Intervista a Frank Horvat | Osservatorio DigitaleIl 10 ottobre 2014, il Museo della fotografia e dell’immagine di Nizza ha inaugurato una personale di Frank Horvat dal titolo “La maison aux quinz clefs”. Horvat è un fotografo della scuola di Cartier-Bresson; incontrarlo è come toccare con mano uno dei mostri sacri della fotografia d’autore del secolo scorso: gli appassionati di fotografia lo sanno e per questo accorrono numerosi ogni volta che Frank Horvat si presenta in pubblico. Horvat stesso afferma di aver ormai raggiunto l’età in cui si riconsidera il proprio passato e si tirano le somme, cercando un senso.

Il senso ancora non lo ha definitivamente trovato, però è riuscito a riordinare i punti cardine del proprio lavoro - lungo oltre 68 anni - e li ha raggruppati in 15 chiavi di lettura.
Nel corso della propria carriera è stato eclettico: ha fotografato cose e persone e luoghi spesso tutti estremamente differenti fra loro; è stato fotografo di moda, introducendo lo stile reportage anche nell’universo dell’haute couture e rivoluzionando la maniera di fotografare abiti e modelle. È stato testimone del suo tempo come fotoreporter, ma ha anche eseguito numerosi ritratti e autoritratti e ad un certo punto le sue fotografie sono diventate qualcosa d’altro e hanno cominciato ad essere esposte in gallerie e musei di tutto il mondo. Il suo eclettismo non è stato sempre capito e questo lo ha portato, ora che è giunto il momento di tirare le fila della propria carriera, a voler cercare un denominatore comune; non ne ha trovato uno solo, bensì 15: quindici denominatori comuni che lui ha chiamato “chiavi”.

In un tiepido pomeriggio di ottobre Frank Horvat ha incontrato giornalisti e appassionati di fotografia e da questo incontro è uscito un piacevole dialogo, fatto di domande e risposte a ruota libera, sul filo di quella sottile ironia che lo caratterizza da sempre.

Intervista a Frank Horvat | Osservatorio DigitaleA cosa serve oggi la fotografia? E cosa sono diventate le sue fotografie?

Frank Horvat: Se vi si rompe un lavandino, oggi inviate la foto al vostro idraulico e lui si rende conto di quale pezzo dovrà essere sostituito. Ecco, al giorno d’oggi la fotografia serve anche a questo, e va bene così, però io ho cominciato a domandarmi: “ma le mie foto a cosa servono?”. Sessant’anni fa il direttore di una rivista mi diceva vai in questo posto (ad esempio a Londra, o in India), fai delle foto e prepara un reportage e le fotografie che scattavo servivano a mostrare alla gente luoghi e cose che non conoscevano; con le foto di moda era pressappoco la stessa cosa, però poi queste foto sono diventate un’altra cosa, sono divenute foto che venivano esposte nelle gallerie. Da circa dieci anni ho un piccolo apparecchio digitale che tengo in tasca e con cui fotografo non importa cosa, basta che sia qualcosa che ha un’importanza per me. L’esposizione racchiude 15 itinerari differenti di questo mio modo di fare fotografie; itinerari con punti di vista diversi, perché sovente faccio foto per motivazioni diverse: alcune le ho scattate perché la luce era bella, o comunque adatta a quello che avevo in testa, altre perché mi ricordavano un paesaggio che mi faceva pensare ad un quadro e così via.

L’arrivo del digitale ha trasformato il suo modo di fotografare? E in che modo?

FH: Ha trasformato assolutamente tutto e non ho il minimo rimpianto perché oggi, con il digitale, controllo tutto.

Le foto di questa esposizione sono state scattate per motivi professionali?

FH: Nel mio lavoro non c’è alcuna differenza fra foto professionali e non professionali, nel senso che alcune mi erano state commissionate da giornali e altre invece sono frutto del mio personale desiderio di scattare quella determinata foto in quel determinato momento.

