Uomo, se non alzi gli occhi al cielo, non vedi niente. No, questo non è un inedito comandamento biblico né tanto meno l’editto mistico di chissà quale sciamano che predica su qualche canale satellitare. Può essere piuttosto interpretato come un invito rivolto a tutti noi osservatori, gente che lavora semplicemente affacciandosi alla finestra e per questo condannati alla perenne ricerca di nuove visioni. Ma partiamo da un presupposto banale, platealmente scontato: intorno a noi sempre più si moltiplicano display e obiettivi a caccia d’immagini. Mallarmé diceva che il mondo è fatto per finire per un libro. Bene, se oggi il mondo esiste ancora è solo per diventare una fotografia (tutt’al più una clip di qualche minuto in Full HD). Che siano poi le strumentazioni professionali o formato giocattolo poco importa, questi dispositivi sono divenuti parte del nostro abbigliamento e con essi non ci sfugge più niente. Tuttavia basta vagabondare dentro album virtuali o più semplicemente fare zapping negli scaffali pieni di Giga dei nostri cellulari per comprendere che, in verità, le immagini a nostra disposizione sono finite

Non abbiate timore, la mia è chiaramente una provocazione, la solita iperbole mensile per stuzzicare le menti dei miei venticinque lettori. Eppure, ragionate con me: se escludiamo i nostri sogni/incubi (e almeno su quelli siamo sicuri che nessuno ce li potrà togliere) cosa ci resta da vedere (e inquadrare) nella nostra vita? Le cose, in un modo o nell’altro, le abbiamo viste (e fotografate) tutte: se non dal vivo, certamente su qualche schermo! Siamo dunque in piena paralisi dell’immaginario? Forse sì, forse no. Le cose viste sono tante, ma di certo non si sono esaurite. Piuttosto questa cattiva sensazione nasce dalla circolazione ridondante di scene del quotidiano (ma forse, sarebbe meglio dire del “comune-ordinario”) che spinge a non osservare altro che diapositive tragicamente simili.

Che siano i grattacieli di New York o gli ziggurat mesopotamici, tutto appare digitalmente uguale. È come se la democratizzazione del mezzo tecnologico avesse comportato un’assuefazione del gusto. Ripensiamo solo al canone “linguistico” dell’autoritratto tardo-adolescenziale (ma anche solo “tardo” va bene): macchina rivolta contro lo specchio (non importa se si vede anche il flash, è “figo” uguale), mano sul fianco, occhi semichiusi e smorfia delle labbra a forma di bacio. Tutte uguali, tutti uguali (magari il maschio, piuttosto che la mano sul fianco, sfrutta il suo immancabile sorriso un po’ gigionesco un po’ ebete).

Ma andiamo avanti e pensiamo a un altro “classico” delle nostre rappresentazioni: scagli la prima pietra chi non ha fotografato almeno una volta la propria ombra! Lunghissime, nere ed esili, schiacciate sull’asfalto come fantasmi dei nostri corpi, queste ormai sono divenute il dagherrotipo contemporaneo dello spirito acceso d’innamorati e comitive. Per non parlare dei giochi di prospettiva (dall’uomo che sembra leccare la Torre di Pisa alla donna che bacia la Sfinge) o al modo in cui ossessivamente la gente si fotografa l’occhio (esiste ormai una dichiarata retorica dell’iride, altra immagine perfetta per un seducente profilo sociale). È chiaro che questi non sono altro che pochi esempi ma la circolazione delle immagini e il loro modo di essere trasmesse, pubblicate, condivise e immediatamente “likkate” (nel senso dell’ “I like” feisbukkiano) rende fortemente attuale un problema di omologazione del nostro modo di vedere e farci vedere (e questo influisce anche su altre volontà di rappresentazione, quali possono essere i nostri gusti filmici o molto più banalmente la stereotipicità di certi tatuaggi su polpacci e ginocchia di mezza umanità). Insomma, non sono un apocalittico ma sono ancora convinto che più scatti ci sono, e meno cose in fondo noi tutti siamo in grado di percepire! In tutti i sensi!

A questo punto però ritorniamo alla preghiera iniziale. Uomo, se non alzi gli occhi al cielo, non vedi niente. Alziamoli dunque questi occhi al cielo. E cosa succede? Immediatamente ci rendiamo conto di una cosa: noi tutti osservatori delle nostre prossimità abbiamo dimenticato l’opportunità della lontananza, confondendola per minaccia. Siamo cacciatori risucchiati dalla forza di gravità, piccoli predatori degli avanzi del mondo che confondono il dito con la luna. Fotografiamo, affascinati, gli alberi incisi con i cuori degli amanti, i volti dei bambini prima del pianto o il rullio delle automobili a passeggio nella scia trascolorante dei fanali. Ma è tutto un inganno, una distrazione grave. La verità profonda è che non si vede solo ciò che c’è attorno. Si vede anche ciò che ci sovrasta. Le immagini non nascono accanto a noi, ma lontano, sopra le nostre teste incoscienti. Vedere non significa raccogliere ciò che è vicino, ma recuperare ciò che è distante. La fuga di Net(E)scape di questo mese ci racconta proprio l’incanto di uno sguardo che sollevandosi dall’ovvietà di certe nostre scene ci porta ad alzare gli occhi e, se vogliamo, a ritornare un po’ poeti. Il sito da tenere in considerazione è clouds365.com: da quasi due anni, ogni giorno, in diverse fasce orarie, dalla mattina sino alla sera, Kelly DeLay fotografa il cielo e più in particolare le nuvole. Questo rigoroso esercizio, tenuto costante nel tempo e nel cuore, non è solo un esperimento di ginnastica fotografica, ma come precisa lo stesso Kelly, è un modo per congiungere il senso della propria vita a quella fabbrica di forme e disegni che, instancabilmente, ci segue. E se Monet dipingeva la cattedrale di Rouen al mattino, al primo sole, a mezzogiorno e la sera, il Signor De Lay si è costruito nell’arco di un biennio la sinopia celeste di un canto interminabile di nuvole in viaggio, carpendo chissà quali suggestivi segreti, racconti o più semplicemente misteri.

Ritorniamo indietro e usciamo dal campo. È memorabile il dialogo tra Totò e Ninetto Davoli nel commovente episodio girato da Pier Paolo Pasolini all’interno del film “Capriccio all’Italiana”: gli attori interpretano due burattini che, malvisti dal pubblico, finiscono per essere rimossi dalla compagnia e abbandonati in una discarica. È pertanto solo in questo posto così turpe e sozzo che i due, lontani dai soffitti teatrali, per la prima volta trovano il cielo e s’interrogano su cosa siano quelle strane soffici forme. Non hanno una vera risposta, eppure il personaggio di Totò, fissandole, ne comprende subito la straordinarietà fino a definirle, in punto di morte, straziante meravigliosa bellezza del creato.

Per occhi che ormai non fanno altro che cercare (e mostrare) sempre le stesse cose, il digiuno dello scatto potrebbe essere un modo per ritornare ad alzare lo sguardo verso l’alto e nutrirsi di quello stupore che ogni giorno noi trascuriamo nel cielo, mentre tutto si muove e rapidamente cambia forma. Come quella nuvola di passaggio che quando cadrà la pioggia ci verrà addosso. Sotto forma di piuma. E sogno.

Le foto a corredo dell'articolo sono di Kelly DeLay (www.clouds365.com)


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