I luoghi sono resti di noi, destinati a farci sopravvivere. In un modo o nell’altro non possiamo che dipendere da essi, adattandoci alle loro crepe per resistere alla scarsezza irrisolvibile della nostra durata biologica. Pensiamo a tutte le città in cui lasciamo segni che ci riguardano o ai quartieri e alle strade in cui talvolta andiamo rispecchiandoci. Pensiamo alle case. Le case, soprattutto, ci sono sempre. Sono mappe confidenziali, territori odiati e amati che ci consegnano una dote di tempo immobile e la possibilità tattile di un ricordo immutato. Le mura sfregiate come rughe della pelle, ante cigolanti come occhi dormienti e portoni zitti in attesa di essere spalancati sono solo alcuni tra gli spazi intermittenti e onnipresenti che ognuno di noi prova a trattenere nella propria memoria. Molto spesso, però, non se ne percepisce che un sentimento distante, un’assenza irreparabile mista a quel proustiano sapore d’oggetto smarrito che ci condanna alla ricerca. È in questa frattura, dove l’oblio si muove scalfendo pezzi di quanto siamo, che agisce la fotografia. Basta il suo intervento, casuale o volontario, per ricostruire in un’ideale unità visiva le proporzioni misteriose della nostra geografia umana. Sarà di tale argomento che ci occuperemo questo mese. Dopo esserci interrogati sulla forma che la luce di una Polaroid può imprimere sul destino, questa fuga di Net(E)scape si spinge altrove, infilandosi dentro l’orologio impazzito di una serie di scatti in bilico tra ieri e oggi.

È capitato così che, attraverso gli sconnessi meandri della rete, abbiamo recuperato un sito dove passato e presente fotografico si uniscono attraverso una sovrapposizione manuale e magicamente ciascuna visione mostra il suo volto per quel che è e per quel che è stato. Un fotomontaggio? La faccenda non è così semplice. Potremmo dire quasi che si tratta di un puzzle metafisico, dove essere e divenire delle immagini provano a combaciare e si aggiustano reciprocamente i contorni. Questo, a ben vedere, è però solo uno dei lati della medaglia. Non si tratta, infatti, soltanto di una fusione con cui la macchina fotografica ribadisce la sua – già nota- capacità di creare il (suo) Tempo, bensì è più propriamente una sostituzione dove all’originalità del modello si applica correttamente il calco del suo clone, vanificando l’esigenza di un punto di partenza da osservare. Siamo dentro quell’estetica del camouflage in cui si cammina a spasso di finzioni pervasive, senza più dover considerare gli oggetti da cui queste hanno preso spunto.

Si pensi ad esempio a certe realtà patchwork entrate nei nostri immaginari, anche grazie alla complicità d’invadenti campagne promozionali di note aziende (qui se ne trova un esempio, ma ce ne sono altre): si potrebbe dire quasi che si è sviluppata oggigiorno una certa pratica ludica che mira a meticciare (ma sarebbe meglio dire, annullare) il dato sensibile attraverso la sua resa video/fotografica, lasciando che sia quest’ultima a fornirci il mondo (non più solo un’idea o uno stampo di riferimento) e non viceversa. È come se la moltiplicazione degli obiettivi avesse corroso il privilegio del corpo reale (animato o inanimato, non importa) di farsi impressionare dai nostri occhi naturali permettendo così un rovesciamento tra soggetto e oggetto del vedere, in cui una foto, più che ricordare qualcosa, diventa meccanismo di sottrazione e rimozione delle cose esistenti (questo video su YouTube). È chiaramente una provocazione, dettata dai regolamenti della nuova diffusa banalità dell’occhio.

Nonostante quest’aspetto c’è da considerare però che il suddetto sito, pur vivendo di un elementare e non troppo sofisticato effetto speciale, ci illustra anche qualcos’altro. Il valore di queste immagini che ci scorrono davanti agli occhi ci ricorda come sia solo la fotografia (più quella data dalla pellicola che non quella digitale del facile tasto “delete”) a restituire di ogni figura la sua sfuggevole costituzione. Se Monet, con l’esperimento di Rouen, intendeva dare alla pittura l’opportunità di conservare la quantità di tempo insita in una cattedrale, la fotografia oggi non solo preserva ma gioca prevalentemente sul fondere diverse temporalità. Come si suol dire in inglese - take a picture - questa è davvero l’epoca in cui le foto, più che farle, si prendono e si montano. È anche attraverso questa logica che noi sappiamo raccontare ancora chi siamo e da dove veniamo.

Non si tratta di un tentativo teso a ridare dignità commerciale al vintage, bensì di un’operazione che testimonia la sicurezza della nostalgia. Nello spazio da essa creato, solo in ciò che è stato reso “foto” pare mantenersi la cura salvifica dei giorni. L’immagine superiore che apparentemente copre l’attuale-reale con il suo calco già trascorso non è allora un atto di prevaricazione della rappresentazione sulla vita, né tanto meno una rinuncia al presente. È più prepotentemente la nostra risalita alle origini, la possibilità offerta dai nostri occhi di riappacificarci con tutti quei mondi che si credevano persi o, più umanamente, si erano confusi. E allargando ulteriormente la portata del nostro discorso, tutto sembra tornare.

La nostalgia è, infatti, senza dubbio la malattia canaglia dell’epoca in corso. Si guardino solo gli amarcord televisivi notturni e diurni per capire che non c’è nulla che funzioni di più oggi del rimpianto in bianco e nero, di quel qualcosa o qualcuno che, avendo fatto parte del repertorio delle nostre immagini, viene ricercato da noi inquietamente. Ma la nostalgia, più che tubo-catodica, è soprattutto un’invenzione fotografica: ed è in essa, dal dagherrotipo alla reflex, che si afferma il principio dell’immagine, in cui ciò che s’inquadra non sottrae elementi alla nostra visibilità ma si aggiunge a essi e continua ad esistere lì dove noi non abbiamo più tempo.

Mi verrebbe da dire che quelle del sito sopraccitato non possono essere definite delle “istantanee”: non vi è nessuna misura cronologica tale da riconoscere l’assoluta grandezza dell’istante. Siamo oltre ogni caratterizzazione matematica. Le case, i nostri luoghi non parlano mai un linguaggio temporale che possa essere da noi emulato o capito. Più che istantanee, queste foto sono esattamente il loro opposto: sono l’ovunque del tempo. Sono eterne. Di questa loro entità noi non ne abbracceremo mai interamente le dimensioni, ma è solo grazie all’illusione che ci trasmettono che qualcosa di noi, da qualche parte, in qualche tempo, continuerà ad esistere.


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