Negli ultimi mesi la città de L'Aquila (o, meglio, quel che ne resta) è stata una delle più fotografate al mondo. A poco più di un anno dal terribile sisma che l'ha sconvolta ho incontrato Danilo Balducci, un fotoreporter che a L'Aquila è nato, ci viveva e ci vive tuttora, e che la ama visceralmente come si amano le proprie radici. Ho scelto lui perché, al di là della sua bravura, Danilo ha vissuto la tragedia del capoluogo abruzzese non solo come fotogiornalista abituato a documentare, ma anche - e forse in questo caso soprattutto - come vittima diretta di un disastro che ha stravolto la vita di molti, la sua compresa. Qual è la differenza fra il fotografare un disastro umanitario come "freddo" inviato sul campo e fotografarlo invece facendone parte? Esiste questa differenza, o un fotoreporter rimane sempre e comunque un fotoreporter? Queste erano le domande che mi frullavano in testa quando l'ho incontrato e questo era ciò che mi interessava capire.

Lo spunto è nato dall'ultimo libro pubblicato da Balducci, "Tra cielo e Terra. Under a cloudy sky", una raccolta di foto che testimoniano il terremoto aquilano da un punto di vista unico, cioè attraverso lo sguardo di un fotografo che si è ritrovato, suo malgrado, a vivere la schizofrenia del sentirsi al contempo vittima e testimone di un evento sconvolgente.

Danilo non è abituato a essere intervistato, è schivo e restio: non per spocchia, ma per carattere. Lui normalmente racconta i fatti protetto dalla sua macchina fotografica e il registratore lo innervosisce un po'; è molto introverso, come spesso sono (siamo) noi fotografi. Provo a metterlo a suo agio prendendo in mano il libro e provando a condurre questa conversazione spostando il discorso sulle sue foto per cercare di arrivare alla sua essenza di vittima di una tragedia attraverso ciò che più gli appartiene, il suo lavoro, le sue fotografie. Inizio a sfogliare e cominciamo a commentare le immagini ripercorrendo prima di tutto i primi momenti di quella notte.

osservatorio digitale: Proviamo a ritornare alla notte del 6 aprile del 2009: c'è il terremoto, tu ovviamente ti spaventi, esci fuori di casa e cosa fai?

Danilo Balducci: Esco fuori di casa e prendo la macchina per andare in centro, perché io vivo a 5 Km da L'Aquila. Arrivo in centro e, salendo di corsa, la prima scena che vedo è questa, di questa ragazza che salta sulle macerie.

od: Perché sei andato in centro?

DB: Per fare foto, è naturale.

od: Fammi capire bene: vivendo all'Aquila avevi cari, famiglia, casa, la tua vita insomma; eppure quando hai sentito il terremoto la prima cosa che hai pensato è stata: "Esco e vado a scattare le foto"? Questo è stato il tuo primo pensiero?

DB: No. Io ho sentito il terremoto, mi sono affacciato dal giardino di casa, perché da Civita Di Bagno, dove vivo, si vede l'Aquila: la città era in una nube di polvere e la prima cosa che ho pensato (e che anche mia moglie mi ha detto) è stata: "Prendi le macchine fotografiche che è successo un casino" e quindi sono partito di corsa verso l'Aquila, per fare foto.

od: Questa dunque è la tua prima foto?

DB: Sì, esattamente questa.

od: Ma quando l'hai scattata non hai pensato nulla? L'hai scattata e basta?

DB: L'ho scattata perché ho visto queste persone che mi sembravano "zombi"... In realtà ho pensato a un film di George Romero. Vedi che qui c'è il flash? Avevo appena finito di lavorare al Vinitaly e sono arrivato a casa la sera del terremoto: a mezzanotte mi son messo a letto, alle tre c'è stato il terremoto; lavorando cinque giorni fuori casa non avevo più il flash carico e quindi ho pensato "poi domani lo ricarico", ma è una cosa che non ho potuto fare e sono uscito con il flash scarico. Nella mia follia di precisione sapevo che con il digitale, quantomeno con le mie macchine (due Nikon D2x e D2Xs ndr), fotografando a oltre 400 ISO le foto sarebbero venute male, quindi ho tenuto la macchina impostata a 400 asa, anche perdendo delle fotografie che son venute mosse, fuori fuoco, ma tutto pur di non avere la granaccia digitale, il disturbo.

od: Quindi nel bel mezzo di questa tragedia hai pensato al lato tecnico...

