No, ma non si sente molto bene. Ne aveva parlato od nel numero di marzo segnalando l'evento (fra i pochi a farlo, questo va detto, dal momento che gli stessi organizzatori hanno giustamente lamentato il mancato rilievo dato all'evento da giornali e quotidiani): mi riferisco al Convegno "La Fotografia In Italia: a che punto siamo?" tenutosi a Milano e organizzato dalla Fondazione Forma per la Fotografia nella seconda metà del mese appena trascorso. Non ero in Italia e quindi non ho fisicamente partecipato alla tavola rotonda ma, grazie all'ottima organizzazione tecnica dei curatori, ho potuto ascoltare in podcast tutto il Convegno standomene comodamente a casa. Certo, non è la stessa cosa che vivere in prima persona l'avvenimento, però la registrazione è ottima e permette di farsi un'idea molto approfondita di quanto è stato detto e discusso sullo stato della fotografia.

Il dibattito è stato aperto da Michele Smargiassi, che molti sicuramente conoscono attraverso "Fotocrazia", il blog che tiene su "La Repubblica". Smargiassi è partito dalla famosa citazione "una fotografia vale più di mille parole", sottolineando che però quelle parole qualcuno le deve pur pensare, scrivere, stampare e magari anche pubblicare; lui tende, insomma, a propendere dalla parte dello scrittore in quanto a suo giudizio la fotografia da sola non dice tutto, non è quel linguaggio universale che si crede, non lo è in senso assoluto; la fotografia, continua Smargiassi, "è un linguaggio che dice spesso cose che con le parole non si possono dire ma è un linguaggio che ha le sue lacune e che ha bisogno di essere circondato da un contesto verbale che a volte tradisce la fotografia e quindi è un rapporto anche di conflitto".

Personalmente mi pare che il "conflitto" ci sia nel pensiero dello stesso Smargiassi, il cui blog seguo sempre con molto interesse e di cui rispetto la professionalità ma del quale spesso e volentieri non condivido il parere, in questo caso soprattutto. Abbraccio invece in toto la sua convinzione che la Cultura della Fotografia in Italia parla poco e male, parla lingue diverse che non comunicano, parla un linguaggio che non si spiega mai a sé stesso e a maggior ragione difficilmente spiegherà le singole fotografie che compaiono tutti i giorni. Inoltre, per comunicare ci vuole un luogo in cui farlo e questo luogo in Italia sostanzialmente non c'è. In altri Paesi esiste un discorso sulla fotografia che ha i suoi luoghi e le sue istituzioni, cioè delle realtà che mettono in relazione tutto questo, mentre nel nostro Paese abbiamo molte cattedre di fotografia, abbiamo giornali, media, ma non possediamo una "piazza fotografica" dove si vada a discutere; siamo forniti di tanti professori sulla fotografia ma non abbiamo una comunità scientifica vera e propria.

Il risultato è che qui da noi di fotografia parlano prevalentemente gli outsider, magari anche geniali ma outsider, come giornalisti (quali lo stesso Smargiassi), scrittori, critici d'arte; di fatto non esiste una disciplina con la "D" maisucola, una Disciplina magari da scuotere, ossia non ci sono gli insider, cosa che invece sarebbe utile se non altro perché ci sia una trasversalità (per averla, però, occorre un luogo da attraversare). In poche parole, conclude Smargiassi, la fotografia in Italia è "un albergo di villeggianti intellettuali". Come dargli torto? Quando non condivido alzo la mano e dico "non sono d'accordo". In questo caso taccio e annuisco.

Come annuisco quando Marco Belpoliti (anche lui outsider di tutto rispetto ma pur sempre outsider) afferma che la fotografia non c'è più, esistono sostanzialmente le immagini, ossia la fotografia è un oggetto che si scambia, viene venduto, amato, prodotto. Il digitale ha cioè cambiato lo statuto della fotografia trasformandola in immagini e noi viviamo immersi nelle immagini. Come dicevo pocanzi annuisco sì, ma... ma poi penso a fotografi come Berengo Gardin o Gabriele Basilico e mi domando: "Ma loro producono immagini?" rispondendomi subito dopo: "A me pare che producano foto, e che foto!".

