa, astratta, furbesca, può inventare spazi e colori inesistenti, o può rincorrere gli eventi e gli orrori del mondo. Per me ha uno specifico tutto suo, uno soltanto: solo la fotografia può riprendere un’emozione nel preciso momento in cui sorge. Fermare l’accadere di uno sguardo, di un gesto – ed esserne l’occhio invisibile che coglie. Forse io pratico addirittura una fotografia selvaggia. La cultura dell’immagine deve lavorarmi dentro inconsciamente, farmi toccare spazi e proporzioni nell’attimo immediato. Io vedo le forme. E, se vedo, rubo. Poi, devo ammettere che tocca alla tecnica, alle magnifiche possibilità di postproduzione che il digitale mi offre. Le uso, spesso, ma con una certa necessaria prudenza. Non voglio trasformare un momento di verità mia in una specie di fastosa oleografia cafona.

Ringrazio Giovanna Nuvoletti per l’intervista che mi ha gentilmente concesso, ma, soprattutto, la ringrazio perché dalle sue parole ho compreso che, tutto sommato e nonostante tutto, la fotografia è viva e sta bene.

(data di pubblicazione: febbraio 2015)