Fino alla prima metà del secolo scorso il Colonialismo era una realtà conosciuta ai più, ora invece se ne sa poco o niente, anche se in tutte le nostre città europee è forte la presenza di chi viene da quelle terre colonizzate. La fotografia contribuì a narrarci quella storia e, a ben vedere, continua a raccontarcela ancora oggi.

Vi ricordate “Il Paziente Inglese”?

Dune di sabbia, atmosfera esotica, fiabe antiche narrate davanti ad un fuoco nel mezzo del nulla, ma un nulla stellato, fatto d’un cielo di velluto nero trapuntato di stelle luccicanti come diamanti… un sogno, insomma. Il tutto condito da una storia d’amore romantica quanto impossibile… eccetera, eccetera.

Se avete visto il film, bellissimo - nonché uno dei più premiati della storia cinematografica - sapete di cosa sto parlando, ma ve lo ricordo qui perché il conte ungherese László Almásy, oltre ad essere l’interprete principale della love story del film, fu anche, fra le altre cose, un esploratore e cartografo che girava l’Africa con la macchina fotografica al collo e questo perché la diffusione massificata della fotografia e la grande stagione dell’espansionismo coloniale furono fenomeni contemporanei.

“Il Paziente Inglese” accenna alla parte finale della grande avventura coloniale: la Seconda Guerra Mondiale infatti fu l’inizio della fine del Colonialismo, che nel dopoguerra andò via via dissolvendosi, non senza lacrime e sangue di colonizzatori e colonizzati.

Ho voluto richiamare alla vostra mente un film di successo per condurvi per mano dentro un argomento che, esattamente come la pellicola in questione, ha diversi chiaroscuri.

Fin dalla metà del XIX secolo il fenomeno del Colonialismo fu pubblicizzato attraverso le grandi esposizioni universali in cui i prodotti e le ricchezze delle Colonie venivano decantati a scopi propagandistici anche attraverso le immagini.

Algeri, la Grande Poste
Algeri, la Grande Poste

La macchina fotografica non è mai stata un mezzo neutrale: fu parte integrante delle conquiste coloniali e venne utilizzata sia per creare mappe, sia per controllare i nuovi territori e favorire una conoscenza di stampo positivista dei popoli e dei luoghi conquistati.

La fotografia rientrava dunque in quel vasto flusso d’informazioni da cui dipendeva lo stesso progetto coloniale, specializzandosi ben presto nella creazione d’immagini di sterminati spazi vuoti- ideali per nuovi insediamenti colonici -, di popoli primitivi da civilizzare e di categorie razziali da classificare.

Se guardiamo le fotografie dei tempi del Colonialismo, notiamo che hanno tutte più o meno gli stessi soggetti, indipendentemente che vengano dall’Impero Britannico, dalle Colonie Francesi d’Oltremare o dalle storicamente più tarde Colonie Italiane d’epoca fascista. Tutte vanno dall’esplorazione all’indagine antropologica, dall’attività dei missionari alla caccia grossa, dalla documentazione di progetti di importanti infrastrutture alla conduzione di piantagioni, fino al controllo delle epidemie e della criminalità.

Un soggetto in particolare viene riproposto in modo costante: si tratta di fotografie di centri minerari o di piantagioni ordinate e curate, affidate a una forza lavoro sana e lieta di cooperare e dotate di infrastrutture di supporto come ospedali, scuole per gli indigeni e chiese.

Va da sé che si tratta di una propaganda ben orchestrata, per mettere sotto gli occhi dei cittadini europei la prova dell’utilità delle spese per le Colonie, nonché l’importante valore morale degli insediamenti coloniali, volti a portare la “civiltà” in zone altrimenti barbare e prive di quegli elementi che contribuiscono al benessere della vita di ogni uomo “civilizzato”: scuole, ospedali, infrastrutture agricole, chiese.

