Giuseppe CarrieriL'occhio fotografico non si esercita solamente stando dietro un obiettivo. L'occhio fotografico si sviluppa allenandolo quotidianamente nelle occasioni più impensate: impostando idealmente un taglio compositivo a quel che guardiamo, o riuscendo a entrare in sintonia con le storie che continuamente si susseguono intorno a noi, di solito ignari di quanto ci circonda. Può la fotografia essere uno strumento per ridestare l'empatia che la disattenzione diffusa intorpidisce così facilmente? Quella stessa empatia che, espressa in immagine, fa la differenza tra un semplice scatto e una prova d'autore? Giuseppe Carrieri si immerge nell'epitome della fretta per trovare una grande storia là dove non ti aspetteresti.

Siamo a Milano, in Corso Buenos Aires, una domenica mattina d'autunno. Tutto è molto veloce, c’è il sole e la gente, incredula del prodigio, ne approfitta. I pedoni girovagano, ma non spendono più di tanto. Le coppie si baciano, o litigano. Gli automobilisti sfrecciano, più o meno consapevoli di una direzione. Infine, ecco che arriva lei.

Lei si rivolge alla madre, incappucciata nel suo piccolo berretto nero, con quei passi affrettati che le signorine già mature applicano per strada, a contatto della città disumana, più grande di loro, o per lo meno, solo in apparenza.

“Mamma, mamma… che paura… che paura che mi fa!”.

La madre, allora, con gli occhiali scuri e un sorriso aperto a metà, le riprende la mano, come se quella fosse già la medicina per tutto, e chinandosi prova a rassicurarla. “E tu non ci badare, se ti spaventi... Guarda dall’altra parte”.

Qualcuno ora può immaginare che la piccola dal berretto nero sia inciampata nella visione di un grave incidente automobilistico, con lamiere e corpi accartocciati, o peggio, visto che la cronaca nera non smette di stupire, a qualche omicidio in diretta, con tanto di spettacolare pistolettata dinanzi a passivi spettatori. Ma, per fortuna, non si tratta di niente di tutto questo.

La nostra bimba è solo appena passata dinanzi all’ultimo manifesto pubblicitario con cui H&M, la nota marca d’abbigliamento, tramite la sua scavata e cupa testimonial, lancia massicciamente, per le vie della città, la nuova collezione invernale.

“Che paura che mi fa!”.

È singolare, ma neanche troppo, che ormai le città non siano più fatte ormai per essere viste dai bambini. Che genere di paesaggio offrono le nostre strade all’infanzia che ci passa sopra? E dove comincia lo sguardo per capire il mondo (quindi dove si è)?

Forse più semplicemente, guardandosi attorno, per loro non comincia niente. Ogni volta, infatti, che vedo i bambini passeggiare per le lunghe traiettorie di Milano, non posso negarlo, li vedo, o sonnolenti, ermeticamente segregati in alcuni passeggini/astronavi con barriere impermeabili all’umanità tutta, oppure con la testa china, distratti, lontani, impreparati. Come se tutto il visibile fosse da qualche altra parte, a scuola, a casa, in tv, in un videogioco. Per il resto, in città, non vi è che la paura.

Mi piacciono, invece, i bambini in metropolitana (sotto la città). Non so perché, ma mi sembrano più visti, più sensibili. Una volta ne ho visto uno che, con un ombrello, inseguito dalla madre indispettita, provava a inseguire una farfalla. E non capivo se fosse più strano che una povera farfalla si fosse infilata sul binario che conduceva ad Abbiategrasso o che un bambino riuscisse ad accorgersi di lei, in mezzo a quella calca così insofferente e invadente, grassa e puzzolente. Poi, però, si è svelato tutto.

La farfalla girava e rigirava, e alla fine è caduta. Il bambino ha sospeso d’un tratto la corsa e si è avvicinato, mesto, dicendo solo “Povera farfallina”.

La mamma, così, lo raggiunge e con uno scatto d’ira, perdendo la borsa dal braccio, lo tira a sé e lo rimprovera davanti a tutto il pubblico distratto. “Tommaso, Tommaso… quante volte ti ho detto che non devi correre in metropolitana? È pericoloso e puoi farti male. E poi, quale farfalla e farfalla… non vedi che è solo un pezzo di carta?”.

Tommaso, che si era afflosciato come il suo ombrello, però non ci badava più di tanto a quelle parole e continuava a guardare per terra. D’un tratto si sente lo sbuffo veloce e ruggente del treno che arriva e la gente si stringe, si butta, si lancia nei vagoni, coprendo Tommaso. Alla fine entra anche lui in una carrozza qualunque, con quello zaino rosso fuoco sulle spalle, e l’ombrello sempre più spento, proprio come lui.

Ha la mano sporca appoggiata al finestrino, Tommaso. Alla fine la madre gli tira via pure quella. Io lascio che il treno scorra, lo perdo. Il prossimo, tanto, ripassa tra due minuti. È pomeriggio, la giornata è ancora lunga. Poi mi avvicino un po' e vicino alla linea gialla, proprio lì dove poco prima la corsa di Tommaso era finita, la vedo anch’io la farfalla che fa un ultimo volo, come se si fosse frantumata le ali per quell’ ultimo balzo, come se per lei un battito di cuore finale valesse quel titanico sforzo millimetrico di farsi avanti tra gli uomini.

Il treno passa, è già arrivato, e la farfalla vola via trascinata dalla corrente d’aria calda. Si perde negli stantuffi della città che spaventa i bambini e gli fa coprire gli occhi. Si perde nel metallo nero dei tunnel, lì dove non arriva luce e le vecchie ali bianche rinasceranno come polveri d’acciaio per qualche incantesimo ctonio che magari un giorno Milano rilascerà in superficie a tutti i bambini di buona volontà.

Ma non adesso, non qui. Oggi c’è solo la paura.

E quello che vive, i grandi insegnano, è solo un pezzo di carta come tanti.


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