Giuseppe CarrieriA me questa storia l’hanno raccontata. È ambientata in Toscana, tempi d’oggi. Si dice che la vedova M. abbia dato un’ultima lustratina alla lapide e poi abbia congedato, a furia di fazzoletti zuppi e sguardate basse, il pubblico che affettuosamente aveva portato l’ultimo saluto al marito V., deceduto pochi giorni prima per un male incurabile. Si dice che la vedova fosse veramente affranta, ma in fondo laicamente consapevole, come se alla fine, da quella storia non si aspettasse più alcun happy ending e ci fosse solo da concepire bene la situazione dell’addio.

Sì, M. ora è rimasta sola a parlare con il custode del cimitero che le spiega come non c’è d’aver paura del lichene straripante, non ci sono rovi urticanti o alcuna muffa ingombrante: il marito V. può davvero riposare in pace. Quando tutti sono già andati via, M. rimane col figlio T., che da quando è cominciata la cerimonia non fa altro che piangere. Ma da quando è rimasto solo, lì al camposanto, con la madre in preghiera, c’è qualcosa che proprio non gli torna. Si dice che T. abbia scrutato la tomba per un’ora intera (forse due), ammirato dal portamento del padre ritratto nell’oblò del loculo, e alla fine, strabuzzando gli occhi, abbia tirato un lembo dell’abito alla vedova, nonché sua madre, così che M., per un attimo, si sia sentita ancora una donna ricercata.

“Mamma, mamma, ma quello lì è davvero il babbo?”

“Certo T., ma che ti viene in mente? Certo che è il babbo, non lo vedi quanto è bello in foto?” (e ride, volgendosi al custode che, intanto, brontolando, attende il prossimo arrivo)

“Oh mamma, sì, pure fin troppo bello. Lo vedo talmente bene che quasi non lo riconosco… ma, scusa, il babbo quando mai ha indossato lo smoking?”

“Lascia stare T… Lascia stare.” (e un po’ si toglie della polvere da dosso, ma continua a ridere, mentre il custode è ufficialmente spazientito dal ritardo del morto in arrivo)

“Oh mamma, e dimmi, dove sono finiti i nei del babbo? E la verruca in fronte?”

“Lascia stare T… Lascia stare.”

“Oh mamma e poi, dopo tutto, papà, mica l’era così magro! Sì che era malato ma solo negli ultimi tempi s’era smagrito. Prima l’era bello che tondo!”

Sì, insomma, T. aveva capito tutto, ma ancora stentava a crederlo. La mamma, la vedova V., santa donna, santissima moglie, aveva taroccato la foto del marito che ora, se non era proprio Gregory Peck (da giovani lei diceva che gli assomigliava tanto!), poco ci mancava.

“E che ti devo dire, T? Il fotografo, quando gli ho portato la foto, m’ha detto che non si poteva mica presentare così il morto alla casa di Dio… e ci voleva un ritocchino, mi ha detto che gli aggiungeva qualche livello!”

“Oh mamma, aggiungeva livelli al babbo morto?”, risponde T. mentre, sotto sotto, invidia quello smoking del padre e, in fondo, sogna di morire pure lui per avercelo addosso.

“E sì, T., il babbo ci aveva una certa immagine, non l’hai visto com’è bello con la rosa nel taschino?”

“Oh mamma, ma il babbo era allergico ai fiori!”

“E che ti devo dire? Un miracolo, T., un miracolo!”

“Oh mamma, ma il babbo l’è morto, quale miracolo?”

“Come quale miracolo? Ma non l’hai visto com’è vivo in quell’immagine?”

E così via, il discorso proseguì ancora qualche minuto e spinse T. ad avere così tanti dubbi che appena ritornò a casa, per quanto venticinquenne, decise di fare subito testamento e allegò una fotografia estratta da Facebook con una postilla: “Quando tiro le cuoia, abbiate pietà, prendete questa immagine, non importa che è pixellata. Almeno qui, gli occhi ce li ho aperti”.

Io questa storia l’ho vissuta. È ambientata in una casa con odor di pane e lana. La nonna C. aveva un nipote P. e lo vedeva ogni tanto (il nipote studiava fuori e si assentava spesso), lo abbracciava così sporadicamente che, quando lo incontrava, gli faceva sempre mille coccole e accarezzandogli i capelli (e dopo avergli fatto mangiare quintali di pasta) chiedeva:

“Bello mio, ma quand’è che me la fai vedere una foto della tua bella fidanzata?”

E il nipote, bontà sua, la fidanzata gliela mostrava pure spesso. Accendeva il computer e scaricava immagini da Flickr oppure direttamente prendeva il cellulare e glielo attaccava alle lenti viola, enormi. Ma la nonna, bontà pure sua, aveva la cataratta a entrambi gli occhi e non ci vedeva il resto di niente. “La tecnologia non fa per me” e serrava lo sguardo, poi ritornava a vedere alla meglio “Un posto al sole”.
Un giorno, in un’altra visita, gli domandò: “Ma nipote mio, una volta, non me lo puoi portare un album di foto con la tua ragazza e i tuoi amici? Così, finalmente. li vedo bene anch’io”.

Il ragazzo d’allora cadde in depressione. Se c’era una cosa che lo aveva reso forte nell’infanzia erano tutti gli album di famiglia che i genitori, gli zii, i cugini gli avevano sempre condiviso, mostrandogli chi era stato, com’era nato e cosa era diventato. Sì, insomma, se poteva ricordarsi (o fare finta) di quando era in braccio alla mamma oppure di quella volta che aveva conquistato una giostra, era per merito di quelle fotografie. Ma ora? La sua storia più recente era in un hard disk, ma senza nome (le foto, innominate, iniziavano tutte con DSCN e la numerazione era sballata… da dove cominciare?) e soprattutto senza criterio di cartelle. In pratica gli ultimi otto anni della sua vita erano stati così zeppi di foto che, alla fine, se ne era ritrovato senza. Così accese il computer e iniziò a raccogliere tutto, ma più raccoglieva e meno trovava, perché quelle foto non si sfogliano, non parlano, hanno filtri di nostalgia ma non sedimentano niente, sono vuote eppure appaiono piene. Quelle foto non si mettono più in cornice perché sono diventate cornici precarie a fronte di un ricordo talmente presente, che è già svanito. In casa finisce che si hanno solo le foto dei morti, mentre quelle dei vivi, quelle gioiose e allegre, quelle sono sparse nella rete, ovunque, da nessuna parte, nel mondo piratato, nel soffitto virtuale di posti decadenti alla mercé di tutti, tranne che la nostra. Il ragazzo cadde in depressione perché s’era reso conto che, di questo passo, la sua memoria era in pericolo. Se un giorno Facebook fosse stato disattivato, se l’hard disk si fosse smagnetizzato, se il PC – come era già successo – avesse deciso di non accendersi più, cosa avrebbe portato alla nonna? E ai figli cosa avrebbe detto? I negativi dove li avrebbe mai più recuperati? Così, finalmente, prese varie foto che lo vedevano assieme alla ragazza e le fece “sviluppare”. La più bella la incorniciò e la regalò alla nonna.

Non appena la vede, l’anziana iniziò d’un colpo a piangere e sotto voce gli disse tremante: “Che bello tuo padre, quando era giovane... però tua mamma me la ricordavo diversa, sai?”

E il ragazzo depresso, infine, sorrise. Anche lui, in fondo, poteva diventare un ricordo.

PS: Net(e)scape consiglia per chi s’illude di collezionare memorie di non ricorrere tanto all’utopia di Instagram per far capire che una foto è vissuta. Quanto di vivere il momento stesso.


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