"La notte mi la lasciato la notte nei capelli
Dov'ero? Dove sono andato?
Era assenza, quella, o maggiore presenza?"

(Vicente Huidobro)

Punto primo.

Non te la insegnano a scuola, la forma delle stelle. Ce l’hai dentro di te, già quando sei nato. Ed è un po’ come la sagoma rossa-arricciata del cuore innamorato, nessuno si accontenta della sua reale sembianza, della sua banalità anatomica. Ci serve una figura sognante, un’illusione dichiaratamente finta da alternare alla pochezza dell’immaginazione scientifica. I bambini conoscono a memoria quell’illusione, ancora oggi si può assistere frequentemente ai caleidoscopi delle pagine sgualcite dei loro quaderni, delle praterie di fogli da disegno in cui grandi letti siderali si spremono fuori da piccole dita sporche di giallo, perché in fondo non c’è stella a cinque punte che non assomigli a un grande limone di Sorrento o allo starnuto colorito del canarino.

Punto secondo.

I bambini, la notte, si sa, dovrebbero dormire. Non tanto per ignorare beatamente le cose orrende che una scatola rettangolare, ormai sempre più piatta, potrebbe loro svelare, quanto per non incorrere nel rischio di alzare gli occhi verso un cielo qualsiasi e scoprire che, come Babbo Natale, la bellezza è come sempre tutta un’invenzione degli altri e che questo mondo di cose non li merita. Non esiste nessun serpente marino biondo che striscia nella volta celeste (i più grandi banalmente chiamerebbero queste cose “comete”), non si afferra ad occhi nudi quella bella balena scura dai mille occhi dorati (qualche scienziato si limiterebbe a nominarla solo “galassia”), il cielo di una città se ne frega di questi fiori lucenti senza steli, ha altre ciminiere a cui pensare. E dunque vi siete mai posti la domanda…ma con questi tempi di crisi, com’è che sopravvivono le stelle? Queste, esattamente come il cuore (mi si perdoni la ridondanza analogica, ma commetterei una grave omissione se la tacessi ancora), un po’ tirano a campare camuffate in quelle vesti fantastiche da quaderni di scuola elementare. R-esistono, sì, ma sono nascoste. Il cuore, si sa, è rintanato nella conchiglia del petto umano, dove batte alla ricerca di un suo doppio, mentre le stelle si rimpiangono, appallottolate, a guisa di molliche di fari accucciati dentro la pancia di qualche universo, e alla fine vengono anche scambiate per aerei un po’ sbadati, troppo lenti per imitarle. I bambini, a dir la verità, un po’ questa cosa la sospettano e se entrate, di soppiatto, nelle loro stanze gigantesche di girandole e bambole, prima di fingere di addormentarsi, potete benissimo spiarli, mentre sussurrano al cuscino parole incomprensibili e proiettando sul muro ombre cinesi, si costruiscono a modo loro la notte con la faccia che ha.

NottePunto terzo.