DB: No, l'ho fatto solo per abitudine. In realtà non pensavo, lì per lì scattavo e basta.

Continuo a voltare le pagine e Danilo mi indica una foto dicendomi: "Questa dei pompieri nella casa con la polvere è uscita adesso per la prima volta sul libro, non era mai stata pubblicata. Poi, nel libro, seguono la prima foto del terremoto dell'Aquila uscita sul Times, ossia la prima delle prime dieci immagini uscite sul Times CNN la mattina del disastro; ancora, il particolare che appare in apertura di questa intervista è tratto dalla foto che è stata la copertina del Denver Post la mattina del 30. Il lavoro che vedi pubblicato in questo libro nasce in un secondo tempo, dopo che tutti i fotografi sono andati via, perché poi, nei giorni seguiti a quella terribile notte, io mi son trovato un po' sconnesso vedendo tutta questa gente che fotografava e che, tra l'altro, via via fotografava anche me che piangevo."

od: Tu, in un tuo lavoro uscito sul sito Nital.it, hai scritto di aver visto a un certo punto un fotografo che ti stava fotografando; il tuo primo istinto è stato di irrigidimento, però poi ti è venuto in mente che stava solo facendo il suo lavoro, come mille altre volte lo avevi fatto tu...

DB: In effetti mi sono trovato a vivere stati d'animo molto complessi; quando ho visto un mio collega fotografarmi venivo da un momento per me delicatissimo, che nei giorni a venire mi ha segnato molto. Dopo aver fatto la foto della ragazzina coperta che vedi qui sotto c'è un'altra foto, quella di due medici che aprono gli occhi pieni di terra a questa ragazzina che è morta. Io ero lì e ho scattato. Uno di questi due vigili del fuoco che vedi nella foto ha preso un sasso e me l'ha tirato urlandomi "Sciacallo". Questa cosa mi ha bloccato, perché in realtà io sentivo la mia città e in quel momento ero lacerato dal dolore; il vigile del fuoco però non sapeva che fosse la mia città, pensava che fossi uno dei fotografi arrivati la mattina presto da Roma.

od: C'era una differenza, dal tuo punto di vista di fotoreporter, tra riprendere il terremoto della tua città rispetto a quello di un'altra città ?

DB: La differenza non c'era dal punto di vista fotografico. Era dentro, in quello che provavo mentre in quel momento fotografavo quella ragazzina morta: io questa ragazza la vedevo passeggiare con la sorella tutti i giorni, la conoscevo e quindi io la foto l'ho fatta comunque, per l'istinto del racconto che ho, per il fatto che quando succede qualcosa io devo esserci con la macchina fotografica, ma le emozioni che provavo mentre scattavo non potevano essere le stesse che ho provato quando ho scattato la foto di altre vittime di altri terremoti.

od: Mi hai detto che il vigile del fuoco ti ha tirato una pietra dandoti dello sciacallo.Tu ti sei sentito uno sciacallo o no?

DB: Non mi sono sentito uno sciacallo, no.

od: E ti saresti sentito uno sciacallo in un'altra città che non fosse la tua?

DB: No, anzi, ancora di meno.

od: C'era allora il pudore dato dal fatto che comunque quella era una parte della tua vita?

DB: Sì, esatto, e però proprio per quello mi sentivo in diritto di fotografarla.

od: Allora c'è un pudore?

DB: Assolutamente, io ho abbassato la macchina fotografica centinaia di volte

od: Fammi un esempio.