Un intervento che mi è parso molto interessante è quello di Gianluigi Colin che è partito dal testo di Alberto Cavallari, "La fabbrica del presente" (Feltrinelli, 1990), in cui si parla dei cosiddetti "campi di forza". Per Colin non possiamo comprendere nulla dello spazio delle informazioni in cui la fotografia si esprime se non comprendiamo i campi di forza in cui una foto può diventare da prima pagina oppure da trafiletto o addirittura non pubblicabile. Dentro le redazioni dei giornali questi campi di forza presentano una pressione fortissima ma, e qui sorge il problema, in Italia la formazione del singolo capocronista o dello stesso direttore di giornale è di tipo prevalentemente economico, non c'è quindi una formazione in cui la Cultura delle Immagini abbia un peso come avviene invece, ad esempio, in Spagna. Un altro handicap molto forte consiste nel fatto che non si riesce più a mandare fotografi insieme agli inviati per un fattore puramente di tipo economico: costa meno acquistare foto dalle agenzie piuttosto che pagare un fotografo mandandolo sul luogo dell'evento. E ancora: spesso viene pubblicata non la foto ma il "documento" realizzato con un telefonino, e tutto ciò fa sì che la fotografia resti ancorata dentro una forte dose di ambiguità.

E l'ambiguità, anzi, il disordine delle idee, mi sembra che regni sovrano se, come ha sottolineato Laura Leonelli durante la prima giornata di apertura del Convegno, a livello editoriale stiamo attraversando un periodo molto vivace ma a questa vivacità sui giornali è dedicato uno spazio molto ridotto. "La fotografia italiana si è mossa velocemente", afferma la Leonelli, "e sulla stampa riusciamo a presentare molto poco, inoltre occorrerebbe una specificità della fotografia, cioè lavorare per se stessi e non commentare le foto altrui, il lavoro altrui". L'ambiguità, o meglio, la poca chiarezza di quest'ultima affermazione la lascio alla libera interpretazione dei lettori e vado oltre.

Vado oltre sì, e sposo il pensiero di Raffaele Vertaldi quando dice che "non si pretende che la fotografia sia un linguaggio universale né che comunichi tutto ma si pretende che quando comunica comunichi la verità, quantomeno la sua verità; e non bisogna confondere la documentazione con l'informazione". Il che è vero, certo, ma la foto scattata da un telefonino è documentazione o informazione? La domanda rimane aperta. Vertaldi ha anche detto che "la foto più che un fine è uno strumento, e come tale offre percorsi diversi, diversissimi". E qui viene subito alla mente, infatti lo stesso Vertaldi l'ha poi accennato subito dopo, Cartier-Bresson e la sua famosa "occhio, cuore, mente" con cui si scatta, o perlomeno si dovrebbe scattare, una foto.

Dopo ore di fiumi di parole in cui mi è parso che sostanzialmente si sia detto moltissimo per non dire nulla, alla fine della prima giornata di Convegno ho ascoltato l'intervento di Rocco Rorandelli, un fotografo che lavora in un collettivo e che, grazie a un questionario da lui spedito a diversi colleghi e ad altrettanti foto-editor, mi sembra abbia dato un po' più concretamente il polso della situazione: in buona sostanza il budget oramai è ridotto all'osso e questo è il vero punto della questione, da qui nasce la vera nota dolente. Dopodoché il Web, secondo gli editor, sarà importantissimo e per i fotografi ci saranno prevalentemente giornali on-line; ma, on-line o cartacei che siano, i giornali hanno e avranno comunque sempre il problema del budget in cui il piatto piange e, last but not least, occorre fare i conti con una sostanziale quanto deleteria ristrettezza mentale, sia da una parte (editor e giornali), sia dall'altra (fotografi). E infine: i collettivi fotografici possono essere una valida risposta perché si tratta di organizzazioni semplici e snelle ma mancano di visibilità, di strutture e di progettualità. Quindi, la situazione di stallo è il vero presente e probabilmente sarà anche il futuro prossimo.