Oggi, però, sulla ribalta c’è una neo-infanzia di sognatori e nostalgici, fatta di giovani videoamatori, esploratori internautici, fotografi pazienti e gravemente insonni sempre più impegnati a sparecchiare questa coperta di smog e lanterne non-magiche che impediscono di vedere il grande naso del cielo verticale. Sempre più cade il telo stellare, quello che Kant voleva legittimamente sopra di sé, lasciandoci intuire orbite nuove in una pelle digitale che, invece, si lascia scomporre e guardare. Scompare, sì, la scena astrale dai comignoli dei nostri balconi, troppo irti di antenne paraboliche, eppure altrove, sui mari dei display, questa ritorna a esibirsi in tutto il suo dannato splendore, in un karma siderale che la fa rinascere sotto forma di fotografia in movimento. Se si vuole osservare un cielo stellato, si guarderà allora un film, anche breve, purché non manchino giga in memoria, perché l’universo, si sa, di capienza ne ha bisogno. In questa maniera lo spazio e i suoi figli andranno costituendosi come un cinemascope in sé perfetto, che rende superflua ogni esigenza narrativa e giova di un’unica suspense data dalla caduta infinita di qualcosa che non precipita mai. Nella sceneggiatura di un cielo stellato il plot è così intenso che ogni secondo ha fretta di scoppiare, urgenza d’avvenire, come se il corso di quelle storie non fosse fatta di trama alcuna, ma di infiniti destini; tutto dura ma è anche fugace e inaspettato, un attimo che si prolunga mentre già sparisce, come quei baci rubati da Humphrey Bogart a donne che gli piombano tra le braccia. Sì, perché il cielo stellato si può vedere ma non nel nostro tempo umano, non con le ore piccole e grandi delle nostre vite, ma con orologi di altri occhi. In base alla suddetta ragione, si è pensato di dedicare il numero di questo ritorno a Net(e)scape, questa rubrica di paesaggi di reti e panorami più o meno virtuali, a tutti quegli osservatori umani astronomici che, invece di un quaderno, si riprendono le stelle a furia di pixel. Osservatori digitali, più che mai, questi cacciatori di immagini impossibili ricoprono la funzione quasi ascetica di testimoni delle scorrere di altre forme di vita. È curioso che uno di questi, Terje Sorjerd, bambino ormai cresciuto che ha sostituito pastelli e pennarelli con i compassi di una Canon 5D Mark II mischiati a una Canon 17 mm TSE, Canon 16-35 mm II, Canon 24/1.4 II, Sigma 12-24mm si definisca semplicemente un “landscape photographer” – fotografo di paesaggi. Non vi è dubbio che l’oggetto che si pone dinanzi ai nostri occhi, quando vediamo le sue opere, siano dei magnifici scenari naturalistici, eppure Sorjerd, mentre con la pazienza di un dio aspetta di costruire il suo film, ignora di essere un astronauta rimasto profugo a terra, un tele-veggente, uno sguardo pressoché sovraumano che allunga la durata del nostro orizzonte e ci spinge nella dote preziosa di un invisibile altrove. Per aspera ad astra, è proprio il caso di dirlo. Si guardi ad esempio la sontuosa ricostruzione di una giornata di vita della Via Lattea, dal titolo “The Mountain”. C’è il vento, la foschia, spiriti invisibili come nuvole che fanno l’amore, è tutto un incredibile melting pot scenografico, dove, come se stessimo sfogliando le pagine di un quaderno di scuola, apprendiamo ancora l’altra forma delle stelle, quelle che ci sono, da qualche parte, e che se non vediamo nella realtà, aspettiamo ora lampeggiare nella finestra del video. C’è voluta invece un’intera settimana perché sul foglio di carta digitale sempre il nostro Sorjerd rapisse il primo piano sorridente e timido di una delle maggiori aurore boreali viste negli anni recenti: sfrigolio di fiamma, sembra quasi un cielo infreddolito, che come noi, intirizziti d’inverno, sputa aria calda dalla bocca, mentre fuori cala il gelo. Ma l’idea di un time-lapse per restituirci elegie astronomiche è diffusa worldwide ed è reperibile in moltissime altre clip, anche più amatoriali, realizzati da sensibili spettatori, vecchi bambini che non hanno perso il vizio. Si guardi a tal proposito un esempio, dall’enciclopedia di Youtube.

Punto quarto. E ultimo.

È dunque che succede così, la poesia non muore, forse più semplicemente si trasforma. Ma tu, figlio mio, quando nascerai, non temere se non avremo più stock di cieli stellati a disposizione. So benissimo che quando di notte piangerai non sarà per una semplice poppata, ma perché qualcosa ti chiama da fuori, qualcosa da cui provieni e a cui ritornerai. Non sarà febbre o un dente che spunta, ma piuttosto, quella tua stella color giallo limone di Sorrento che ti manca. In quel punto della notte, non temere, qualunque ora sia, scatteremo una fotografia. Tante fotografie. Poi ci soffieremo sopra e ripeteremo a memoria l’universo, tanto la notte è lunga. Faremo l’alba e l’indomani salteremo pure la colazione. Vedrai quanto sarà bello svegliarsi più tardi di tutti. E con gli occhi ancora rigati di sonno, stropicciarsi la luce.


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