DB: Terremoto in Algeria, 2003. C'era un padre che stava seppellendo la figlia morta nel sisma, immagina la scena di questa buca in un cimitero dove tutte le tombe erano ricoperte di siepi spinose per evitare che i cinghiali mangiassero i cadaveri e c'è il padre da solo con il mantello bianco, con il vento che muove questo mantello e lui con questa bambina in braccio. La foto sarebbe stata meravigliosa, però io ho detto "No", ho abbassato la macchina fotografica, mi son girato e me ne sono andato. Ho pensato: "Questo momento è suo e basta". Questo poi mi ha portato, tra le varie cose, a fare un lavoro diverso anche a L'Aquila, che è questo qui che vedi nel libro, e tutto è nato da questa vecchietta che vedi qui sotto. Questa donna anziana è uscita dalla tenda, ha guardato per aria e ha detto "Adesso viene a piovere". I quei giorni immediatamente successivi al terremoto c'era ancora la terra che si muoveva. Io ho pensato "Il problema è giù, in basso, il terremoto è nel terreno sotto di noi e lei pensa che adesso viene a piovere": quindi questa cosa del cielo, di guardare il cielo in maniera quasi ancestrale, di raccomandarsi all'alto, non so come dire... il fatto che venisse a piovere in realtà in quel momento era l'ultimo dei suoi problemi.

od: Però era la vita che continuava...

DB: Esatto, però era la vita che continuava e quindi questa cosa delle nuvole è nata da questa vecchietta che ha guardato il cielo denso di nubi. Tutto il lavoro ha come filo conduttore le nuvole sopra la città che per un mese son state su L'Aquila. Ho usato un modo di fotografare un po' più "romantico", un po' diverso, dove l'unica cosa che inquieta son queste nuvole cupe.

Anche questa foto, se non ci fosse la didascalia sarebbe un paesaggio, punto, ma la latitudine e la longitudine sono esattamente l'epicentro del terremoto e anche il raggio di sole ci va esattamente sopra fendendo le nubi (questo è un po' una botta di... fortuna, comunque ho aspettato un giorno intero per scattarla così).

Questo che vedi qui sopra è il ponte di Fossa che è crollato: io ho cercato di raccontare le stesse cose che sono andate in giro in quei giorni, però in maniera diversa, lasciando intuire, lasciando pensare, ma non lasciando vedere; il ponte di Fossa è un ponte che è crollato e che ha lasciato Fossa isolata per un po'. Tutti hanno fotografato questo ponte crollato nell'acqua; dato che tutti l'hanno fatto, io ho pensato: "Questo taglio mi dà comunque l'idea di uno sbarramento, di qualcosa di inaccessibile", soprattutto con queste strisce rosse e quindi la mia foto del ponte di Fossa crollato l'ho scattata così.

Anche questa Madonna è in una vetrina e si riflettono le nuvole, però ha le mani spezzate e il naso graffiato e il punctum della foto è lì, il problema è arrivarci, perché ho notato che non molti vedono le mani spezzate, vedono solo la Madonna.

Questa foto invece è fra le "pictures of the year" su Life con il titolo "Hell on Earth".

od: E perché proprio questa, secondo te?

DB: Non lo so, non ne ho idea.

od: Lo scatto è tuo e non te lo spieghi?

DB: Lo scatto è mio e me lo spiego: è questa luce surreale, con le nuvole.

od: Non l'hai ritoccata?

DB: Questa è solamente leggermente contrastata con le tecniche della camera oscura, quindi solo contrasto, chiarire o scurire le zone; tutte le foto non sono ritoccate, io assolutamente non tolgo niente e non metto niente, se c'è qualcosa che non va butto la foto.

In quest'altra immagine invece, come in altre, c'è un bambino al quale non importa più di tanto. A me personalmente questo scatto trasmette un preciso stato d'animo: anche nella tragedia più immane, comunque alla fine la vita va sempre avanti.