Dunque pauca non bona verba, ossia il futuro se non è nero è sicuramente grigio fumo. Il grigio fumo però potrebbe anche essere visto come un bel grigio fumo di Londra, dipende dai gusti e dalla sensibilità personale, tant'è che non tutti sono così pessimisti. Infatti, secondo un fotografo che non mi pare sia proprio l'ultimo arrivato, ossia Gabriele Basilico, "se la fotografia è un modo di vedere, allora la fotografia non è morta". Vero, secondo me è vero. Molti obietteranno che per uno come Basilico è "facile" sostenere una cosa simile, le sue foto si vendono, lui è famoso eccetera, eccetera, eccetera. Lo dico perché questa frase l'ho sentita e - nota dolente - l'ho sentita dire da altri colleghi fotografi. Queste "critiche" mi fanno tuttavia pensare a un altro punto non trascurabile del problema: i fotografi stessi e la loro strisciante a volte, oceanica altre, coté d'invidia nei confronti degli altri colleghi, nonché, lasciatemelo dire da fotografa, anche il loro pessimismo cronico nei confronti di un mestiere che non è morto ma che, essendo comunque creativo (il che non implica artistico tout court, sia ben chiaro), è in continua evoluzione.

Parlando con Graziano Arici, da anni un serio professionista nel campo della fotografia (e già protagonista di un profilo di osservatorio digitale nel 2010), è emerso come egli, come molti altri, sia fortemente convinto che ormai le fotografie verranno sostituite da immagini, immagini prese da video, da filmati. Arici è uno di quelli che il futuro lo vede nero: non grigio fumo, proprio nero. Io no, io credo che ci sia un processo di cambiamento in corso, che ci sia una crisi nell'ambito del mestiere del fotografo, che ci siano più immagini che foto, che le immagini dei telefonini e di tutto ciò che è il digitale non professionale siano una forte concorrenza per i fotografi professionisti e che questi ultimi dovranno faticare di più per lavorare. Un esempio l'ho avuto assistendo a una vera e propria lite tra una fotografa professionista, molto brava, con anni di esperienza alle spalle, e una signora che si era intrufolata con un telefonino in mano fra i professionisti accreditati durante un evento molto glamour a Monte Carlo - le nozze indiane di due ricchissimi ereditieri. La tizia munita di cellulare ha spintonato malamente la fotografa tanto che fra gli spintoni e la calca quest'ultima ha rotto il suo teleobiettivo: il tutto si commenta da solo.

Detto questo però, rifletto su quanto ha sottolineato Gabriele Vulcano, ossia che il contesto del mondo dell'arte si è ora molto allargato, tant'è che il pubblico delle fiere d'arte adesso è molto eterogeneo e ciò che prima erano "solo" foto ora diventano, in alcuni contesti, delle opere d'arte. Questo non significa che tutti i fotografi saranno degli artisti: ovvio che no, ma di sicuro lo spazio non si è ristretto ma si è allargato; il fatto che più persone si siano avvicinate al mondo della fotografia rende tutto più difficile per certi aspetti (a volte un'immagine catturata da un passante con un cellulare in mano viene pubblicata su un giornale come documentazione di un evento a discapito di una foto fatta da un professionista), ma allarga anche il numero delle persone che ne fruiscono, che se ne interessano, delle riviste che se ne occupano, della gente che vuole imparare a fotografare non solo per mestiere, ma anche soltanto per il piacere di saper fare delle belle foto, e che quindi ha bisogno di un professionista che gli insegni un minimo di abc.

Quello che voglio dire è che la chiave di lettura potrebbe anche essere meno negativa, il diavolo in fondo è sempre meno brutto di come lo si dipinge; come sostiene Vulcano, il fatto ad esempio che immagini prima considerate come foto  drammatiche e proposte a giornali come documentazione di fatti siano ora esposte nel mondo dell'arte lascia intuire che sembra che in fondo tutto sia possibile, "l'importante è non smettere di avere una ricerca delle cose". E, aggiungo io, dovremmo anche smetterla di sparare a zero - e qui mi riferisco alle critiche, talora anche forti, che sono state rivolte a Forma. Il Convegno mi ha lasciata, almeno dall'ascolto che ne ho potuto fare via podcast, con più interrogativi che risposte, ma non critico né Forma che lo ha organizzato né coloro che vi hanno preso parte perché se non altro hanno avuto la decenza di provare a parlare seriamente di fotografia, di lanciare il sasso. Spero solo che ora non venga lasciato cadere, il sasso... e noi fotografi con lui.