Anche gli album di famiglia, quelli ormai custoditi nei cassetti o in cantina, quando non addirittura dispersi nei mercatini delle pulci, offrono istantanee abbastanza simili fra loro: giardini lussureggianti, servitori, attività sportive, gruppi di amici, missioni di servizio e animali esotici addomesticati, donne di colore vestite con abiti del luogo, la cui visione contribuiva a sottolineare la conquista, a tutto tondo, del territorio e della popolazione.

Il “Dizionario della Fotografia” Einaudi ci informa che “la fotocamera immortalava anche eventi politici, un esempio su tutti: il bel volume di 35 stampe all’albumina realizzate da Augustine Dyer in occasione dell’annessione della Nuova Guinea nel 1884 e pubblicate a cura del New South Wales Government Printer’s Office.

I governi erano particolarmente interessati alla documentazione delle diverse infrastrutture coloniali. Nel 1869, per esempio, il Colonial Office di Londra inviò fotografi in tutte le colonie britanniche affinché creassero degli album con le immagini di tutti i principali edifici pubblici di ciascuna colonia. Un altro album a cura del Ministero degli Esteri Francese documentò invece lo sviluppo delle comunicazioni in Tunisia, dalle cassette delle lettere agli uffici del telegrafo.”

Safia Omar Mamoud. Foto: courtesy Rino Bianchi
Safia Omar Mamoud. Foto: courtesy Rino Bianchi

Tornando però ai giorni nostri, ho trovato molto interessante il volume “Roma negata. Percorsi postcoloniali nella città”, con fotografie di Rino Bianchi e testi di Igiaba Scego, e l’ho trovato interessante perché mi sembra un perfetto contro-altare ai volumi che vennero pubblicati in epoca coloniale di cui vi ho appena accennato poco sopra.

Come si legge nell’introduzione al volume, “questa doppia narrazione, composta di parole e fotografie, fa affiorare storie di grande umanità, e vuole attaccare e sovvertire l'immaginario collettivo e la visione colonialista che ancora resistono, utilizzando lo stesso medium (la fotocamera) impiegato per giustificare e far accettare l'impresa coloniale”.

È stato proprio questo utilizzo della macchina fotografica il concetto che ha colpito il mio interesse e che mi ha indotta a voler parlare di questo libro nell’ambito del mio pezzo sulla fotografia e il Colonialismo: mi è sembrato come una sorta di riconciliazione fra l’apparecchio fotografico e la Storia che la fotografia ha contribuito a raccontarci, a volte bene, a volte male.

Il volume è uscito nel 2015, ma è un testo che si afferma come un progetto di lunga durata, perché attraverso la doppia narrazione testo-fotografia ci conduce in un viaggio alla scoperta delle tracce dell’avventura coloniale italiana a Roma, tracce che sono davanti ai nostri occhi, quotidianamente, ma che proprio perché son lì da sempre, non le vediamo praticamente più.

Questo percorso fotografico e narrativo ci ricorda quindi un preciso momento storico che spesso tendiamo a scordare, quando non addirittura a rimuovere.

Ruth Gebresus. Foto: courtesy Rino Bianchi
Ruth Gebresus. Foto: courtesy Rino Bianchi

Rino Bianchi e Igiaba Scego recuperano dall’oblio un passato coloniale sempre più disconosciuto e al contempo danno voce a quell’Africa che l’Italia ha prima invaso e poi dimenticato, abbandonandola quasi a se stessa, più o meno volontariamente.

La scrittrice Igiaba Scego racconta i luoghi simbolo di quel passato coloniale e il fotografo Rino Bianchi li immortala in scatti che attraverso l’utilizzo del bianco e nero disvelano i chiaroscuri del Colonialismo, quelli cui accennavo all’inizio.

Troviamo così i monumenti inanimati e le persone in carne ed ossa, eredi di quella storia: il risultato è una costruzione narrativa e visiva di un’Italia decolonizzata, multiculturale, inclusiva, dove ogni cittadino possa essere finalmente se stesso.

O almeno, questo è l’augurio che ci facciamo tutti.

 

Data di pubblicazione: maggio 2017
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