Questa è Onna. Io ci sono entrato per la prima volta solo 20 giorni fa. Onna è stata fotografata all'eccesso, io ho preferito fotografarne solo le strade e le macchine distrutte, niente di più. Il mio è stato un lasciar stare, un lasciar depositare, un voler aspettare un po' per rimarginare le ferite... non so, magari è anche stupido da parte mia, ma è quello che sentivo e che sento anche ora. Sono invece entrato a San Gregorio diverse volte.

od: Ma perché allora proprio Onna?

DB: Non lo so. Ricorda che in quei momenti c'era un caos totale, io arrivavo alla sera stanchissimo, perdevo le cose, lasciavo le macchine fotografiche su un tavolino e me ne andavo.

od: Questa che foto è?

DB: Questo è un epicentro, e ho cercato per giorni il modo di raccontarlo; alla fine mi sono diretto lontanissimo dal luogo, sono entrato dentro una cabina sporca della fermata dell'autobus, l'ho usata come filtro e da lì ho scattato l'epicentro.

Questa qui invece è l'ultima foto, quella che conclude il lavoro ed è l'unica senza nuvole: è l'edificio dove hanno portato i morti del terremoto. Anche questo per giorni ho cercato di fotografarlo finché mi è capitato di passarci davanti in auto, mi sono girato e c'era l'arcobaleno col sole che batteva su questa parte alta. Mi sono fermato e ho fatto click. Parla delle vittime, di coloro che non ci sono più ed è l'unica senza nuvole, è una speranza, nonostante i morti.

Le foto conclusive appartengono a un altro lavoro, il titolo è "Riprendiamoci la città" e riguarda una parte dei cittadini, non tutti, non quelli che sono contenti di vivere nella casette, ma quelli che hanno deciso, dopo un anno circa, di riprendersi la città: molti aquilani hanno cercato di forzare le zone rosse e quindi nelle foto ci sono sempre persone che guardano oltre le barriere. Questa è la manifestazione delle chiavi e qui è l'ingresso della città. Sono tutte in bianco e nero ed è una scelta voluta, per staccare rispetto al lavoro della prima parte del volume; e poi il bianco e nero a me piace molto più del colore. Il fatto che il resto dell'opera sia a colori è una mia forzatura, io avrei fatto tutto in bianco e nero, quindi è una forzatura tecnica per dare maggiore visibilità a quei momenti. Tieni presente che alcuni scatti sono nati a colori per andare in agenzia, perché il bianco e nero non avrebbe avuto assolutamente chances per la vendita. Altro è invece il discorso relativo alla parte che documenta la protesta di quei cittadini che rivogliono la loro città, il loro centro storico e vitale, qui il discorso si fa ideologico e allora il bianco e nero trovo sia più adatto, è un filo conduttore decisamente migliore per sottolineare un'ideologia, io almeno la penso così.

Danilo Balducci Tra cielo e terra

od: A proposito di idee. Com'è nata l'idea di farne un libro?

DB: Il libro è nato in un pub: stavo tranquillamente bevendo una birra, c'era una ragazza che possiede una tipografia e una casa editrice, aveva visto parte delle mie foto nella mostra che avevo tenuto tempo prima e mi ha chiesto perché non ne facessi. Io ero l'unico fotografo aquilano a non aver fatto un libro su L'Aquila e il terremoto.

Guardando le foto e ascoltando Danilo Balducci che le commentava mi sono fatta una mia idea. Raccontare una tragedia come spettatore è un discorso, raccontarla come vittima del racconto stesso è un'altra, ma solo a tratti, perché il comune sentire dell'uomo di fronte a certe sofferenze è uno e uno solamente. E soprattutto perché un fotografo, quando è un professionista, non è un mestierante ma una persona che fa della propria vita il proprio mestiere, che è quello di vivere; in questo caso specifico di sopravvivere al dolore per guardare avanti, per guardare il cielo, sia pure nuvoloso, sia pure se preannuncia che verrà a piovere.

Il sito di Danilo Balducci si trova all'indirizzo www.danilobalducci.com