Lei ha rivoluzionato la fotografia di moda introducendo il reportage anche in quel mondo patinato; nel corso degli anni, mentre scattava quelle foto, cercava l’immagine della donna ideale?

FH: La mia prima idea, quando faccio foto di moda per una rivista, non è di cercare la donna ideale del giornale che mi ha commissionato il lavoro, ma di mostrare la mia donna ideale e questo non per imporre il mio punto di vista, ma per dimostrare che esistono diversi tipi di donne ideali, quella del giornale che mi ha commissionato il lavoro ma anche quella che è nella mia testa, e presentare la mia visione è un modo di allargare le possibilità, di ampliare lo spirito. Comunque fotografare ciò che tutti universalmente considerano bello, è qualcosa che non mi ha mai interessato molto.

Quali sono i colleghi che ammira?

FH: Sicuramente ho ammirato moltissimo Henri Cartier-Bresson; se sono diventato quello che sono è anche grazie all’incontro con Cartier-Bresson: è lui che mi ha insegnato che la fotografia non è un’arte come le altre. In generale, però, i miei incontri con gli artisti sono stati tutti interessanti, anche quelli con artisti che non erano necessariamente fotografi. Comunque non è che siano stati più interessanti gli incontri che ho fatto con artisti che ho conosciuto rispetto a quelli che ho fatto con artisti che non ho conosciuto personalmente ma dei quali ho visto le opere oppure ho letto i libri. Ad ogni modo in generale nessuno mi ha influenzato in modo particolare.

Com'è stato il suo rapporto con Cartier-Bresson?

FH: Oh, all’inizio mi ha molto criticato: quando ha visto le mie foto di moda mi ha detto che mischiavo foto  direttive e foto non direttive. E questo non gli piaceva affatto.

Quali sono i fotografi contemporanei che la interessano maggiormente?

FH: Mi capita di vedere delle foto, anche di sconosciuti, e di trovarle interessanti; comunque ci sono due fotografi che ho molto ammirato: August Sander, per me l’unico vero fotografo ritrattista, e Irving Penn, che amo perché rispetta tutto ciò che fotografa, soprattutto le persone.

In che senso la fotografia è un’arte differente rispetto alla scultura o alla pittura?

FH: La pittura è ciò che il pittore dipinge nel quadro e lui è interamente responsabile di ciò che mette sulla tela; la foto no, nella foto ci sono io, c’è la realtà che è intorno a me - che si presenta oppure no - ma c’è anche un’azione di ciò che è là. Voglio dire: quando guardate una foto sapete che c’è stato un momento specifico in cui il fotografo era là. Quando Cézanne era davanti alla montagna di Sainte-Victoire, la montagna era là, ma Cézanne avrebbe invece anche potuto vederla e dipingerla osservando una semplice cartolina della montagna di Sainte-Victoire.

Intervista a Frank Horvat | Osservatorio Digitale

Con il digitale sono diventati tutti fotografi. Cosa pensa di questo fatto?

FH: Ciò che penso preferisco non dirlo perché potrei diventare sgradevole. Comunque, prendiamo ad esempio il cibo: cucinare è saper mescolare gli ingredienti e conoscere la trasformazione che verrà fuori dal melange dei vari ingredienti; per la fotografia è la stessa cosa: saper fotografare è conoscere la trasformazione che verrà fuori, ma occorre studiare, non ci si improvvisa. Devo però sottolineare che non ho mai avuto un apparecchio fotografico che mi offrisse tante possibilità quante l’apparecchio digitale che porto in tasca.

Le capita mai di cambiare idea su una foto? Ad esempio: le è accaduto che un suo scatto che magari inizialmente le era sembrato poco interessante, poi, col passare degli anni, abbia invece acquistato interesse ai suoi occhi?

