La versione di Max

La fotografia digitale e il controllo del colore

Massimo Pinciroli

La fotografia digitale ha riconsegnato nelle mani del fotografo il pieno controllo sull’intero processo di realizzazione dell’immagine, a partire dalla fase artistica dello scatto sino a quella, più tecnica, della realizzazione del prodotto finale, la stampa...

Nell’articolo precedente abbiamo visto come, in fotografia, i problemi di coerenza del colore abbiano radici antiche.
Non è stato l’avvento del digitale a crearli ma la sua colpa, se di colpa si può parlare, è stata quella averli resi più evidenti grazie alla sua immediatezza.
A differenza di quanto accadeva con l’analogico, però, è proprio grazie alla tecnologia digitale se oggi possiamo disporre di metodi che ci consentono di ovviare ai problemi di fedeltà cromatica.

Mi riferisco alla gestione del colore - color management in Inglese - ovvero quella tecnica in grado consentirci di mantenere la costanza del colore delle nostre immagini lungo i vari passaggi del flusso di lavoro - dallo scatto all’elaborazione sino alla stampa - garantendoci prevedibilità di risultati.

Pur senza addentrarci nei profondi abissi della colorimetria, proviamo allora a chiarire qualche semplice concetto per sfatare il luogo comune che il Color Management sia un argomento per pochi eletti o per superprofessionisti.

Il colore dei pixel

Ogni immagine digitale è composta da pixel, ciascuno dei quali è descritto da numeri che rappresentano la quantità dei tre colori primari rosso (R), verde (G) e blu (B) che lo compongono - od eventualmente dalle percentuali dei valori Cyan, Magenta, Giallo e Nero se la nostra immagine deve essere descritta con un modello di quadricromia CMYK.
In epoca anteriore al color management, indicativamente fino al 2000, i numeri che componevano un’immagine assumevano un significato arbitrario in base alla periferica su cui venivano visualizzati.

Descrivendo un pixel con la terna di valori RGB 0,255,0 inequivocabilmente ci si riferiva ad un pixel di color verde puro, ma altrettanto inequivocabilmente il “tipo” di verde era totalmente subordinato alla periferica che lo aveva rilevato o che avrebbe dovuto riprodurlo.
Praticamente ogni periferica parlava un proprio linguaggio cromatico.

Possiamo anche pensare ai numeri dei valori RGB come ad una lista di ingredienti consegnata a diverse massaie: partendo dalle stesse materie primi, ciascuna di esse mettendosi ai fornelli realizzerà pietanze più o meno diverse. Esattamente come le nostre cuoche, ogni periferica digitale è diversa da altre, seppur simili (per differenze tecnologiche o di usura) e pertanto, ingredienti (numeri) uguali inviati a periferiche diverse non potranno che produrre risultati (colori) diversi.

Se però a tali numeri assegniamo un preciso riferimento, ecco che essi assumeranno un significato univoco: un po’ come se, alle nostre massaie, consegnassimo insieme alla lista degli ingredienti anche una ricetta dettagliata che descriva il piatto che vogliamo realizzare. In tal modo le differenze di risultato verrebbero drasticamente ridotte. Chi si occupa di assegnare il corretto riferimento ai valori RGB dei nostri scatti digitali e di interpretare correttamente i loro “numeri”? Ma il Color Management, ovviamente!

La nascita del color management

Negli anni ’90 del secolo scorso molte importanti Aziende – tra loro, solo per citarne alcune, Adobe, Agfa, HP, Kodak – avevano sviluppato dei sistemi proprietari per risolvere i problemi di corrispondenza colore fra le varie periferiche. Ogni loro soluzione era però incompatibile con quelle delle altre Società. Apple per prima, nel 1993, intuì che tali problemi dovevano essere affrontati su base più ampia ed introdusse nel suo sistema operativo ColorSync, un’architettura di gestione del colore che aprì anche alle altre Aziende. Da questa collaborazione nacque poi l’ International Color Consortium (http://www.color.org/), vero e proprio padre fondatore della gestione del colore così come la conosciamo oggi.

I profili colore: diamo significato ai numeri

Tra le cose messe a punto dall’International Color Consortium troviamo i profili colore, non a caso noti come profili ICC dall’acronimo del creatore. I profili colore non sono altro che file descrittivi del comportamento e della quantità di colori registrabili o riproducibili dalle varie periferiche e servono per dare significato univoco ai numeri delle componenti cromatiche dei nostri pixel.

Mi piace pensare al loro funzionamento come a quello di una unità di grandezza. Per comunicare le dimensioni di un mobile al falegname che lo dovrà realizzare, oltre ai numeri mi premurerò di indicarne anche l'unità misura: ad esempio i centimetri. Senza questa indicazioni, i numeri potrebbero essere oggetto di interpretazione da parte del mobiliere… e pensate a cosa potrebbe succedere se l’artigiano fosse inglese, abituato ad operare in pollici!

Al suo interno il profilo ICC mette in relazione ogni colore della specifica periferica a cui si riferisce con i colori di uno spazio di riferimento assoluto, denominato Profile Connection Space. Questo spazio è in grado di contenere qualsiasi tinta e, ai fini della gestione del colore, servirà agli algoritmi del color management come dizionario di riferimento per tradurre i linguaggi cromatici delle varie periferiche mano a mano che i nostri file si spostano lungo il flusso di lavoro.

Restate con me anche per le prossime puntate per scoprire come si creano i profili, come interagiscono fra loro e, soprattutto, come possono aiutarci ad avere sempre colori fedeli e prevedibili!

Per chi volesse approfondire la conoscenza del mondo di Massimo (Max) Pinciroli lo può fare sul suo bellissimo sito cliccando qui

 

 Data di pubblicazione: novembre-dicembre 2020
© riproduzione riservata