FH: Può cambiare il mio giudizio sul soggetto: se mi ritrovo davanti una foto di una Citroen DS, so che all’epoca dello scatto era una novità, mentre ora è solo una vecchia auto e quindi il mio giudizio di valore cambia, ma quello che mi stupisce è che mai, e sottolineo mai, cambia il mio giudizio sulla scelta dell’inquadratura. Quello che cambia è la nostra percezione dell’attualità.

Qual è il percorso che ha seguito per arrivare ad essere il fotografo che è oggi?

FH: Quando ero più giovane e dovevo preparare un reportage restavo alcuni giorni senza toccare l’apparecchio fotografico e mi immergevo completamente in ciò che dovevo fotografare per sapere esattamente cosa stavo accingendomi a fotografare. Se dovevo fotografare un personaggio mi documentavo, cercavo di sapere tutto quello che era possibile sapere su di lui e mi preparavo scrupolosamente e poi valutavo quale macchina utilizzare. Prepararmi, studiare, sono sicuramente stati elementi fondamentali nel mio percorso lavorativo.

Le sue fotografie sono molto ritoccate?

FH: In generale no, solamente alcune; comunque, di tutte le mie foto conservo sempre la versione prima e quella dopo il ritocco.

Lei ha affermato che la fotografia è l’arte di non premere il bottone. Quand’è che non bisogna premere il bottone?

FH: Risponderò con una metafora: se una sera uscite con qualcuno che vi piace, decidete nell’arco della serata se ci andrete o meno a letto insieme; se un’occasione sembra dubbia e se la si rifiuta, questo rifiuto può lasciare un desiderio, che in un incontro futuro e diverso può realizzarsi meglio.

Qual è il suo rapporto con il flash?

FH: Diciamo che io condivido l’idea di Cartier-Bresson, per il quale il flash è assolutamente vietato e questo  perché per Bresson in fotografia si deve mettere a fuoco ciò che si vede in quel momento e il flash cambia lo stato delle cose. Devo però dire che ci sono dei fotografi che io ammiro profondamente perché riescono a prevedere ciò che farà il flash, cosa che io invece non sono capace di prevedere.

Com’è cambiato il mondo della fotografia?

FH: Ora siamo sommersi da immagini e ci sono milioni di foto che ritraggono posti che un tempo sembravano irraggiungibili o comunque erano molto lontani e poco conosciuti. In questa nostra epoca non è importante cosa viene fotografato ma chi fotografa; ossia, ciò che fa la differenza è il modo in cui una immagine viene scattata; il punto di vista personale è molto importante e anzi, oggi come oggi direi che è più importante il punto di vista personale rispetto alla realtà fotografata. C’è anche un cambiamento negativo: si idealizza la bellezza femminile fatta in un certo modo e si finisce con il non vedere più altre forme di bellezza femminile. Io tendo a voler ricercare altre forme esplorative e a proporre altri tipi di bellezza. Quando qualcuno mi dice: "Uscendo dalla sua esposizione ho imparato a guardare la realtà sotto un altro punto di vista", ecco, questo mi rende felice e soddisfatto.

Intervista a Frank Horvat | Osservatorio Digitale

L’uso del bianco e nero è cambiato con l’avvento del digitale?

FH: Il bianco e nero in qualche modo distrae di meno, cosa che per me è fondamentale, ma oggigiorno i media richiedono il colore. Quando il colore mi dona un messaggio che non mi interessa, posso sempre trasformare la fotografia in bianco e nero; in ogni caso se faccio una foto in bianco e nero, oggi, ho la netta sensazione di fare qualcosa di retrò. Spesso mi capita di trasmettere un messaggio attraverso i colori. Qualche anno fa invece ho fotografato le mie mani e in quel caso il colore forniva delle informazioni che non mi interessavano e quindi l’ho attenuato.

Quando ha compreso che la fotografia sarebbe stata la sua strada?

FH: Non l’ho mai compreso, avrei sempre voluto fare altre cose: avrei voluto essere un regista teatrale.

(data di pubblicazione: novembre 2014)